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giovedì 20 agosto 2015

COSA AVETE MANGIATO OGGI? NON SI DICE. "Ricordi all'improvviso" di Eduardo Chiarelli

archivio e pensamenti: CHE SI MANGIA OGGI? CAZZAMARRU, NATURALMENTE! Ricette "storiche" illustrate da Corrado Di Pietro




Ricordi all'improvviso
di 
Eduardo Chiarelli



Su, Papà, portaci al Mc Donald, è da tanto che non ci andiamo! ripetono a mo' di cantilena i miei bambini.
Sanno che non vado matto per quel cibo che odora di sebo, e che preferirei, visto che viviamo in una città di mare, portarli in un ristorante  dove servono dell'ottimo pesce appena pescato.
Ma io e mia moglie sappiamo che se non li accontentiamo dovremo udire la loro litania per tutta la mattinata, e poi come si dice… ogni tanto!
Arrivati al ristorante, cominciano a consultare il menù, ma non riuscendo a decidere cosa ordinare, dopo tante esitazioni e ripensamenti, entrambi mi chiedono : - Cosa mangiamo?
Ed è in quel momento che improvvisamente mi riaffiora alla mente un'antica risposta: 
“Cazzi di monaci!
Senza accorgermene, la ripeto e  al contempo rido, perché era questa la risposta che mia Nonna mi dava quando anch'io, da bambino, le chiedevo con insistenza cosa ci fosse da mangiare.

Solo molti anni dopo avrei capito che per la generazione dei miei Nonni tutto il cibo era grazia di Dio, per questo non tolleravano certe domande, infatti dicevano anche: Inchi la panza e inchila di spini (riempi la pancia e riempila di spine), proprio per dire che non si doveva fare gli schifiltosi e che la cosa più importante era riempire lo stomaco.

Molti erano i modi di dire relazionati con il cibo, e fra questi, c'era quella raccomandazione che i genitori facevano ai propri figli prima che questi uscissero di casa, ed era:  se qualcuno gli avesse domandato ciò che avevano mangiato, dovevano rispondere: Pani e radici, chiddru chi mangia nun si dici (pane e ravanelli, quel che si mangia non si  riferisce).
Frase a doppio effetto questa , che serviva sia per  proteggersi dall´invidia dei vicini, nel caso avessero mangiato una pietanza particolarmente prelibata o costosa, sia dalla vergogna, nel caso invece si fosse trattato di una povera zuppa di borraggine, bietole o cicoria. Verdure queste che crescevano spontanee nei campi, e per tale motivo dette: di lu Signuruzzu (del Signore).

Quanta sofferenza e quanto sacrificio dunque, in quelle semplici parole, ma anche tanto orgoglio e tanta dignità.

Ci sono frasi, espressioni, modi di dire, che a distanza di anni ci fanno sorridere, perché divertenti, pittoresche, e anche se a volte un po' volgari , sempre sagge, immediate e dirette, perché proferite nel nostro bel dialetto.

Parole sulle quali credo valga sempre la pena soffermarsi e meditare, perché riflettono la realtà di un mondo che ci appartiene, e che arrivano dritte al cuore, perché era proprio dal cuore che venivano.


sabato 27 aprile 2013

SE LE CANTAVANO IN RIMA


NON SOLO RAGGIA


Col pugno chiuso della mano destra colpivamo a martello, e ripetutamente, il palmo aperto della mano sinistra e in coro, con complice sintonia, cantilenavamo dispettosamente: Raggia! Raggia! Raggia!


Il malcapitato destinatario, che aveva perso al gioco, che non era riuscito in qualche impresa o semplicemente non aveva sortito un qualche scopo da altri invece conseguito, si cuoceva dalla rabbia e a seconda del carattere sbottava in pianto o reagiva in qualche modo, ma la crudele condanna raggiungeva egualmente il suo scopo: fare cuocere nella rabbia la vittima di turno. 

Per il gruppo era una palestra di socialità. Per i singoli una prova per temprare il carattere. Ma le intenzioni non erano sempre "cattive",  si ricorreva a questa parola anche per innocente scherzo, semplicemente per ridere, ma il significato evocato dalla raggia, comunque, era sempre lo stesso: rabbia per un desiderio inappagato o per un dispetto subito.


Alla parola raggia e al suo significato non ricorrevano solo i ragazzi ma anche gli adulti e allora le esternazioni erano micidiali, sebbene supportate dalle rime e dal canto. 
 




Il canto (popolare) ad esempio era per gli antichi occasione felice per esprimere eloquentemente la raggia che subivano o quella che auguravano agli altri, tutto ciò insomma che urgeva dentro: idillio o rabbia, tenerezza o disprezzo nelle forme e nelle modulazioni più svariate.

I canti rifrangevano, come il prisma la luce, l'unica realtà nelle sue parti costitutive: lavoro, sudore, gelosia, amore....

C'erano i canti dei contadini, degli zolfatai, dei carcerati, degli innamorati, dei delusi, degli irritati, etc.

Una vera filosofia o fenomenologia del canto è espressa dal seguente proverbio:

Cu' havi dinari assai sempri cunta 
e cu' la muglieri bedda sempri canta.

Chi ha molti denari sempre li conta
e chi la mogliera bella sempre canta.




Ai sospirosi e/o velenosi canti dei primi, che camuffavano l'invidia e istraevano col canto il pungente desiderio di una donna, che non potevano avere o che avevano brutta, facevano da controcanto le allegre melodie e le giocose rime dei più fortunati che inneggiavano alla bellezza muliebre e alle gioie dell'amore.


Se questi ultimi cantavano:


Affaccia, bedda, di cantu di cantu, 
darrieri la to porta sugnu iuntu

Affaccia, bella,  con fare convinto,
dietro la tua porta sono giunto.
"


gli altri, malaugurando ai più fortunati un esito negativo del loro corteggiamento, così si sfogavano:

Ammàtula t'allisci e fa' cannola, 
lu santu è di marmaru e nun suda.

Invano ti intoletti e imboccoli i capelli
il santo, di marmo, non s'incanta di nulla. 



Oppure inveivano contro l'uva ancora acerba:

Tu chi mi dasti e iu chi ti detti, 
tu mi tincisti e iu t'annuvricàvu.

Tu che mi desti e io che ti diedi
mi impolverasti, tu,  e io ti annerii.


TUTTO ATTRAVERSO IL CANTO

Col canto, insomma, i più sfortunati smaltivano l'agrume di ogni residuo desiderio insoddisfatto. O così pareva. Di fatto, restavano semplicemente, insaziabilmente inappagati. Motivo per desiderare di più, con più icuto senso del piacere. E solo questo restava loro, un forte desiderio inappagato, e furioso: restava l'allammìcu, voce araba anche questa, ma nel senso tutto racamultese di struggersi nel desiderio (lo fanno i bambini dietro le vetrine di inarrivabili negozi). Chi vi si struggeva, nel desiderio di una donna ambita, dava adito a questa strofa di raggia:
Li luonghi si cuoglinu li ficu 
e a li curti ci tocca l'allammicu

Gli alti raccolgono  i fichi
ai bassi non tocca se non il desiderio. 



e ad altre strofe ancora e ad altre cattiverie, allusive o esplicite, in proverbio o veicolate da piacevoli canzoni.

Si duellava con strofe e controstrofe, nel gioco amoroso e nelle fasi de corteggiamento, con accesa fantasia:

Si ti vuo' arricampàri, t'arricampi,
si nun ti vuo' arricampàri a cu' la cunti.

Si muori e ti nni va' a lu campusantu 
ti viegnu appriessu pi divirtimientu.

Se vuoi rientrare, rientri
se non vuoi rientrare a chi la conti.

Se muori e vai al camposanto,
ti vengo dietro per divertimento.



Ovvia, nel risentimento, la risposta.

Immaginiamola lanciata in una serenata (in vernacolo: attùrnu), magari con accompagnamento di due o tre musici alle prese con strumenti musicali casalinghi tra cui una buzzìca (era formata dalla vescica ripulita ed essiccata di tacchino o di maiale in cui si introduceva una cannuccia o uno stelo di grano con imboccatura ad ancia: il suono si produceva, una volta gonfiata la vescica, con la compressione dell'aria e il passaggio di questa attraverso l'ancia; era un suono lamentose e monocorde: da oboe sfiatato) e la caccamella (strumento molto usato a Napoli, formato da un cilindro che fungeva da cassa di risonanza e da una canna che si armeggiava a mo' di stantuffo: serviva per dare il ritmo agli altri suonatori; il cilindro, ricavato anche da una latta di sarde salate svuo­tata, veniva chiuso ai lati da pelle di animale e doveva essere immerso co­stantemente nell'acqua); altri strumenti erano l'immancabile mariarrùni e uno sdentato organetto. 


Se i genitori della ragazza ritenevano un buon partito il pretendente canterino o lasciavano correre girandosi nel letto dall'altra parte e facendo finta di non sentire oppure, per ostentare nei confronti dei vicini virtuose ritrosie, lasciavano volare vacili (bacinelle) d'acqua limpidissima o lu rinali (il vaso da notte) appena appena utilizzato.


Mi raccontano i più anziani che nella strada attigua dove abitavo con la mia famiglia da piccolo partì da una finestra un inequivocabile colpo di fucile. Che a niente valse, però, e non fermò il focoso amante che organizzò sotto il naso del balistico genitore una classica fuitìna (una fuga amorosa con intenti matrimoniali.)


Precisazione.

La traduzione, per chi non intende il siciliano, ha un valore semplicemente indicativo, tanto per farsi un'idea, come se leggessimo una traduzione dal cinese: non bisogna rincorrere la peculiarità dei suoni traducendo da una lingua in un'altra.






martedì 25 settembre 2012

MORI LU SCECCU E VENI LU MULU






Mori lu sceccu e veni lu mulu
Se muore l’asino, sopraggiunge il mulo


Una volta un'affettuosissima  signora, in arnese da cucina, rispondendo al mio rispettoso saluto, fece cenno con la mano  di avvicinarmi a lei.
Attraversai la strada e accostatomi all’uscio di casa sua,  ella discostò la tenda di plastica che serviva da barriera alle mosche e incominciò a  rivolgermi sperticati complimenti e gioiose felicitazioni per la  mia “fidanzata”  di cui aveva avuto notizie:

-       Ch’è beddra! Anta! Giudiziusa!

Insomma: bella! alta! assennata!

Mentre la corpulenta signora  parlava come un fiume in piena, io, più che compiaciuto, ero imbarazzato perché aspettavo uno spiraglio di tregua per dirle che da qualche mese non ero più fidanzato e che con quella ragazza mi ero, come si dice, lasciato.

Nel mentre l’ascoltavo, si faceva più insistente l’odore di broccoli bolliti che proveniva dalla cucina.

Quando finalmente potei parlare e mettere le cose al loro posto, la signora, repentinamente, si astenne dal proseguire nei complimenti e dal decantare le lodi della ragazza, alzò gli occhi al cielo, allargò le mani e per rincuorarmi, secondo le sue intenzioni, pronunciò queste fatidiche parole:

-       Pierì, nenti ci fa; mori lu sceccu e veni lu mulu.

Alla lettera: Pierì, non fa niente; muore l’asino e viene il mulo.
Come dire: “quella” era buona, ma ne verrà una migliore!

Alla faccia della solidarietà.

E dire che per certuni nella vita non si dovrebbero fare certe scelte, semplicemente per occhio della gente!


 Quest’episodio, in qualche modo, mi ha immunizzato  da presunti pudori e timori della morale pubblica solo apparentemente altruista.







Lassatimi diri
chiddru chi un s’av’a diri
pi uocchiu di munnu.

L’uocchiu di munnu
è un’ummira putenti
di un mostru ca nun c’è.

Pirchì è la genti.


Lasciatemi dire / quello che non si deve / per occhio di mondo. // L’occhio di mondo / è un’ombra potente / di un mostro che non c’è. // Perché è la gente.


La poesia si trova in Venti di sicilinconia, Edizioni Medinova, Favara 2009.