giovedì 8 novembre 2012

HO PIANTO PER FLORA



Racconto inserito nel volume collettaneo Italo. Storie di animali di prossima pubblicazione.


1.


Flora, la gazza ladra

                                     Racconto di Piero Carbone



Quella sera ho pianto.  
Per una gazza ladra. 
Nonostante mi vergognassi un po’ di quel pianto, ho appeso al muro della stanzetta una sua foto sotto vetro. E le ho dedicato una poesia. 
Quasi fosse una persona a cui può legarsi un ventenne.

            Ero studente universitario e mentre facevo un giro in bicicletta vidi un ragazzo che seduto su uno scalino giocherellava con un uccello dalle penne nere e dalla coda bianca. Era una scena abituale al mio paese vedere nel mese di maggio ragazzi trastullarsi con uccelli di primo volo o sottratti ai nidi dai genitori per regalarli ai figlioletti. – Lo vuoi? - mi disse quel ragazzo. – Tanto, lo devo buttare. – Lo presi.



            All’indomani, Flora, la gazza ladra che ancora non aveva messo su tutte le penne per volare, fece con me il suo primo viaggio dentro una scatola di scarpe bucherellata, da Racalò a Palermo. Una volta arrivati, le trovai una sistemazione nel soppalco della stanzetta al Pensionato universitario “San Saverio”. Comprai del fegato al vicino mercato “Ballarò”. Presi la piccola gazza dal soppalco, la poggiai sul davanzale della finestra e l’imboccai. Terminata l’operazione, la riposi nella scatola senza coperchio. Appena una breve pausa e subito a studiare. 

Si avvicinava il periodo più intenso dell’anno accademico con la sua raffica di esami. In tutto “San Saverio” i cervelli fumavano. Nel pomeriggio c’era un silenzio surreale. Io portavo avanti lo studio di tre materie contemporaneamente ma quella che mi appallava di più era la Teoretica. “Il pensiero che pensa se stesso e nel gioco dialettico con l’infinito misura la propria finitezza, etc. etc. etc.”. Roba da super intelligenti. O da depressi.



             Un rumore per fortuna mi distrasse. Mi girai verso il soppalco e vidi Flora scavalcare la scatola e dal soppalco lanciarsi verso di me. Planò sulla mia testa. Saltò sulla spalla, beccò i lobi senza orecchini, dalla spalla sul davanzale della finestra e infine sul terrazzo che ricopriva i quattro lati del porticato. La mia stanzetta era al primo piano, potei saltare anch’io sul terrazzo e riprenderla subito. Ma quando il giorno dopo ripeté la stessa acrobazia, la lasciai passeggiare, libera, sul terrazzo, sotto gli occhi rilassati degli studenti che si affacciavano dalle finestre dei quattro lati interni del Pensionato.



            Questo rito durò una settimana; qualcuno incominciò a mormorare; qualche altro sibilò che “l’amico dell’uccello nero dalla coda bianca” fosse esaurito o che addirittura avrebbe “soffiato” al direttore del Pensionato quella presenza animalesca, proibita dal regolamento. Gli impiegati della mensa, però, ogni giorno avevano la premura di mettere da parte frattaglie di carne per lo studente del primo piano. Fatto sta che appena gli studenti non videro per due pomeriggi di seguito la gazza ladra trotterellare sul terrazzo, vennero a bussare per chiedere sue notizie. 
Dissi che si era spezzata una zampetta. Una studentessa in medicina, con cui in seguito saremmo diventati amici, si offrì all’istante di rimediare e fissò la zampetta rotta con uno stecco rigido. All’indomani, con piacevole sorpresa, lungo il terrazzo, tutti gli studenti poterono vedere divertiti la gazza incerottata e più saltellante di prima.

            Dopo un mese la zampetta era perfettamente guarita e l’esame di Teoretica era andato benino. Mi rimanevano quelli di Filosofia morale e di Psicologia. Ero stanco, ma Flora mi teneva occupato e mi faceva distrarre.  Leggevo Kant quando la vidi volare per la prima volta. Prese un’altra abitudine: subito dopo il pranzo, andava ad appollaiarsi sul tetto del Pensionato e rientrava nella stanzetta nel tardi pomeriggio, all’imbrunire. Solo allora chiudevo la finestra. E mi sentivo in compagnia. 
Qualche volta le parlavo, specialmente alla vigilia degli esami, e avevo la sensazione che gorgogliasse qualcosa in risposta.

            Ma una sera, ahimè, ritornando al Pensionato, dopo essere stato in pizzeria per festeggiare l’esame di Psicologia, trovai una brutta sorpresa. Me ne accorsi appena aprii la porta della stanzetta, guardando la finestra. Avevo chiuso inavvertitamente le ante prima di uscire, non pensando che Flora era già volata, come d’abitudine,  sul tetto del Pensionato. Avrà sicuramente tentato di rientrare prima di sera; forse avrà sbattuto, facendosi male, contro i vetri della finestra chiusa. Speravo di trovarla sul davanzale, su uno dei quattro lati del terrazzo, o che addirittura si fosse imbucata in un’altra stanzetta con la finestra aperta. Attaccai perfino un avviso in portineria. Niente. Nessuno l’aveva vista.

            Nell’abbassare la serranda, prima di andare a letto, avvertii una specie di vuoto, quasi l’assenza di una persona vera. Piansi. Incominciai a scrivere. Riaprii la serranda, preparai il caffè, e rimasi più di un’ora a guardare e riguardare il terrazzo, il tetto del Pensionato, la palma immobile al centro del cortile sotto una bellissima luna.  



2.


                                               A Flora
 A la carcarazzòtta c’addrivavu / e nun turnà cchjù.
Alla gazzaladra che ho allevato / e che non è più tornata.

Fusti pi mia un suonnu.

D’unni vinisti un sappi,
un misi di vita assiemi
fusti ccu mia sullena;
duoppu ti nni scappasti.

Chistu un lu pozzu cridiri
né ancora oi lu sacciu
quali fu la to sorti:
la libbirtà o la morti.

Ma si si’ ancora viva
spirticchja e rumutusa,
nun ti scantari, torna,
un fàriti apprïari.

E allegrami li jorna.



Fosti per me un sogno. // Donde venisti non l’ho mai saputo, / un mese di vita insieme / sei stata con me giuliva;// dopo sei scappata. //  Questo non posso credere / né ancora oggi lo so / quale è stata la tua sorte: / la  libertà o la morte. // Ma se sei ancora viva, / scaltra e giocherellona, / non temere, torna, / non farti pregare.  // E rallegrami i giorni.  
                                                                                                             



3.

                  



Le foto 1e 3, molto recenti, sono di Giuseppe Sardo Viscuglia, fotografo "naturalista".
La foto 2, senza pretese tecnico-estetiche, ritrae Flora sul terrazzo del Pensionato Universitario "San Saverio" a Palermo, 1980 o 1981.

2 commenti:

  1. confessa....hai anche tu un'anima nera...non è possibile tutto questo.................. :-)

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  2. Maria Angela Pupillo
    su fb in data 10 maggio 2013:

    Ho letto "Ho pianto per Flora" pubblicato nel volume di cui mi hai parlato, riflettendo bene sull'azione che è il file rouge del racconto: il "prendersi cura". Atto, questo, diretto a qualcuno o a qualcosa che coinvolge la persona che decide di agire su ogni piano emozionale: è l'azione in se stessa,indipendentemente dall'oggetto della cura, che è magica, perché comporta un decentramento per ritornare però a se stessi."Prendendosi cura" ci si fa automaticamente del bene, si lavora per un'automedicazione interiore. Se ognuno potesse rendersi conto della capacità di trasformazione insita nel prendersi cura di qualcosa, il mondo stesso si trasformerebbe. All'istante.

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