Un cane abbaia dentro il teatro chiuso. Surreale? Pirandelliano? Vero?
RECITARE LA VITA, RECITARE LA MORTE
Si faceva sempre tardi dopo l'ultima proiezione al cinema.
Filippo e Martino detto Tinè commentavano il film visto ed erano abbastanza accalorati in prossimità dell’Abadiola.
Come d’abitudine, quando arrivavano davanti al teatro, si separavano: uno
proseguiva in direzione della Villa comunale e l’altro intraprendeva la
salitella del “Purgatorio”.
Facevano sempre così.
Quella volta a Filippo il film era piaciuto semplicemente
perché il protagonista andava su una Vespa e a lui piacevano i motori ma Tinè avrebbe voluto più azione, più movimento, qualche inseguimento, il picciotto che non moriva mai e almeno
una scena d’amore.
-
Anche le parole sono azione, - argomentò Filippo, - dipende dalle parole
che si dicono, come e quando si dicono.
E poterle dire è già un miracolo.
- Ma Tinè, gesticolando, dissentiva e alzava la voce. La
piazza dell’Abadiola solitamente era deserta, semibuia, e il teatro chiuso da
anni.

Erano fermi davanti al grande
portone istoriato del teatro quando in un momento di silenzio, che avrebbe dato
nuovo impulso alla discussione, sentono abbaiare. I latrati, a singhiozzo, sembravano vicini.
Ma erano come attutiti, potevano essere anche lontani: continuavano cadenzati.
Filippo e Tinè lasciando perdere la discussione sul film tesero l’orecchio per indovinarne
la provenienza. Poi si guardarono negli occhi meravigliati per interrogarsi e rispondersi reciprocamente: un cane dentro il teatro?!
Accostarono l’orecchio al portone di
ferro: ne ebbero conferma. Sebbene il teatro fosse inaccessibile. Sapevano che il teatro moderno introduceva bizzarrie, e gli attori si agitavano, ma fino a questo punto!
Né poteva
essere una comparsa canina nel bel mezzo di una recita
notturna. Il teatro era chiuso. L’ultima rappresentazione
risaliva a oltre quarant’anni fa. Forse qualche cane randagio si era
intrufolato, improbabile tuttavia perché in attesa dei restauri il teatro era
stato recintato, le porte erano sigillatissime, qualcuna addirittura murata.
Strutture bucherellate in ogni ordine di
palchi, lungo i corridoi stormivano fronde di alberi altissimi, divelti gli
applicchi, sfondate le poltrone, brandelli di tela, fili penzolanti, locandine
ammuffite, il tetto odorava di stelle e il pavimento di umida terra, agli
angoli pietre accatastate e ortiche. Era in questo stato il teatro, in attesa
di tornare agli antichi splendori, eppure a Filippo e Tinè, oltre ai
latrati, parve di udire qualcuno, anzi, dal tono studiato della
voce, che recitasse.
– Ssst!
– Ssst! Aspetta aspè.
Si incollarono al portone.
- Senti, senti, Tinè!
- Sento, sento, Filì.
“Signori, quando avrò da parlare,
tacerò; quando da tacere, griderò. No. Non dico. Taccio. Del silenzio ho paura.
Me ne fotto dei modelli, per non essere fottuto. Io insisto all’eversione,
quando l’uomo è forte. La mia stagione preferita è la simulazione…”.
- Che strane parole! –
commentò Filippo.
- A me pare più strano che a
dirle sia Tatà! – integrò Martino detto Tinè.
- Certo che non è normale
recitare al buio davanti alle sedie vuote.
- Con un cane che abbaia.
- Ma è sicuro Tatà?
- La voce è quella sua. E’ la
sua cadenza.
- Ma non l’abbiamo visto ieri
sera in piazza? Ricordi?
- Eccome no! Finita la vampa di San Giuseppe
si è messo a salutare tutti, abbracciava, stringeva la mano a conoscenti e non
conoscenti, come se dovesse partire, ma non si è capito per dove. Aveva una
carpetta sotto il braccio.
Mentre sussurravano i loro dubbi, sembrò di non udire più nulla. La voce di Tazio non poteva essere: vollero pensare che dopo la vampa se ne fosse
andato a casa assieme al pastore belga che lo seguiva ovunque. E a casa sua immaginavano che fosse.
Comunque, era già tardi.
Si staccarono dal portone e
se ne andarono anche loro.
Si diceva che
dopo la morte della madre, con la quale conviveva, Tazio avesse dato segni di
squilibrio, ma fino a tal punto? Che fosse vera la voce di averlo visto dormire
su una lastra di tomba al cimitero? Senza parenti prossimi, solo al mondo, si sarà visto perso, sempre in attesa di un impiego che non arrivava mai, con
un inutile diploma in tasca.
Arrivati a casa, Filippo e Tinè non potevano chiudere occhio. Quelle strane parole, il latrato del cane nel teatro
chiuso, il repentino silenzio, e loro che erano andati via tranquillamente.
Qualcuno poteva avere bisogno del loro aiuto. Il rimorso li spinse a fare qualcosa. Dopo una telefonata angosciosa per mettersi la coscienza in pace reciprocamente, presero la decisione di avvisare subito i carabinieri.
Dopo mezz’ora, la pattuglia formata
dal maresciallo e da due appuntati, dopo avere constatato un silenzio assoluto nei pressi
del teatro, andò a bussare insistentemente alla porta di Tazio Capizzi. Perché non rispondeva? Occorreva assicurarsi che non rispondeva perché immerso nel sonno profondo, e per accertarlo il
maresciallo diede ordine agli appuntati di chiamare i pompieri e di
avvisare il sindaco per procurare le chiavi del teatro. Nel pieno del sonno il
sindaco sobbalzò ma le chiavi non le teneva con sé, il sindaco fece avvisare il
dirigente che a sua volta avvisò l’impiegato e questi i manutentori. In tante
case si creò un notturno trambusto tra imprecazioni, passi strascicati, odore di caffè e compassione per il
povero Tazio che chissà cosa gli era successo.

Intorno alle due di notte si
ritrovarono tutti all’Abadiola.
Sopraggiungevano nel frattempo la sirena e i
lampeggianti dei pompieri ai quali, nella concitazione, per sbaglio era stata data
l’indicazione del teatro che loro ben conoscevano e non dell’abitazione di
Tazio che si trovava in un cortiletto internato del centro storico. Al passaggio
si illuminarono alcune finestre. Non si poteva continuare a dormire senza sapere cosa fosse successo: un
incendio? un crollo? e dove?
Si radunò una piccola folla. I
manutentori infilarono la chiave nella toppa, ma andava a vuoto, provarono nel catenaccio ma questo non si apriva, gli
occhi del sindaco fulminarono il dirigente che a sua volta rimproverò i
sottoposti; gli altri mormoravano. I pompieri avevano soltanto piccozze e
accette.
- Qui ci vuole la tronchesina, -
dissero i manutentori.
Dove procurarsela a quell’ora di
notte? Ci pensò Bertino, che aveva l’officina a due passi: finalmente tranciarono
il catenaccio e spinsero piano piano il portone.
Quando furono dentro il teatro,
dimenticarono per un momento il motivo per cui
si trovavano lì, rimasero come
incantati; sindaco, carabinieri, impiegati, pompieri, curiosi, tutti col naso
all’insù: al posto del tetto si vedeva il cielo, a terra calpestavano erba,
addossati alle pareti sbrecciate giganteschi alberi appena smossi dal vento.
L’oscurità non faceva distinguere altro. Sembravano rovine. Sembrava campagna. Poi i fari delle macchine spararono dentro la luce e illuminarono ogni
cosa con violenza. Oh, che nisce! Ovunque nisce, polvere, ragnatele, precipitavano a festoni, si inarcavano come vele al minimo refolo. Un cane abbaiò brevemente e andò a nascondersi. Al centro
del palcoscenico stava appeso ai cordami di scena un lungo fagotto che
oscillava come un battaglio di campana,
a terra una carpetta, fogli sparsi.
Con uno sguardo, Filippo e Tinè capirono: Tazio aveva voluto recitare il suo dramma prima di morire.
Nelle tasche gli rinvennero un
foglietto con le ultime volontà: non nutriva rancore per nessuno,
voleva raggiungere la madre, desiderava un funerale con la banda musicale e i
fuochi d’artificio.
Insomma, se non l'aveva avuto in un teatro chiuso, al funerale avrebbe voluto un pubblico vero.
Foto proprie.
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