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domenica 20 dicembre 2015

"LA DIVINA UMANITÀ" DI LEONE SECONDO SCALABRINO. Recensione augurale

Al piacere di parlare di poesia, della poesia di un maturo poeta che si approssima all’88esimo compleanno, Marco Scalabrino aggiunge il piacere di notare analogie e corrispondenze con un altro maturo poeta dialettale, Pietro Tamburello, ma per trarne impressioni e suggestioni che si possono ricavare dalla vera poesia a prescindere dalle vicende bio-anagrafiche,  senza tuttavia lasciar cadere l’occasione per intendere le riflessioni come annuncio di una data augurale che con questo post si vuole ponderatamente e affettuosamente "celebrare". Non si può non notare nella filigrana della recensione la rivendicazione della dignità e ricchezza storico-semantica del dialetto.  P. C.


 


FRANCESCO LEONE

La Divina Umanità di l’Arti

di

Marco Scalabrino


Per singolare affinità, il percorso artistico di Francesco Leone evoca in me quello di un altro uomo e poeta che (come lui) ho amato e ammirato: Pietro Tamburello. 

Nato nel 1910 a Palermo e lì spentosi nel 2001, quantunque avesse avuto un ruolo primario fra i protagonisti della poesia siciliana moderna (della quale è stato una delle voci più schiette), Pietro Tamburello diede alle stampe unicamente due raccolte in tarda età: Li me’ palori e, a distanza di sedici anni, Rosi di Ventu. 
All’epoca di Li me’ palori, nel 1982, Tamburello aveva 72 anni e al tempo di Rosi di Ventu, nel 1998, di anni ne aveva ben 88. 

Analogamente Francesco Leone da Castellammare del Golfo (TP), classe 1928, oggi alla sua seconda prova, di anni ne compirà a giorni 88 e, alla data di questa pubblicazione (2015), quattordici ne sono trascorsi da ’Na scala longa, la sua antologia d’esordio del 2001, quando di anni ne contava già 73.

Posta in archivio questa schematica digressione, il primo mio assaggio dell’opera di Francesco Leone risale alla metà degli anni Novanta. 
Sul numero di gennaio-aprile 1996 del MarranzAtomo, una rivista letteraria edita in Catania, Antonino Magrì direttore, il testo d’apertura (che, per tensione drammatica, lucida compartecipazione emotiva, felice realizzazione linguistica, lessi con vivo consenso) era titolato ‘N coma; autore ne era, giusto, Francesco Leone. Lì lì mi balenò l’idea di prendere carta e penna o di alzare la cornetta del telefono e … ma non ne feci nulla. Il mondo, si sa, è piccolo; e, in Sicilia, le strade di chi professa con assiduità il dialetto sono destinate prima o poi a intersecarsi. 
E così, difatti, avvenne.

Allorché venni in possesso della silloge di poesie siciliane ’Na scala longa (circa settanta testi con traduzione “il più possibile letterale” in italiano) buttai giù, con l’intento in seguito di rielaborarli, degli appunti. Francesco Leone, considerai, uomo di Lettere, già Preside nella scuola pubblica, estimatore del folclore, è irrefutabilmente soggetto dotato degli strumenti linguistici e culturali atti ad enunciare in un ottimo italiano la propria visione del mondo; ebbene, perché il dialetto? 
Quasi avesse percepito la mia sommessa eccezione, nel proemio al suo lavoro, ecco lo stesso Leone tiene a rimarcare che le poesie in esso inserite sono originariamente concepite così e così è necessario che io le esprima nella loro forma e nel loro contenuto”. 
Una scelta, pertanto, inequivocabilmente consapevole!  

Ambrogio Donini d’altronde, nel 1954, ebbe a scrivere a Nino Pino: 
“Mi pare che voi poeti dialettali siete l’ultima speranza delle nostre Lettere, nazionalmente impoverite se non essiccate”; 
e gli studiosi più avvertiti, ormai da tempo, ribadiscono che “il dialetto non è più portatore di cultura subalterna”; 
che “si è innalzato alla ricerca di più vasti orizzonti di pensiero”; 
che “non costituisce più una ragione di isolamento”. 

E non bastasse (sfatata una volta per tutte l’equazione poesia dialettale = poesia minore), ne La dialettalità negata Edizioni Cofine Roma 2009, di recente Pietro Civitareale ha asserito che “lo scrittore dialettale d’oggi è in genere più evoluto sul piano intellettuale, capace di assorbire nella sua ricerca stimoli e motivazioni legati a una cultura meno circoscritta”; 
che il fenomeno dialettale “ha assunto un carattere universale, inquadrandosi nella più generale questione della difesa dei patrimoni culturali autoctoni”; 
che non è un caso che “la poesia dialettale stia a mano a mano occupando lo spazio di quella in lingua”. 
Basilari, per di più, il suo ribadire che “non è lo strumento linguistico che fa la poesia, ma la capacità creativa del poeta e l’uso che egli è in grado di fare della propria lingua” e (a seguire) che solo “difendendo la propria specificità, la poesia in dialetto può competere con quella in lingua e continuare ad affermare una propria ragione di essere”. 

Tutte le superiori notazioni mi pare che mirabilmente si attaglino all’odierna esperienza.


Un altro frammento del summenzionato proemio: “numerosi raduni, alla cui realizzazione ho fornito il mio contributo”, mi fece inoltre soppesare che Francesco Leone (non solo per i presupposti anagrafici) veniva “da lontano”.
E le conferme (semmai ve ne fosse stato bisogno) puntualmente giunsero, di lì a poco, nel corso di un dopocena estivo, allorché (di poesia e di poeti discorrendo) egli accennò ai propri trascorsi letterari e al sostegno, dagli anni Cinquanta in poi, alla organizzazione, in quel di Castellammare del Golfo, dei tanti concorsi di poesia dialettale, festival della canzone siciliana, raduni poetici ai quali prendevano parte (a conferma dei longevi, saldi, cordiali rapporti fra l’occidente e l’oriente dell’Isola) una cospicua schiera di autori e sostenitori del dialetto siciliano proveniente dal versante orientale della regione (e fra loro, almeno in una circostanza, – Francesco Leone ne fu testimone – il grande Giovanni Formisano) e inevitabilmente saltò fuori il bel nome dello zu Pippinu Caleca, che per parecchi decenni e fino agli inizi degli anni Novanta di quei convivi fu l’anima.

Nella sua prassi di umanista, egli nondimeno non si preclude l’evenienza di estendere ad altri territori contigui la propria attenzione. In tempi recenti, fra gli altri, ha introdotto uno studio sulla figura della poetessa di Salemi (TP) Maria Favuzza (cogliendovi l’occasione per esortare “gli Organismi che sopraintendono alla valorizzazione e alla diffusione della cultura italiana – a fianco della quale non può non occupare il posto che le compete la poesia dialettale – a non limitarsi ai cosiddetti grandi o ai più fortunati, ma a rendersi fautori della ricerca di realtà sommerse”) e ha caldeggiato, nella ricorrenza del quarantennale della morte, l’iniziativa di allestire il convegno di studi sul poeta suo concittadino Castrenze Navarra (del quale ha curato postuma l’ANTOLOGIA delle opere in versi siciliani e in prosa).

N coma, si diceva, è la poesia tramite la quale conobbi Francesco Leone. In essa l’episodio che suscitò in me intensa emozione e del quale serbo tuttora memoria.
Riporto le testuali parole di Francesco Leone, giacché mai ne potrei trovare di più acconce: “Il mio compianto fratello Bernardo si priva della camicia e la porge a me, affinché io la indossi e possa andare a scuola (egli sarebbe rimasto segregato in casa, al mio posto, in attesa che un’altra camicia, che stava ad asciugarsi, fosse disponibile).
Si è trattato – si può credere – del banale prestito di un indumento, ma per me è stato molto di più, prova ne sia che mi ha profondamente commosso e che non l’ho mai dimenticato: il vero amore non ha bisogno di atti eroici, si alimenta di semplici gesti”.       

Tanto concisamente esposto del vissuto di Francesco Leone, premesso che le antecedenti autografe sue notazioni trovano piena cittadinanza in questo nuovo lavoro, vediamo adesso di esporre, in una rapida rassegna, qualcuna delle principali formulazioni ortografiche e sintattiche, di rilevare qualche elemento afferente alla metrica e al ritmo impiegati, di enucleare e di mettere in risalto qualcheduna delle dinamiche e delle invenzioni liriche alle quali egli è approdato.

Prima di addentrarci nell’essenza del libro, non possiamo però non soffermarci sul titolo.

Composto da un aggettivo a dir poco impegnativo, che introduce un sostantivo collettivo altrettanto impegnativo, (La) divina umanità, è in apparenza una incontrovertibile contraddizione, un eclatante ossimoro.
Ad eccezione di un solo (notorio in saecula saeculorum) esempio, come può (ci chiediamo) l’umanità essere divina? 
Umanità concerne l’essere uomo, la condizione umana, con riferimento ai caratteri, alle qualità e soprattutto ai limiti inerenti a tale condizione: la fragilità, i difetti, l’imperfezione; divina, per contro, afferisce manifestamente alla sfera del sovrumano, dell’ultraterreno, del soprannaturale; è qualcosa che procede da Dio.
Divina umanità peraltro, constatiamo, è locuzione assolutamente spendibile in italiano. 
Ciò nonostante (ne abbiamo diretta contezza), questo titolo è stato deliberatamente, in tutta coscienza, scelto dall’autore e giusto in esso, nella chiave di lettura di esso, nella compenetrazione e nella accettazione del progetto che esso sorveglia e promuove, è da rinvenire il senso autentico dell’intero florilegio.

L’Arte, e in seno a essa la Poesia, è un dono di Dio agli uomini, all’umanità tutta; dono del quale l’uomo si avvale per rivelare, per significare, per certificare il suo esser-ci nella Storia. Oltre a ciò da sempre, in una sorta di reciprocità, egli volge a sua volta questo talento (la parola nel nostro caso, quel verbum che in principio era solo presso Dio) all’esecuzione di nuova arte in gloria del Creatore.

Ecco allora la Poesia eleva (quasi) il figlio all’altezza del Padre; ovvero, per dirla meglio con le parole dei grandi: “La poesia può condurre l’uomo dallo stato di natura a quello di spiritualità”, Miguel De Unamumo; “La poesia è l’ala che ci porta verso Dio”, Michelangelo Buonarroti. 
  


Il testo di apertura, Labirinti, che contempla il verso dal quale il titolo discende, è in questo senso emblematico:

A lu puetaun ci sèrvinu  
porti spalancati:
 Icaru arditu,
 cu bàttiti d’ali putenti,  
sduna a scalari immensità di celi.
 ’Un è làbili cira chi strinci  
li pinni di li so’ ali,
 ma la divina umanità di l’Arti

(Al poeta non servono / porte spalancate: / Icaro ardito, / con battiti d’ali possenti, / balza a scalare immensità di cieli. / Non è labile cera che stringe / le penne delle sue ali, / ma la divina umanità dell’Arte).

Icaro evade dal labirinto (nel quale, a Creta, era “grazioso ospite” di Minosse), eccede ossia, con successo, la sua limitatezza umana; ma, eccepisce l’autore, non sono le caduche ali di cera che lo consegneranno alla storia, alla leggenda, all’eternità, quanto piuttosto la professione dell’arte esercitata dall’uomo, corroborata dall’indefesso suo impulso a inseguire (come nella famosa “orazion picciola”) la via della “virtute e canoscenza”, dall’innato suo sprone a misurarsi di continuo con i propri limiti e a superarli.

Sessantatre poesie pressoché tutte ragionevolmente brevi, costituiscono questa raccolta: versi sciolti in maggioranza, decisamente verticalizzati, e versi in rima, perlopiù endecasillabi. Vi coesistono serenamente, gradevolmente, compiutamente, giacché Francesco Leone pratica, da lunga pezza, con valentia e con disinvoltura, sia il metro tradizionale, sia il metro moderno; e così ambedue i canoni vi si ritagliano vantaggiosa collocazione. I versi stessi, le locuzioni, le voci delle quali essi consistono, ci suggeriranno per gradi, generosamente, l’itinerario e gli assunti da illustrare.
Orbene, succintamente, lasciando al Lettore facoltà di ogni altra utile considerazione, inoltriamoci!    

La lunami turnau 
echi di picciuttanza …
l’età ncantata di li primi suspiri
Parramu ncuttu 
di anni longhi vulati nta un ciatu
di gioi ntraminzati di duluri
di cosi fatti e nun fatti
circati e ’un truvati
truvati a jettitu senza circari
di puisia chi ’un sapi chiù la strata

(La luna … mi rimandò / echi di adolescenza … l’età incantata dei primi sospiri … Parlammo fitto / di anni lunghi passati d’un fiato, / di gioie inframmezzate di dolori; / di cose fatte e non fatte, / cercate e non trovate, / trovate a iosa senza cercare; / di poesia che non sa più la strada);

Tu sinfunia, 
chi fai di pòviri scàmpuli 
ntraminzati di lacrimi 
lu megghiu tempu di la vita mia

(Tu sinfonia, / che fai di poveri scampoli / inframmezzati di lacrime / il migliore tempo della vita mia);

Sfògghiu 
nna l’occhi toi cristallini  
ncantisimi d’un libbru 
chi nuddu liggìu 

(Sfoglio / negli occhi tuoi cristallini / incantesimi d’un libro / che nessuno lesse mai); 

Spaziu e tempu 
àutra cosa si fannu  
tra tia e mia 

(Spazio e tempo / altra cosa si fanno / tra te e me); 

Disideri appagati cu stiddi,  
comu chiddi 
chi ora vulissi nchiùiri pi tia  
dintra un velu di fantasia. 

(Desideri appagati con stelle, / come quelle / che ora vorrei rinchiudere per te / dentro un velo di fantasia). 

Sono solo sparute schegge della diffusa liricità che contrassegna tutta la silloge, nella quale rivestono un ruolo preminente la Natura e il Creato: luna, ventu, àrvuli, nùvuli e timpesti, focu e suli, celu, terra e mari, stiddi, in quanto tali e soprattutto in quanto emanazione, espressione, rivelazione tangibile della esistenza di Dio.

Ragguardevole il dovizioso nostro repertorio lessicale, patrimonio linguistico dalle antiche e nobili radici, del quale Francesco Leone dà riprova di prodigiosa conoscenza e padronanza:
ammàtula (invano), dall’arabo bāṭil, inutile;
cannavazzu (straccio);
strippi (sterili), dal latino exstirpus, senza stirpe;
bùmmulu (brocca), dal greco bombùlē, vaso dal collo stretto;
scattìu (caldo afoso);
lavuri (seminato), dal latino laborem, fatica;
racioppi (racimoli);
rastu (indizio);
carcarìa (gorgoglia);
làriu (brutto);
assammarati (fradice);
trùbbula (torbida), dal latino turbĭdus (torbido);
visitusi (luttuose);
mpustimati (infistolite);
vavareddi (pupille);
squarata (scondita);
cumeta (aquilone);
marredda (gomitolo);
scudduriava (srotolava);
pirciàvanu (bucavano);
scorciadicoddu (scappellotto);
gana (voglia);
balati (lapidi), dall’arabo balāṭh, lastricato;
pinnulara (ciglia), dal latino pinnŭla, piccola ala;
acquazzina (rugiada), dal latino aquaceus, acquoso;
tannu (allora);
nsiccumata (rinsecchita);
mantaciari (ansimare), dal latino mantĭca (bisaccia);
ntamatu (imbambolato, sbalordito), dal greco thamèō, stupirsi, spaventarsi;
sbòmmica (rigurgita);
ngràscianu (insudiciano), dal latino crassus, grasso;
zurrichii (stridori);
trìvuli (tribolazioni), dal greco trìbolos, cespuglio spinoso;
scrùsciu (fragore);
scaccanìa (sghignazza), dal greco kakhàzó, ridere sgangheratamente.

Iu,, èu, , ièu, , sono fra le tipologie censite in Sicilia per rendere il pronome personale “io” e ognuna di esse Giorgio Piccitto, Giovanni Tropea, Salvatore C. Trovato, e il loro monumentale Vocabolario Siciliano, hanno attribuito a un determinato distretto geografico. 
Leone non cede a tentennamenti; la sua formulazione è la castellammarese eu: eu, tu e l’àutri; eu ni cugghivi; eu ’n silenziu.

Otto endecasillabi, i primi sei a rima alternata e gli ultimi due a rima baciata, con schema strofico abababcc, organizzano il testo A cu’ si la senti, uno strambotto.
Di otto endecasillabi, tutti a rima alternata con schema abababab, consta invece l’ottava siciliana, che dà luogo a L’amici e Fratillanza (questo a mo’ di botta e risposta, esercizio assai comune in passato).
Sonetto è, viceversa, Casuzza a mari, che d’impatto, per l’ambientazione, propendiamo ad accostare a Giovanni Formisano, del quale Leone è stato fervente estimatore. Il “breve e amplissimo carme”, inventato da Iacopo da Lentini nella prima metà del Duecento e universalmente conosciuto e adottato, contrariamente a quanto avviene in altri circondari letterari, è tutt’oggi in voga nel panorama della poesia dialettale siciliana e l’endecasillabo, La Spiranza è na porta sempri aperta, Supra ogni cosa dòmina l’Amuri, E cu la menti ripigghiu a sunnari, ne è il verso per antonomasia.

In argomento, registriamo, Amuri a la vinnigna è una canzuna, genere (alquanto diffuso nell’ambito della produzione letteraria dialettale siciliana) del quale Antonio Veneziano incarnò l’interprete più squisito.
Il corteggiamento durante la vendemmia: Turi ci fa l’amuri, idda lu sdegnu (Turi le fa l’amore, lei lo sdegno), motivo caro al costume popolare, vi rimbalza (fra le martellanti avances di lui, Turi, e il “sostenuto” sdegno di lei, Rosa), per sfociare, come consuetudine, nel “fatale” epilogo: la resa di lei per l’abilità di lui di blandirla.
Il testo si articola in tre segmenti più una chiusura: ognuno di essi si struttura in due quartine di endecasillabi, per la strofa, seguite da due quartine composte da due quinari che racchiudono due endecasillabi, per il ritornello; la voce narrante esegue le due quartine di endecasillabi della strofa mentre lui e lei si alternano, ciascuno di loro intonando il ritornello.
La frazione più rimarchevole risulta quella dei ritornelli, i quali denotano di volta in volta, sulle solide basi dell’ortodossia, la rigogliosa creatività del poeta.
Eccettuati, tuttavia, esigui canonici sonetti e ottave (fra queste La notti di li pueti), il verso libero la fa da padrone in Francesco Leone e in esso (e in tutto il volume invero) l’ortografia palesa cura, pulizia e coerenza impareggiabili.   

Puisia,
dunami palori vecchi e novi
pi cantari oji e sempri.

Poesia è lemma e assunto frequente in Leone, ti parru cu la rima e cu lu versu (ti parlo con la rima e con il verso), e ad essa il poeta direttamente si rivolge, implorandola di concedergli ancora parole, di rimanere con lui,

ccà dunni tuttu spira puisia
(qua dove tutto spira poesia),

e devotamente dedicandole un intero testo: Ti chiamu.

Oramai 
picca pozzu chiù dari
supra sta terra
(Ormai / poco posso più dare / su questa terra);

Quattru cuti m’arrestanu
a muntata
 e sugnu juntu
(Quattro sassi mi restano / in salita: / e sarò giunto);

A la me casa vàiu, 
 lu jardinu splinnenti di lu Patri
(A casa mia vado, / il giardino splendente del Padre).

Un atteggiamento meditativo, un’aura di malinconia, uno stadio nel quale attecchiscono

 sintimenti straviati: 
gana di mòriri, 
scantu di campari
(sentimenti stravolti: / voglia di morire, / paura di vivere),

perché

lu tempu marpiuni 
 si rusicàu la strata
(il tempo marpione / si rosicchiò la strada).

E nondimeno, laddove egli solo un attimo si ferma a redigere il rendiconto della sua vita, malgrado tutto,

la valanza abbucca di stu latu
(la bilancia pende da questa parte),

egli ne valuta il saldo soddisfacentemente attivo:

supra sta terra
appi assai 
e nun sacciu picchì
(su questa terra, / ebbi assai / e non so perché).

Amuri è l’eterna palora (Amore è l’eterna parola);
amuri chi nun speddi (amore che non cessa);
veru amuri è eternità (vero amore è eternità).

È proiezione eccelsa dell’amore, quella vagheggiata da Francesco Leone. 
L’amore vero è quello dei sentimenti, quello che unisce due anime per sempre e si contrappone e ripudia quell’altro, l’amore dei sensi, quello tutto fuochi d’artificio e cenere. 
L’Amore, con la “A” maiuscola, non ha altre ricette, prescrizioni o espedienti; esso è alimentato dalla luce radiosa di Dio e da Lui proviene e riconduce. 
E, sovente, si accompagna alla pace:

disìu di paci e amuri;
pi cantari paci e amuri;
stu munnu 
senza paci né amuri.   

Tanti i lodevoli testi ricompresi nel florilegio e fra essi (amiamo ricordare): Lu megghiu tempu, magico scorcio familiare; Tra tia e mia, pregevolissima trama d’amore; Chi po’ sapiri?, delicata elegia a tutti gli anziani. 

Con Sempri tu siamo al commiato. 
Esso porta a compimento un ideale percorso anulare; non a caso Francesco Leone apre la silloge con (l’arte e) la poesia e la chiude (quantunque, in una lettura ugualmente attendibile, potrebbe intendersi riferito a qualcosa di più concreto: l’amore coniugale) con la poesia. 
Il nono verso: mai sculurutu ed appassutu mai, offre una ulteriore preziosità: il chiasmo (dal greco chiasmós), figura retorica consistente nell’esporre due o più parole, concetti o elementi sintattici nell’ordine inverso o antitetico a quello in cui sono stati precedentemente esposti; la disposizione così ottenuta dà origine a una struttura incrociata, come suggerisce l’etimologia del termine.   

Ci sarebbero ancora fondati motivi per attardarci, ma è d’uopo volgere alla conclusione.


La poesia di Francesco Leone scaturisce in virtù della personale indole e della educazione ricevuta, del rigetto incondizionato della guerra e dell’anelito alla pace, del credo spirituale e della laica professione di fede osservati, nonché della piena partecipazione ai sentimenti, alle emozioni, alle passioni dell’uomo: l’amore in primis, nelle sue dominanti declinazioni, la familiare e la coniugale.

Francesco Leone dimostra di avere una concezione seria della poesia, un calibrato senso estetico, una aspirazione ai valori assoluti. 
Scenario dei suoi percorsi poetici, nell’individuazione di immagini pregne di efficacia semantica, di essenzialità aggettivale, di limpidezza, è un compendio di coefficienti biografici, affettivi, religiosi, di esperienze esistenziali e vicende sociali, di attenzione agli “ultimi”.


Nell’appagante abbraccio al dialetto, nel genuino registro musicale, i suoi versi si amalgamano in guisa congruente alle questioni focalizzate e dispiegano fili di spiranza, firi e amuri p’arrivari a Diu.


*

Recensione e foto di Marco Scalabrino

mercoledì 10 giugno 2015

PIETRO TAMBURELLO E IL MUSEO DEI POETI PERDUTI. Nella galleria dei poeti siciliani con Marco Scalabrino


Inesauribile sembra la galleria di poeti siciliani che scrivono in dialetto offerti ad un pubblico che forse li ignora o se non li ignora non li apprezza adeguatamente; Marco Scalabrino, sulla scia di Salvatore Camilleri di Catania, Salvatore Di Marco di Palermo e qualche altro studioso di tenace di memoria, cerca di porvi rimedio.  
Il suo non vuole essere soltanto un meccanico recupero mnestico, della semplice memoria insomma, ma  un additare un mondo di fantasia e di linguaggio che potrebbero dare emozioni e gioie intellettuali a chi inconsapevolmente lo cercava e non sapeva di averlo a disposizione "sotto il naso", anzi, "sotto" la propria lingua. P. C. 


Rosi di ventu 

Rosi di ventu

Nun c’è ‘na gnuni d’aria    
dunni jiri a strògghiri lu gruppu
di li me’ jorna persi.

Supra ‘na rama sicca
nun spuntanu ciuri e mancu aceddi.

Ora
cogghiu rosi di ventu
mentri la luna cogghi paparini.

Pietro Tamburello, 1983


NOTE BIOGRAFICHE E ANNOTAZIONI CRITICHE

 SU PIETRO TAMBURELLO

di

Marco Scalabrino


Il 20 Giugno del 2001 si è spento a Palermo – dove era nato nel 1910 – Pietro Tamburello.

“Pietro Tamburello – scrive Salvatore Di Marco nel numero di Luglio-Agosto 1998 di Arte e Folklore di Sicilia, edito in Catania (Alfredo Danese direttore)
 – la cui storia di poeta comincia negli anni Venti del Secolo, esattamente nel 1926 con la nascita a Palermo di quel notissimo e controverso foglio dialettale che fu il Po’ t’ù cuntu … nonostante avesse avuto un ruolo determinante tra i protagonisti della nuova poesia siciliana (se nel 1929 era stato il segretario generale dell’Accademia di Poesia Siciliana “G. Meli” presieduta da Giuseppe Ganci Battaglia, nel 1945 sarà il referente di Federico Di Maria nell’ambito della Società Scrittori e Artisti –
il vero animatore di quel gruppo sottolineò Salvatore Camilleri nel numero di Gennaio-Febbraio 1993 della medesima rivista –

e poi fonderà il Gruppo Alessio Di Giovanni e ancora nel 1956 sarà il direttore di Ariu di Sicilia) pubblicò poco e tardi in volume i suoi versi dialettali.
Sono tantissime le poesie di questo autore palermitano apparse sul Po’ t’ù cuntu tra il 1926 e il 1933 (anno in cui il periodico interruppe le pubblicazioni per riprenderle dal 1952 al 1972) e in altri fogli dell’epoca. Ma il periodo in cui Pietro Tamburello portò a piena maturità espressiva la propria poesia nei temi e nella forma e nel linguaggio tocca gli anni Quaranta e Cinquanta.”  

Nel 1957 Pietro Tamburello è tra gli autori presenti nella Antologia Poeti Siciliani D’oggi, Reina Editore in Catania, a cura di Aldo Grienti e Carmelo Molino. L’antologia, con introduzione e note critiche di Antonio Corsaro, raccoglie, in rigoroso ordine alfabetico, una esigua quanto significativa selezione dei testi di diciassette autori: Ugo Ammannato, Saro Bottino, Ignazio Buttitta, Miano Conti, Antonino Cremona, Salvatore Di Marco, Salvatore Di Pietro, Girolamo Ferlito, Aldo Grienti, Paolo Messina, Carmelo Molino, Stefania Montalbano, Nino Orsini, Ildebrando Patamia, Pietro Tamburello, Francesco Vaccaielli e Gianni Varvaro.
Ma già prima – nel 1955 – quando a Palermo, a cura del Gruppo Alessio Di Giovanni, con la prefazione di Giovanni Vaccarella, vide luce l’Antologia Poesia Dialettale di Sicilia, Pietro Tamburello è tra i protagonisti assieme con: U. Ammannato, I. Buttitta, M. Conti, Salvatore Equizzi, A. Grienti, P. Messina, C. Molino, N. Orsini. Le due sillogi, che all’epoca ebbero vasta eco, testimoniano il primo atto di quel processo – iniziato attorno al dopoguerra – che fu il Rinnovamento della Poesia Dialettale Siciliana.  

Oggi la poesia dialettale – scrive tra l’altro Giovanni Vaccarella nella prefazione a Poesia Dialettale di Siciliaè poesia di cose e non di parole, è poesia universale e non regionalistica, è poesia di consistenza e non di evanescenza. Lontana dal canto spiegato e dalla rimeria patetica, guadagna in scavazione interiore quel che perde in effusione. Le parole mancano di esteriore dolcezza e non sono ricercate né preziose: niente miele e tutta pietra. Il lettore di questa poesia è pregato di credere che nei veri poeti la oscurità non è speculazione, ma risultato di un processo di pene espressive, che porta con sé il segreto peso dello sforzo contro il facile, contro l’ovvio. Perché la poesia non è fatta soltanto di spontaneità e di immediatezza, ma di disciplina. La più autentica poesia dei nostri giorni è scritta in una lingua che parte dallo stato primordiale del dialetto per scrostarsi degli orpelli e della patina che i secoli hanno accomunato, per sletteralizzarsi e assumere quella condizione di nudità, che è la sigla dei grandi.” 

“I dialettali – afferma Antonio Corsaro, in prefazione a Poeti Siciliani D’oggi – non sono mai stati estranei alle vicende della cultura nazionale, anche se disuguale è il loro piano di risonanza. Non c’è dubbio, nell’ambito di una lingua, per dire ufficiale, che assorbe e trasmette tutte le vibrazioni di un’epoca, che il dialetto si presenta come una fuga regionale. Ma in un periodo come il nostro che nella poesia ha versato gli stati d’animo, l’essenza umbratile e segreta dello spirito attraverso un linguaggio puro da ogni intenzione oratoria, i poeti dialettali si trovano nella identica situazione dei loro compagni in lingua, senza che neppure la difficoltà del mezzo espressivo costituisca ormai una ragione valida di isolamento.
Tanto più che i nostri lirici in dialetto sono già arrivati a un tal segno di purezza e a una tale esperienza tecnica da non avere nulla da perdere nel confronto con i lirici in lingua. Anzi, in un certo senso, i dialettali ne vengono avvantaggiati per l’uso che possono fare di una lingua meno logora, attingendola alle sorgenti che l’usura letteraria suole meglio rispettare.”

Nel 1959 – a due anni dalla pubblicazione – nel saggio dal titolo Alla ricerca del linguaggio, Salvatore Camilleri definisce l’Antologia Poeti Siciliani D’oggi antesignana del rinnovamento della poesia siciliana e considera:
“Si cerca di restituire alla parola una sua originaria verginità fatta di senso e di suono, di colore e di disegno, ricca di polivalenze. È una continua ricerca di esperienze formali, in cui l’analogia gioca la parte principale nel creare situazioni liriche e contatti tra evidenze lontanissime. Il fatto strano, fuori dalla logica progressione delle cose, è che la rivolta è nata di colpo, sulle esperienze altrui (italiana, francese, etc.) e non sull’esperienza siciliana.”

Poeti Siciliani D’oggi “fu il libro – asserisce in seguito Salvatore Camilleri, in prefazione a Poeti Siciliani Contemporanei del 1979 – che mise definitivamente una pietra sul passato. Le idee si erano fatta strada, avevano raggiunto i poeti in ogni angolo della Sicilia, anche i più solitari, i meno propensi a mutar pelle, e li avevano costretti a ragionare; e così, nell’ansia polemica del rinnovamento, all’eccessivo sperimentalismo formale e al gusto funambolico dei più avanzati seguì l’abbandono dell’ottava e del sonetto, divenuti solo strumenti propedeutici; a un più deciso lavoro sulla parola e sulla metrica seguì, da parte anche dei più retrivi, il rifiuto dei moduli tradizionali.
Da questo travaglio, dai più avanzati che volevano romperla totalmente con il passato, ai moderati che volevano innestare le nuove idee nell’albero della tradizione, nacque la poesia siciliana moderna, anche grazie alla conoscenza che i più ebbero del simbolismo francese e dell’ermetismo italiano.”

“Abbiamo la data dell’inizio del movimento rinnovatore – ce la segnala Paolo Messina nel suo pezzo in ricordo di Aldo Grienti, pubblicato nel Febbraio 1988 a Palermo, sul numero Zero di quello che fu l’effimero ritorno ad opera di Salvatore Di Marco del po’ t’ù cuntu – quella del Primo raduno di poesia siciliana svoltosi a Catania  il 27 Ottobre 1945.”

E in “La nuova scuola poetica siciliana”, prefazione del suo volume Poesie Siciliane (Palermo 1985), ancora Paolo Messina così ricorda: “Nel 1946, alla scomparsa di Alessio Di Giovanni, quel primo nucleo di poeti, che già comprendeva le voci più impegnate dell’Isola, prese il nome del Maestro e si denominò appunto Gruppo Alessio Di Giovanni.”

Ma procediamo con ordine. Nella prima delle due antologie menzionate, Poeti Siciliani D’oggi, Pietro Tamburello è presente con quattro componimenti: HAJU ‘NA CICALA, LI CIAULI, LA BANNILORA e FUNTANA
Quattro testi, se da un canto sono pochi per esprimere compiutamente un parere, d’altro canto sono comunque sufficienti a ravvisare – questo è il nostro caso – l’impronta del poeta.

Antonio Corsaro nella nota critica in prefazione a Poeti Siciliani D’oggi, nei riguardi di Pietro Tamburello, così si pronuncia: “Pietro Tamburello ha un dominio sicuro dei propri mezzi, si libra sulla realtà divina delle cose, romanticamente, e ne trasmette il fervore, l’ardore, attraverso un lirismo consapevole e vissuto nel bisogno di dare all’uomo un aiuto che supera, per l’assoluta ragione dell’insufficienza umana, i limiti terrestri. Nello specchio della sua emozione si riflettono le più vive ansie dell’anima e rimandano a un certo, arcano splendore. Sensibilissimo è il suo verso all’inalienabile fondo religioso dell’essere.
C’è ancora in Tamburello la coscienza di ciò che rappresenta per il poeta il mistero della parola chiusa nel cuore, della parola essenziale in una pronunzia netta e lucente, simile alla corrente di un fiume che leviga le pietre e le fa splendere.” 
Lirismo – di cui seguiranno adesso alcuni stralci – realizzato da Pietro Tamburello con termini, espressioni, situazioni del tutto siciliani; lirismo che coniuga compiutamente una forma autenticamente originale, innovativa e uno spirito genuinamente siciliano:

Haju ‘na cicala nchiusa ni lu pettu … lu so rispiru è nchiusu / sutta li pinnulara di la notti, / e nun c’è nuddu mancu ca lu sapi / chiddu ca si passa / cu ‘na cicala nchiusa ni lu pettu; lu celu / sbalanca lu so pettu senza funnu / supra li nastri bianchi di li strati; Dintra lu pettu si gnunìa lu cori / e l’ariu è fermu / comu siddu lu tempu / s’avissi   misu ‘mpintu ad aspittari; Mi vogghiu fari l’ali di palumma / e jiriminni ‘ncelu / a sentiri sunari / li cincianeddi d’oru di la notti.
   
In una postilla alla poesia FUNTANA di Pietro Tamburello, il poeta e critico romagnolo Giuseppe Valentini sulla rivista Il Belli (fascicolo n°2, luglio 1955) così diceva: “Il dialetto siciliano fa pensare, delicato e ricco com’è, al frusciar di una mano giovane su di un arcaico velluto”.
E Paolo Messina, in un articolo apparso il 21 Maggio 1955 sul periodico culturale Il contemporaneo di Roma ebbe a scrivere: “La poetica di Pietro Tamburello è caratterizzata da una volontà di resistere alla realtà tridimensionale delle attuali esperienze ed esaurisce nel dialetto le tendenze vicine e lontane del simbolismo romantico … e si identifica col fenomeno di decomposizione di una certa cultura verso una base più larga dalla quale riceverà un nuovo vigore   ascensionale.”    
Un linguaggio, quello di Pietro Tamburello, permeato di strutture analogiche e metaforiche e di pregevoli invenzioni: il cielo che si spalanca immenso sul mondo, il tempo che rimane immobile ad aspettare, il volo nei sonagli d’oro della notte; una realizzazione individuale del sistema linguistico che va dunque percepito, “inghiottito”, metabolizzato.

Ma riferiamo ulteriori testimonianze circa l’opera di Pietro Tamburello.

Il giornale di poesia siciliana, nel numero di Settembre 1988, riporta il pezzo di Salvatore Di Marco: Una Occasione Mancata. “L’8 di agosto del 1952 rivedeva la luce in Palermo il noto periodico di poesia dialettale siciliana Po’ t’ù cuntu dopo ben diciotto anni di assenza. Intanto erano scomparsi i prestigiosi collaboratori dell’anteguerra che negli anni Trenta avevano dato lustro al Po’ t’ù cuntu: parlo di poeti e scrittori come Luigi Natoli, Alessio Di Giovanni, Vincenzo De Simone, Vito Mercadante, Vanni Pucci. Sicché si ha l’impressione malinconica, rileggendo oggi i vecchi fascicoli del 1952, che la direzione del Po’ t’ù cuntu non si fosse resa ben conto delle laceranti trasformazioni che, rispetto agli anni Trenta, erano intervenute nel tessuto sociale dell’isola a modificare anche il quadro complessivo delle vocazioni letterarie. E ciò pure nell’ambito della poesia siciliana. 

Questa situazione non piacque ad un gruppo – certo il più inquieto a quel tempo – di collaboratori del Po’ t’ù cuntu. Si trattava di Ugo Ammannato, di Pietro Tamburello e di qualche altro che già aveva scritto sul quel giornale dal 1927 in poi. Ma anche di giovani come Paolo Messina. Infatti, accanto a Federico De Maria nel 1945, essi avevano rilanciato la poesia dialettale siciliana attraverso affollati incontri con il vasto pubblico nell’Aula Gialla del Teatro Politeama di Palermo. 
E nei poeti che vi partecipavano, da Miano Conti a Nino Orsini, da Tamburello ad Ammannato, si era diffuso sin da allora il rifiuto della vecchia poesia dialettale e un bisogno ancora indistinto di cambiamento. 

Questi incontri indetti dalla Società Scrittori e Artisti di cui Federico De Maria era il presidente, e organizzati da Ammannato e Tamburello, furono chiamati – per suggerimento di quest’ultimo – Ariu di Sicilia. Allorquando nel 1953 quel gruppo di poeti riunito da comuni idealità di rinnovamento letterario e culturale – ancora non pronto a chiamarsi definitivamente Gruppo Alessio Di Giovanni come avverrà invece successivamente – constatata l’impossibilità di condurre in Sicilia un discorso di poesia nuova attraverso le pagine del Po’ t’ù cuntu, e pensò quindi di darsi un proprio foglio di proposta e di battaglia letteraria, Pietro Tamburello volle chiamarlo appunto Ariu di Sicilia. Ariu di Sicilia fu fondato nel 1954 da Pietro Tamburello che ne assunse la redazione. 
Era un foglio di quattro pagine, che usciva ogni mese e che durò esattamente da Marzo a Ottobre di quell’anno. Visse il suo breve tempo in povertà di mezzi finanziari e fu un semplice inserto del Po’ t’ù cuntu. Nell’editoriale del primo numero Pietro Tamburello aveva annunciato i seguenti tre obiettivi:

1)    promuovere una nuova fioritura di studi intorno alla letteratura siciliana,
2)    rinnovare la tradizione alla luce delle ultime esigenze estetiche,
3)    sottoporre a revisione critica le opere degli scrittori delle generazioni passate.

I testi letterari pubblicati furono in tutto 115 di 41 autori. Tra questi c’erano tutti i poeti che si riconosceranno quanto prima nel Gruppo Alessio Di Giovanni. Parlo di Ugo Ammannato, Miano Conti, Aldo Grienti, Paolo Messina, Carmelo Molino, Pietro Tamburello e Gianni Varvaro. Meno costanti nella collaborazione ma presenti: Ignazio Buttitta, Salvatore Di Pietro, Nino Orsini, Elvezio Petix.” 

Paolo Messina in Appunto per Pietro Tamburello, pubblicato sul numero Settembre-Ottobre 1983 di Arte e Folklore di Sicilia, annota: “L’esperienza del Gruppo Alessio Di Giovanni (di cui Pietro Tamburello fu uno dei fondatori) doveva lasciare una traccia incancellabile nella storia della nostra letteratura. Pietro Tamburello ci proponeva lo studio degli autori stranieri che avevano dato origine a tutti gli “ismi” contemporanei e che possedeva in vecchie edizioni. Ricordo che era suo il primo esemplare delle Fleurs du mal (di Charles Baudelaire) che ebbi tra le mani. Altra svolta legata all’esperienza del Gruppo Alessio Di Giovanni fu la nozione dell’impegno che non ammette alcuna dipendenza politica, ma punta direttamente sull’uomo e sulla lotta dell’uomo per uscire da una condizione disumana.
Qui la poesia di Tamburello si fa epica ed accorata insieme. Si avvicina nuovamente ai modi popolari, poiché si rivolge al popolo, ma restando libera nella sua misura. Tamburello ha il dono di suscitare una vasta zona di silenzio intorno al suo discorso poetico, di modo che l’oggetto che ci presenta rimane come sospeso in quest’aura magica dove nessun’altra voce interferisce e ne confonde la visione (per usare un termine dei formalisti)”. 
  
Sul n°2, Ottobre 1970, di La Fiera Dialettale, pubblicato a Roma, Salvatore Di Pietro scrive: “In quest’ultimo dopoguerra a Catania e a Palermo si è avuta una splendida fioritura di poeti. La caratura di questi poeti autentici lasciamola stabilire in altra sede. A noi importa richiamare questi nomi, l’uno accanto all’altro, perché nei contemporanei non se ne offuschi il ricordo: perché essi brillino nell’intero arco della poesia dialettale italiana. E sono tanti questi poeti, tanti e pochi nel contempo … a Palermo: Giuseppe Denaro, Giovanni Girgenti, Gianni Varvaro, Enzo Barbera, Nicolò Fontana, Nino Orsini, Pietro Tamburello.” 

Il giornale di poesia siciliananumero di Giugno 1988 – presenta un profilo di Fortunato Martore Cuccia su Ugo Ammannato: “L’esordio letterario di Ammannato si ha intorno al 1927 sulle colonne di un settimanale di poesia dialettale che si pubblicava a Palermo appena dall’Ottobre del 1926, il Po’ t’ù cuntu. Scrivevano a quel tempo sul Po’ t’ù cuntu Salvatore Ingrassia, Carmelo Truscello, Ciccio Carrà Trincali, Antonino Equizzi, Salvatore Volpes Lucchese, Giovanni De Rosalia e tra i giovanissimi Pietro Tamburello, Nino Tesoriere e altri. Trasferitosi a Palermo sul finire degli anni Venti, egli (Ugo Ammannato, n.d.r.) fu, con Pietro Tamburello, tra i fondatori della Accademia Dialettale Siciliana “G. Meli” (di cui lo stesso Tamburello era stato l’ideatore)”.

Ancora il giornale di poesia siciliana sul numero Luglio-Agosto 1988 riporta il pezzo di Alberto Prestigiacomo in ricordo di Gianni Varvaro: “In quel tempo (gli anni Sessanta, n.d.r.) con Giuseppe Ganci Battaglia andavo in giro per i circoli di Palermo e della provincia a fare recite e conferenze su poeti siciliani. La domenica mattina, al bar di Villa Sperlinga d’estate e al bar Santoro d’inverno, incontravo i poeti che io avevo chiamato Nuovo Gruppo Alessio Di Giovanni e c’erano Nino Orsini, Paolo Messina, Pietro Tamburello, a cui si aggiunsero Giacomo Cannizzaro, Emanuele Baglio, Gianni Varvaro”, e dalla intervista immaginaria di Maria Sciavarrello con Pietro Tamburello pubblicata sul MANIFESTO della Nuova Poesia Siciliana – Catania 1989 – traiamo:

 “Se ancora oggi la poesia siciliana ha un seguito numeroso e se, come tutti riconoscono, ha cambiato pelle inserendosi nel vivo della cultura europea, spesso al passo con i movimenti poetici più avanzati, si deve soprattutto a due poeti che hanno saputo essere anche animatori culturali: Salvatore Camilleri a Catania e Pietro Tamburello a Palermo. Due poeti che hanno lavorato molto per gli altri, lasciando magari in ombra se stessi.” E prosegue la Sciavarrello: “Forte com’era di una cultura che gli veniva dallo studio dei poeti che più avevano contribuito in Europa e nel mondo al rinnovamento della poesia, da Lorca a Machado, da Baudelaire a Mallarmé, da Valery a Eluard, da Ezra Pound a Eliot, da Esenin a Maiakovski … Pietro Tamburello cominciò a maturare l’idea di una poesia siciliana moderna, non più legata al folklore e alla tradizione popolareggiante, non più sorda alla voce di rinnovamento formale e contenutistico, finalmente aperta alle innovazioni, più responsabile della realtà.”

La rivolta, la rivoluzione alla quale a più riprese abbiamo fatto riferimento, ha spazzato via la ridondanza dell’aggettivazione, l’oleografia dei vezzeggiativi, la sclerosi della tradizione.
“Il dialetto – afferma Paolo Messina nel pezzo in ricordo di Aldo Grienti, pubblicato a Febbraio 1988, a Palermo, sul citato numero ZERO del ritorno del Po’  t’ù  cuntu – non era più portatore di una cultura subalterna, ma si era innalzato alla ricerca di contenuti (e quindi di forme) su più vasti orizzonti di pensiero. Sicché con lui (e con gli altri poeti definiti allora “neoterici”) la poesia siciliana toccava il punto di non ritorno, aboliva ogni pregiudiziale etnografica, pur restando (linguisticamente) siciliana”.

E accogliamo la voce propria di Pietro Tamburello.
Museo Etnografico è un pezzo non firmato, apparso il 31 Maggio 1954, ma sicuramente di Pietro Tamburello, sostiene Salvatore Camilleri.

Dice tra l’altro Tamburello:

 “Un poeta, noi pensiamo, comunica coi mezzi che egli crede esteticamente più idonei alla liberazione del canto. Noi vagheggiamo un ideale museo ove riporre definitivamente i tardi epigoni del Meli e dello Scimonelli, i rapsodi d’un inverosimile mondo pastorale, i beati menestrelli di una Sicilia convenzionale e manierata e tante brave persone che professano critica letteraria e non sanno distinguere fra la melensa faciloneria dei loro compagni di museo e la consapevolezza di chi affida al linguaggio del focolare i propri sentimenti, il suo pensiero e le sue fantasie, solo per una esigenza spirituale che si può discutere ma non ignorare. In questo museo delle idee sbagliate non può mancare quella di chi considera il poeta siciliano un complemento del folklore locale, quasi una curiosità paesana da offrire ai visitatori insieme al carrettino, alla brocchetta e al paladino di Francia impennacchiato.

E su Nuvole e Rane, apparso il 30 Giugno 1954 in Ariu di Sicilia, a proposito del Rinnovamento della Poesia Dialettale Siciliana puntualizzava: “Sappiamo tutti dove andare, ma non siamo concordi sulla via da seguire”.  

Il Giornale di poesia siciliana, numero di Giugno 1988 propone un pezzo di Pietro Tamburello in ricordo di Vito Mercadante: “Tra le mie cose più care conservo uno foto (del 1933, riprodotta in calce all’articolo, n.d.r.) in cui, con Nino Orsini e altri amici, ci stringiamo intorno al suo sorriso nel giardino della sua casa. Qualche anno ancora e poi la poesia siciliana avrebbe perduto la dolcezza di quel sorriso.”

“Ariu di Sicilia – ammette lo stesso Tamburello in una sua lettera pubblicata sul numero di Settembre 1988 del giornale di poesia siciliana – fu un’occasione mancata ma senza rimpianti dico io. Ho predicato il Vangelo ai turchi nella speranza che qualcuno si convertisse ma, come avvenne a San Francesco, i turchi sono rimasti attaccatissimi al loro Corano.”

E occupiamoci adesso, brevemente, delle due sillogi edite di Pietro Tamburello.

Carmelo Lauretta ne “La lirica di Pietro Tamburello” pubblicato sul numero di Luglio-Agosto 1991 del giornale di poesia siciliana commenta: “Edite nell’82 Li me’ palori sono l’unica (alla data dell’articolo, n.d.r.) opera di Pietro Tamburello, una delle voci più originali e più rare della lirica dialettale moderna.
Il titolo Li me’ palori non vuole significare, come potrebbe sembrare, un confronto polemico o un’autodifferenziazione dalla routine della produzione contemporanea, ma un’emblematica rivelazione delle sobrie valenze di linearità, della sorvegliata cura di linguaggio, della dimessa e confidenziale affabulazione, che contraddistinguono l’intera raccolta.
Le quaranta liriche del volume sono il frutto dell’esperienza poetica di oltre un quarantennio di vita. Esse abbracciano, infatti, il periodo che va dal ’36 al ’82, ed ovviamente accusano una coraggiosa eliminazione di precedenti composizioni liriche ed una decisa rinunzia della produzione giovanile. Tamburello dimostra così che ha il dono di non nutrire smanie di esibizione e che è dominato da una concezione seria della poesia, da un rigoroso senso estetico, da una ricerca di valori assoluti. Egli affrontò, nel dopoguerra, i problemi del rinnovamento della scrittura della poesia, dei suoi rapporti con la tradizione siciliana e della sua “europeizzazione”.

Volle che la poesia fosse impegno di penetrazione e di scavo interiore e che poggiasse su precise basi ideologiche e sulla capacità di una continua auto-analisi stilistica.
Nessuna meraviglia se la sua opera, ancora oggi, ha tutti i numeri per essere viva, attuale, piena di freschezza melodica e di alta connotazione estetica.
Mappa dei suoi itinerari poetici è una summa di materiali biografici, psicologici, spirituali, ambientali: affetti, esperienze esistenziali, vicende sociali, travaglio degli umili che trovano in Tamburello il loro registro lirico coerente e si traducono in contenuti eidetici, i cui nuclei-base sono amore, solitudine, pane, morte, paesaggio, solidarietà.

L’adesione al dialetto si rivela pronta, spontanea, non condizionata da tergiversazioni opzionali né da teorizzazioni provocatorie.
La fenomenologia della parola dialettale si definisce ai suoi occhi nei termini di una seconda nascita, di una rivelazione, di uno strumento cioè che meglio garantisce alla sua poesia il carattere di genuina musicalità e di presa diretta con le realtà tematiche nettamente individuate. Quello che colpisce nella silloge è la tempestività nell’individuazione delle immagini adorne di semplicità e di pregnanza semantica: niente sfruttamento di astrazioni generiche né baloccamenti copiosi di apparati aggettivali. Predominante nella costruzione sintattica è la forza del sostantivo in una all’impiego dell’indicativo, che esprimono realismo e concretezza.”

Arte e Folklore di Sicilia, sul numero menzionato di Luglio-Agosto 1998 pubblica il saggio di Salvatore Di Marco su Rosi di ventu

“Assai vicino alla lirica pura secondo la dettatura montaliana, Tamburello però ne semplifica il modello e l’occulta sotto gli abiti della tradizione siciliana delle forme rimate, del sonetto, dell’endecasillabo che risuona nelle composizioni a verso libero, lo occulta tra le fioriture lessicali di un dialetto armonioso ed antico. Da qui poi Tamburello ascende alle suggestioni della grande poesia francese. E, fuori dalle scene mondane, ormai raffinato artefice della propria parola poetica, giunto alle misure essenziali del dettato … ad ogni componimento consegna ineccepibile forma, dove nulla è superfluo o casuale”.

Lumie di Sicilia, edito in Firenze dall’Associazione Culturale Sicilia - Firenze, sul numero 37 di Ottobre 1999 riporta il mio breve saggio su Rosi di ventu

“L’uomo e il poeta Pietro Tamburello – la cui impronta comunque avrebbe figurato nel boulevard universale dei Poeti – sanno trovare, ancora oggi, i motivi, l’animo, il gusto di riproporsi, di calarsi nella tenzone, di rischiare. Con la puntuale prefazione di Antonino Cremona, ha visto luce infatti – a distanza di sedici anni dalla prima precedente opera – la nuova silloge di Pietro Tamburello “Rosi di ventu”. Fragili boccioli in apparenza – il gambo mediamente non supera i venti versi – esse, scevre da qualsiasi mirabilia fonografiche, sono ben radicate nel più fecondo del terreni: la ninna duci di lu me dialettu.

Scrive Salvatore Camilleri sul numero di Luglio-Agosto 2001 di Arte e Folklore di Sicilia: “Due volumi di poesie del Tamburello – Li me’ palori, del 1982 e Rosi di ventu, del 1998 – nel complesso poco più di mille versi, pochi rispetto a quelli composti durante tutta una vita dedicata alla poesia siciliana. Non si può parlare, quindi, della produzione del poeta, ma di una scelta. Pietro Tamburello è un poeta ben degno di essere studiato, in profondità, lungo gli itinerari che l’hanno portato alla sue cose migliori. Dico per lui ciò che ho detto per Mario Gori e per Santo Calì: Approfondiamone l’opera con impegno e amore.”  

D’altronde sempre Paolo Messina, nella introduzione al volume DOVE PASSA IL SIMETO di Aldo Grienti, ribadisce: “Qualcuno (uno storico della nostra letteratura) prima o poi dovrà pure far piena luce anche su quella nuova ouverture siciliana”.

E chiudiamo, fidando che gli incitamenti di Salvatore Camilleri e di Paolo Messina possano essere prima o poi raccolti, con due esempi della poesia di Pietro Tamburello.  
La prima, La scupetta di Camillo Torres, tratta da Li me’ palori:


La scupetta di Camillo Torres  
(prete guerrigliero boliviano)

Giustu Patri Camillu.

Tu dici ca la terra
la so minnedda ni l’appara a tutti
e ogni timpa avi un occhiu piatusu
puru pi li sfardati.

Tu dici ca lu ‘nfernu di li vivi
è arruvintatu comu ‘na carcara
e nun c’è santi e nuddu paraddisu
pi cu’ si senti l’occhi di li figghi
azziccati a li rini.

Perciò pigghiasti ‘n manu ‘na scupetta
ti ni jisti sbannutu a la vintura
e quannu ti sbamparu nni lu pettu
li rosi di la morti
la jisasti a lu celu
comu facevi cu lu sacramentu.

1969


La seconda, Rosi di ventu, dalla omonima antologia:
 
Rosi di ventu

Nun c’è ‘na gnuni d’aria    
dunni jiri a strògghiri lu gruppu
di li me’ jorna persi.

Supra ‘na rama sicca
nun spuntanu ciuri e mancu aceddi.

Ora
cogghiu rosi di ventu
mentri la luna cogghi paparini.