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TITOLO: | I cavoli in piazza |
AUTORE: | Piero Carbone |
GENERE: | Racconto |
Gennaio 2003
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“Ma che cosa si mettono a fare questi insensati?
Venire a piantare dei carciofi dove passano i leoni…”. Alphonse DAUDET, Tartarino di Tarascona.
Brulicavano nel buio tante piccole luci. Erano i minatori con le lampade ad acetilene: si davano appuntamento in Piazza e da lì si avviavano verso le miniere.
Anche quella notte, credendo di essere arrivati al solito posto, si accorsero di trovarsi in aperta campagna, guardavano la luna, una bella luna in quintadecima, col chiarore potevano ben vedere di calpestare terra, una striscia scura ai cui lati c’erano case, e, in fondo, la facciata della Matrice, dubitarono: che ci faceva la Matrice in campagna? Sarà stato uno scherzo del sonno, un gioco della vista, si strofinarono gli occhi pesanti, toccarono l’istoriato portone di ferro della Matrice. Alla fine, dovettero convincersi.
- Siamo a Racalò!
Ma che c’entravano quella striscia di terra e quelle ombre di cavoli? Sissignori, ai lati del nastro di terra, due impettiti filari di cavoli erano piantati a distanza di zappa uno dall’altro nel corso principale del paese. Dove una volta c’era il lastricato di pietra lavica, davanti agli usci di caffè e negozi, erano spuntate odorose crocifere cavolacee.
Nell’oscurità risuonarono risate di stupore.
- Ieri sera niente c’era, - disse uno.
- Chi sarà stato? – domandò un altro.
Avrebbero voluto vedere la reazione dei compaesani, commentare con loro l’accaduto. A malincuore andarono via. Le lampade ad acetilene si agitarono disordinatamente e si avviarono verso la vallata.
Svaniti i minatori, altre categorie di operai arrivarono a scaglioni sul far del giorno: chi commentava un poco e se ne andava, chi rimaneva. La Piazza fu piena quando il sole proiettò chiaramente i suoi raggi sulla meridiana della Matrice. I negozianti aprirono le botteghe, arrivarono gli impiegati per il rito del caffè. Entravano e uscivano dai bar. Tutti si attardavano. I cavoli irruppero nelle chiacchierate mattutine. Volavano interrogativi e allusioni.
Il fotografo Bellavia attaccò sulla porta dello studio il “Torno subito” prestampato, vi aggiunse a penna “Non aspettatemi” e si allontanò con la sua Rolex a tracolla. Voleva fotografare la Piazza “bombardata”, con i cavoli al posto dei cannoni.
- Ma quando li hanno piantati? - Stasera minestra! - Sono gratuiti.
L’arciprete si rammaricò davanti al portone della Matrice, allargò le braccia. - Agli ebrei nostro Signore ha mandato manna e quaglie, ai racalesi che sono peccatori solo verdura, anzi cavoli.
- Non lo dovevano fare! – sbraitò una voce in mezzo alla folla.
– I basoli del lastricato non li dovevano levare. Ecco cosa ci meritiamo ora: tronzi di cavoli.
Bella gratitudine dimostravano i racalesi nei confronti dei Martinez, munifici benefattori del paese, almeno stando a quel che la voce popolare tramandava. Non erano bastati il Mattatoio, il Teatro, il Municipio, le Fontanelle rionali, le Scuole, la Fogna pubblica, per arredare il paese, anche il corso principale avevano voluto rendere dignitoso: i concittadini non si sarebbero più inzaccherati d’inverno o impolverati d’estate, avrebbero passeggiato grazie a loro sopra lastre di pietra lavica, fatte arrivare appositamente da Catania. I discendenti puntualmente smantellarono.
Non dall’oggi al domani, si capisce, ma tanto dissero che lo fecero, le scope degli spazzini, dissero, senza gli interstizi, sarebbero scivolate meglio. Divelti con cura, i lisci basoli vennero caricati su camion e furgoncini. La storica pavimentazione, frammentata secondo occulti bisogni, venne scaricata in diverse contrade lontane dal paese, su private stradelle di campagna, secondo indicazioni precise. Al posto dei basoli squadrati, scivolosi, avrebbero steso l’asfalto, seguendo l’esempio dei comuni più progrediti. Non è che ai racalesi piacesse tanto quel nerume in Piazza.
- Fa puzza di petrolio, - dicevano. - La Piazza si vestirà a lutto. - Nera come la pece!
Ma per gli amministratori era un segno di modernità. Estirpati i basoli, al loro posto venne attumulata terra buona di Garamoli, un macchinario cilindrico la pressò, in attesa dell’asfalto, ma bastava la punta di un ombrello per rimuoverla. L’ex consigliere non rieletto Piedidizichi fece a meno dell’ombrello, con le mani scaliò la terra come fanno le galline quando raspano per cercare chicchi nascosti, se ne riempì i pugni e tenendoli alzati fece scorrere a cannolicchio la terra sbriciolata. A manciate la spagliò a destra e a manca. Sembrava danzasse con i suoi larghi movimenti. Si mise a cicchettare gli amministratori. La gente, curiosa, si raccoglieva , guardava, ascoltava e gli dava ragione. Anche se non erano ingegneri, tutti si rendevano conto che il lavoro nel corso non era fatto bene: volevano l’asfalto? e sia! ma, sotto, il pietroso rosticcio ci voleva, non terra battuta di Garamoli. Come farlo capire alla ditta appaltatrice? all’assessore ai lavori pubblici? Con una petizione? Inutile. Con un intervento in consiglio comunale? Parole. Ci voleva un gesto. Quando spuntarono i cavoli in Piazza, la popolazione si scaldò.
- Questa è una vergogna. - I carabinieri. - Il Prefetto. - E ora che succede? - Venga il Sindaco a vedere. - I vigili, che fa, dormono?!
Arrivarono, le guardie municipali, con il loro comodo e con l’ordine di fare sgomberare la Piazza, in mezzo alla folla agitata non si scomposero: sembrava sbarcassero dalla luna dove mai succede qualcosa fuori dall’ordinario. Dalle guardie venne dato l’ordine al palista di rimuovere la causa di tanto trambusto. Ma inutilmente. La gente osservava. La pala meccanica non si muoveva: dopo vari tentativi si accorsero che nell’abitacolo del mezzo meccanico vi si era arroccato un estraneo.
- Scendi, - gli intimarono le guardie, poco gentili questa volta. - Salite voi, - rispose quello.
I vigili lo pregarono mutando tono. Prima di ricorrere alle maniere forti pubblicamente, bisognava tentare quelle persuasive. In paese si conoscevano tutti. Nel frattempo era arrivato il vero palista, allarmato dalla novità. - Vieni giù, - implorò una delle guardie, indicando con la mano il vero palista. - Fagli guadagnare il pane, a questo padre di famiglia. Scendi. - Sali tu. - Ma io non sono il palista, - disse rassegnato il vigile. – Comunque, se vuoi così, va bene, salgo io, purché ci sbrighiamo. Incomincia a scendere. - Non posso, - rispose quello da lassù. - E perché non puoi? - Sono legato. Era vero: una cordaccia malritorta legava le sue braccia alle leve di comando. Un – oooh – di meraviglia e di compassione si levò dalla folla. - E chi ti ha legato? – chiese uno dei vigili. - L’ Angelo. - Quale Angelo? - Un Angelo. E’ passato di qui e mi ha legato. - E chi era questo Angelo? - Booh! Dormivo. - Non scherzare. Sai niente dei cavoli? - Non ne mangio. Ci fu una risata generale.
Il vigile più alto strattonò il collega più basso soffiandogli nell’orecchio che bisognava essere, sì, delicati ma non ridicoli: cento occhi li osservavano maliziosamente. La storia dell’Angelo o di qualcuno chiamato Angelo nessuno se la beveva.
Si sospettava chi poteva essere stato ad architettare lo scherzo. Incominciando anzi a pensare che fosse tutto una minchionatura , il vigile più alto cercò di tagliar corto. – Finiscila, - disse rivolgendosi al finto palista, - scendi, è grave quello che hai fatto ma se scendi subito chiuderemo un occhio.
Insomma, un tiremmolla che faceva sghignazzare la gente. Beppe Mirto detto Chirillo (già! era proprio lui! capace delle trovate più imprevedibili), in questo caso ortolano notturno e sequestrato autista per protesta, era disposto, sì, a scendere, ma solo a ben precise condizioni.
Per far cessare la gazzarra lo accontentarono. Secondo le sue richieste, espresse pubblicamente, furono fatti venire, nella Piazza disastrata, l’Appaltante il Capocantiere il Sindaco l’Assessore ai lavori pubblici. Costoro capirono subito, ascoltarono il difensore della Piazza, promisero coram populo che avrebbero fatto rimuovere la terra grigia e soffice di Garamoli e l’avrebbero finalmente rimpiazzata col solido rosticcio, “come da capitolato”. Solo allora, promisero le autorità, avrebbero fatto stendere lo strato d’asfalto fumigante.
- Scrivi, - disse Chirillo, rivolgendosi a un giornalista di paese. I racalesi applaudirono. Il Sindaco tirò un sospiro di sollievo. l signor Bellavia storicizzò l’avvenimento dopo che li fece mettere tutti in posa. Soddisfatto delle trattative, Beppe Mirto detto Chirillo si slegò di colpo e con un agile salto fu a… terra. Un altro applauso. - Asfalto, sì, ma almeno il lavoro dev’essere fatto bene! – disse come un eroe.
I Martinez erano stati vendicati.
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