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mercoledì 10 giugno 2015

PIETRO TAMBURELLO E IL MUSEO DEI POETI PERDUTI. Nella galleria dei poeti siciliani con Marco Scalabrino


Inesauribile sembra la galleria di poeti siciliani che scrivono in dialetto offerti ad un pubblico che forse li ignora o se non li ignora non li apprezza adeguatamente; Marco Scalabrino, sulla scia di Salvatore Camilleri di Catania, Salvatore Di Marco di Palermo e qualche altro studioso di tenace di memoria, cerca di porvi rimedio.  
Il suo non vuole essere soltanto un meccanico recupero mnestico, della semplice memoria insomma, ma  un additare un mondo di fantasia e di linguaggio che potrebbero dare emozioni e gioie intellettuali a chi inconsapevolmente lo cercava e non sapeva di averlo a disposizione "sotto il naso", anzi, "sotto" la propria lingua. P. C. 


Rosi di ventu 

Rosi di ventu

Nun c’è ‘na gnuni d’aria    
dunni jiri a strògghiri lu gruppu
di li me’ jorna persi.

Supra ‘na rama sicca
nun spuntanu ciuri e mancu aceddi.

Ora
cogghiu rosi di ventu
mentri la luna cogghi paparini.

Pietro Tamburello, 1983


NOTE BIOGRAFICHE E ANNOTAZIONI CRITICHE

 SU PIETRO TAMBURELLO

di

Marco Scalabrino


Il 20 Giugno del 2001 si è spento a Palermo – dove era nato nel 1910 – Pietro Tamburello.

“Pietro Tamburello – scrive Salvatore Di Marco nel numero di Luglio-Agosto 1998 di Arte e Folklore di Sicilia, edito in Catania (Alfredo Danese direttore)
 – la cui storia di poeta comincia negli anni Venti del Secolo, esattamente nel 1926 con la nascita a Palermo di quel notissimo e controverso foglio dialettale che fu il Po’ t’ù cuntu … nonostante avesse avuto un ruolo determinante tra i protagonisti della nuova poesia siciliana (se nel 1929 era stato il segretario generale dell’Accademia di Poesia Siciliana “G. Meli” presieduta da Giuseppe Ganci Battaglia, nel 1945 sarà il referente di Federico Di Maria nell’ambito della Società Scrittori e Artisti –
il vero animatore di quel gruppo sottolineò Salvatore Camilleri nel numero di Gennaio-Febbraio 1993 della medesima rivista –

e poi fonderà il Gruppo Alessio Di Giovanni e ancora nel 1956 sarà il direttore di Ariu di Sicilia) pubblicò poco e tardi in volume i suoi versi dialettali.
Sono tantissime le poesie di questo autore palermitano apparse sul Po’ t’ù cuntu tra il 1926 e il 1933 (anno in cui il periodico interruppe le pubblicazioni per riprenderle dal 1952 al 1972) e in altri fogli dell’epoca. Ma il periodo in cui Pietro Tamburello portò a piena maturità espressiva la propria poesia nei temi e nella forma e nel linguaggio tocca gli anni Quaranta e Cinquanta.”  

Nel 1957 Pietro Tamburello è tra gli autori presenti nella Antologia Poeti Siciliani D’oggi, Reina Editore in Catania, a cura di Aldo Grienti e Carmelo Molino. L’antologia, con introduzione e note critiche di Antonio Corsaro, raccoglie, in rigoroso ordine alfabetico, una esigua quanto significativa selezione dei testi di diciassette autori: Ugo Ammannato, Saro Bottino, Ignazio Buttitta, Miano Conti, Antonino Cremona, Salvatore Di Marco, Salvatore Di Pietro, Girolamo Ferlito, Aldo Grienti, Paolo Messina, Carmelo Molino, Stefania Montalbano, Nino Orsini, Ildebrando Patamia, Pietro Tamburello, Francesco Vaccaielli e Gianni Varvaro.
Ma già prima – nel 1955 – quando a Palermo, a cura del Gruppo Alessio Di Giovanni, con la prefazione di Giovanni Vaccarella, vide luce l’Antologia Poesia Dialettale di Sicilia, Pietro Tamburello è tra i protagonisti assieme con: U. Ammannato, I. Buttitta, M. Conti, Salvatore Equizzi, A. Grienti, P. Messina, C. Molino, N. Orsini. Le due sillogi, che all’epoca ebbero vasta eco, testimoniano il primo atto di quel processo – iniziato attorno al dopoguerra – che fu il Rinnovamento della Poesia Dialettale Siciliana.  

Oggi la poesia dialettale – scrive tra l’altro Giovanni Vaccarella nella prefazione a Poesia Dialettale di Siciliaè poesia di cose e non di parole, è poesia universale e non regionalistica, è poesia di consistenza e non di evanescenza. Lontana dal canto spiegato e dalla rimeria patetica, guadagna in scavazione interiore quel che perde in effusione. Le parole mancano di esteriore dolcezza e non sono ricercate né preziose: niente miele e tutta pietra. Il lettore di questa poesia è pregato di credere che nei veri poeti la oscurità non è speculazione, ma risultato di un processo di pene espressive, che porta con sé il segreto peso dello sforzo contro il facile, contro l’ovvio. Perché la poesia non è fatta soltanto di spontaneità e di immediatezza, ma di disciplina. La più autentica poesia dei nostri giorni è scritta in una lingua che parte dallo stato primordiale del dialetto per scrostarsi degli orpelli e della patina che i secoli hanno accomunato, per sletteralizzarsi e assumere quella condizione di nudità, che è la sigla dei grandi.” 

“I dialettali – afferma Antonio Corsaro, in prefazione a Poeti Siciliani D’oggi – non sono mai stati estranei alle vicende della cultura nazionale, anche se disuguale è il loro piano di risonanza. Non c’è dubbio, nell’ambito di una lingua, per dire ufficiale, che assorbe e trasmette tutte le vibrazioni di un’epoca, che il dialetto si presenta come una fuga regionale. Ma in un periodo come il nostro che nella poesia ha versato gli stati d’animo, l’essenza umbratile e segreta dello spirito attraverso un linguaggio puro da ogni intenzione oratoria, i poeti dialettali si trovano nella identica situazione dei loro compagni in lingua, senza che neppure la difficoltà del mezzo espressivo costituisca ormai una ragione valida di isolamento.
Tanto più che i nostri lirici in dialetto sono già arrivati a un tal segno di purezza e a una tale esperienza tecnica da non avere nulla da perdere nel confronto con i lirici in lingua. Anzi, in un certo senso, i dialettali ne vengono avvantaggiati per l’uso che possono fare di una lingua meno logora, attingendola alle sorgenti che l’usura letteraria suole meglio rispettare.”

Nel 1959 – a due anni dalla pubblicazione – nel saggio dal titolo Alla ricerca del linguaggio, Salvatore Camilleri definisce l’Antologia Poeti Siciliani D’oggi antesignana del rinnovamento della poesia siciliana e considera:
“Si cerca di restituire alla parola una sua originaria verginità fatta di senso e di suono, di colore e di disegno, ricca di polivalenze. È una continua ricerca di esperienze formali, in cui l’analogia gioca la parte principale nel creare situazioni liriche e contatti tra evidenze lontanissime. Il fatto strano, fuori dalla logica progressione delle cose, è che la rivolta è nata di colpo, sulle esperienze altrui (italiana, francese, etc.) e non sull’esperienza siciliana.”

Poeti Siciliani D’oggi “fu il libro – asserisce in seguito Salvatore Camilleri, in prefazione a Poeti Siciliani Contemporanei del 1979 – che mise definitivamente una pietra sul passato. Le idee si erano fatta strada, avevano raggiunto i poeti in ogni angolo della Sicilia, anche i più solitari, i meno propensi a mutar pelle, e li avevano costretti a ragionare; e così, nell’ansia polemica del rinnovamento, all’eccessivo sperimentalismo formale e al gusto funambolico dei più avanzati seguì l’abbandono dell’ottava e del sonetto, divenuti solo strumenti propedeutici; a un più deciso lavoro sulla parola e sulla metrica seguì, da parte anche dei più retrivi, il rifiuto dei moduli tradizionali.
Da questo travaglio, dai più avanzati che volevano romperla totalmente con il passato, ai moderati che volevano innestare le nuove idee nell’albero della tradizione, nacque la poesia siciliana moderna, anche grazie alla conoscenza che i più ebbero del simbolismo francese e dell’ermetismo italiano.”

“Abbiamo la data dell’inizio del movimento rinnovatore – ce la segnala Paolo Messina nel suo pezzo in ricordo di Aldo Grienti, pubblicato nel Febbraio 1988 a Palermo, sul numero Zero di quello che fu l’effimero ritorno ad opera di Salvatore Di Marco del po’ t’ù cuntu – quella del Primo raduno di poesia siciliana svoltosi a Catania  il 27 Ottobre 1945.”

E in “La nuova scuola poetica siciliana”, prefazione del suo volume Poesie Siciliane (Palermo 1985), ancora Paolo Messina così ricorda: “Nel 1946, alla scomparsa di Alessio Di Giovanni, quel primo nucleo di poeti, che già comprendeva le voci più impegnate dell’Isola, prese il nome del Maestro e si denominò appunto Gruppo Alessio Di Giovanni.”

Ma procediamo con ordine. Nella prima delle due antologie menzionate, Poeti Siciliani D’oggi, Pietro Tamburello è presente con quattro componimenti: HAJU ‘NA CICALA, LI CIAULI, LA BANNILORA e FUNTANA
Quattro testi, se da un canto sono pochi per esprimere compiutamente un parere, d’altro canto sono comunque sufficienti a ravvisare – questo è il nostro caso – l’impronta del poeta.

Antonio Corsaro nella nota critica in prefazione a Poeti Siciliani D’oggi, nei riguardi di Pietro Tamburello, così si pronuncia: “Pietro Tamburello ha un dominio sicuro dei propri mezzi, si libra sulla realtà divina delle cose, romanticamente, e ne trasmette il fervore, l’ardore, attraverso un lirismo consapevole e vissuto nel bisogno di dare all’uomo un aiuto che supera, per l’assoluta ragione dell’insufficienza umana, i limiti terrestri. Nello specchio della sua emozione si riflettono le più vive ansie dell’anima e rimandano a un certo, arcano splendore. Sensibilissimo è il suo verso all’inalienabile fondo religioso dell’essere.
C’è ancora in Tamburello la coscienza di ciò che rappresenta per il poeta il mistero della parola chiusa nel cuore, della parola essenziale in una pronunzia netta e lucente, simile alla corrente di un fiume che leviga le pietre e le fa splendere.” 
Lirismo – di cui seguiranno adesso alcuni stralci – realizzato da Pietro Tamburello con termini, espressioni, situazioni del tutto siciliani; lirismo che coniuga compiutamente una forma autenticamente originale, innovativa e uno spirito genuinamente siciliano:

Haju ‘na cicala nchiusa ni lu pettu … lu so rispiru è nchiusu / sutta li pinnulara di la notti, / e nun c’è nuddu mancu ca lu sapi / chiddu ca si passa / cu ‘na cicala nchiusa ni lu pettu; lu celu / sbalanca lu so pettu senza funnu / supra li nastri bianchi di li strati; Dintra lu pettu si gnunìa lu cori / e l’ariu è fermu / comu siddu lu tempu / s’avissi   misu ‘mpintu ad aspittari; Mi vogghiu fari l’ali di palumma / e jiriminni ‘ncelu / a sentiri sunari / li cincianeddi d’oru di la notti.
   
In una postilla alla poesia FUNTANA di Pietro Tamburello, il poeta e critico romagnolo Giuseppe Valentini sulla rivista Il Belli (fascicolo n°2, luglio 1955) così diceva: “Il dialetto siciliano fa pensare, delicato e ricco com’è, al frusciar di una mano giovane su di un arcaico velluto”.
E Paolo Messina, in un articolo apparso il 21 Maggio 1955 sul periodico culturale Il contemporaneo di Roma ebbe a scrivere: “La poetica di Pietro Tamburello è caratterizzata da una volontà di resistere alla realtà tridimensionale delle attuali esperienze ed esaurisce nel dialetto le tendenze vicine e lontane del simbolismo romantico … e si identifica col fenomeno di decomposizione di una certa cultura verso una base più larga dalla quale riceverà un nuovo vigore   ascensionale.”    
Un linguaggio, quello di Pietro Tamburello, permeato di strutture analogiche e metaforiche e di pregevoli invenzioni: il cielo che si spalanca immenso sul mondo, il tempo che rimane immobile ad aspettare, il volo nei sonagli d’oro della notte; una realizzazione individuale del sistema linguistico che va dunque percepito, “inghiottito”, metabolizzato.

Ma riferiamo ulteriori testimonianze circa l’opera di Pietro Tamburello.

Il giornale di poesia siciliana, nel numero di Settembre 1988, riporta il pezzo di Salvatore Di Marco: Una Occasione Mancata. “L’8 di agosto del 1952 rivedeva la luce in Palermo il noto periodico di poesia dialettale siciliana Po’ t’ù cuntu dopo ben diciotto anni di assenza. Intanto erano scomparsi i prestigiosi collaboratori dell’anteguerra che negli anni Trenta avevano dato lustro al Po’ t’ù cuntu: parlo di poeti e scrittori come Luigi Natoli, Alessio Di Giovanni, Vincenzo De Simone, Vito Mercadante, Vanni Pucci. Sicché si ha l’impressione malinconica, rileggendo oggi i vecchi fascicoli del 1952, che la direzione del Po’ t’ù cuntu non si fosse resa ben conto delle laceranti trasformazioni che, rispetto agli anni Trenta, erano intervenute nel tessuto sociale dell’isola a modificare anche il quadro complessivo delle vocazioni letterarie. E ciò pure nell’ambito della poesia siciliana. 

Questa situazione non piacque ad un gruppo – certo il più inquieto a quel tempo – di collaboratori del Po’ t’ù cuntu. Si trattava di Ugo Ammannato, di Pietro Tamburello e di qualche altro che già aveva scritto sul quel giornale dal 1927 in poi. Ma anche di giovani come Paolo Messina. Infatti, accanto a Federico De Maria nel 1945, essi avevano rilanciato la poesia dialettale siciliana attraverso affollati incontri con il vasto pubblico nell’Aula Gialla del Teatro Politeama di Palermo. 
E nei poeti che vi partecipavano, da Miano Conti a Nino Orsini, da Tamburello ad Ammannato, si era diffuso sin da allora il rifiuto della vecchia poesia dialettale e un bisogno ancora indistinto di cambiamento. 

Questi incontri indetti dalla Società Scrittori e Artisti di cui Federico De Maria era il presidente, e organizzati da Ammannato e Tamburello, furono chiamati – per suggerimento di quest’ultimo – Ariu di Sicilia. Allorquando nel 1953 quel gruppo di poeti riunito da comuni idealità di rinnovamento letterario e culturale – ancora non pronto a chiamarsi definitivamente Gruppo Alessio Di Giovanni come avverrà invece successivamente – constatata l’impossibilità di condurre in Sicilia un discorso di poesia nuova attraverso le pagine del Po’ t’ù cuntu, e pensò quindi di darsi un proprio foglio di proposta e di battaglia letteraria, Pietro Tamburello volle chiamarlo appunto Ariu di Sicilia. Ariu di Sicilia fu fondato nel 1954 da Pietro Tamburello che ne assunse la redazione. 
Era un foglio di quattro pagine, che usciva ogni mese e che durò esattamente da Marzo a Ottobre di quell’anno. Visse il suo breve tempo in povertà di mezzi finanziari e fu un semplice inserto del Po’ t’ù cuntu. Nell’editoriale del primo numero Pietro Tamburello aveva annunciato i seguenti tre obiettivi:

1)    promuovere una nuova fioritura di studi intorno alla letteratura siciliana,
2)    rinnovare la tradizione alla luce delle ultime esigenze estetiche,
3)    sottoporre a revisione critica le opere degli scrittori delle generazioni passate.

I testi letterari pubblicati furono in tutto 115 di 41 autori. Tra questi c’erano tutti i poeti che si riconosceranno quanto prima nel Gruppo Alessio Di Giovanni. Parlo di Ugo Ammannato, Miano Conti, Aldo Grienti, Paolo Messina, Carmelo Molino, Pietro Tamburello e Gianni Varvaro. Meno costanti nella collaborazione ma presenti: Ignazio Buttitta, Salvatore Di Pietro, Nino Orsini, Elvezio Petix.” 

Paolo Messina in Appunto per Pietro Tamburello, pubblicato sul numero Settembre-Ottobre 1983 di Arte e Folklore di Sicilia, annota: “L’esperienza del Gruppo Alessio Di Giovanni (di cui Pietro Tamburello fu uno dei fondatori) doveva lasciare una traccia incancellabile nella storia della nostra letteratura. Pietro Tamburello ci proponeva lo studio degli autori stranieri che avevano dato origine a tutti gli “ismi” contemporanei e che possedeva in vecchie edizioni. Ricordo che era suo il primo esemplare delle Fleurs du mal (di Charles Baudelaire) che ebbi tra le mani. Altra svolta legata all’esperienza del Gruppo Alessio Di Giovanni fu la nozione dell’impegno che non ammette alcuna dipendenza politica, ma punta direttamente sull’uomo e sulla lotta dell’uomo per uscire da una condizione disumana.
Qui la poesia di Tamburello si fa epica ed accorata insieme. Si avvicina nuovamente ai modi popolari, poiché si rivolge al popolo, ma restando libera nella sua misura. Tamburello ha il dono di suscitare una vasta zona di silenzio intorno al suo discorso poetico, di modo che l’oggetto che ci presenta rimane come sospeso in quest’aura magica dove nessun’altra voce interferisce e ne confonde la visione (per usare un termine dei formalisti)”. 
  
Sul n°2, Ottobre 1970, di La Fiera Dialettale, pubblicato a Roma, Salvatore Di Pietro scrive: “In quest’ultimo dopoguerra a Catania e a Palermo si è avuta una splendida fioritura di poeti. La caratura di questi poeti autentici lasciamola stabilire in altra sede. A noi importa richiamare questi nomi, l’uno accanto all’altro, perché nei contemporanei non se ne offuschi il ricordo: perché essi brillino nell’intero arco della poesia dialettale italiana. E sono tanti questi poeti, tanti e pochi nel contempo … a Palermo: Giuseppe Denaro, Giovanni Girgenti, Gianni Varvaro, Enzo Barbera, Nicolò Fontana, Nino Orsini, Pietro Tamburello.” 

Il giornale di poesia siciliananumero di Giugno 1988 – presenta un profilo di Fortunato Martore Cuccia su Ugo Ammannato: “L’esordio letterario di Ammannato si ha intorno al 1927 sulle colonne di un settimanale di poesia dialettale che si pubblicava a Palermo appena dall’Ottobre del 1926, il Po’ t’ù cuntu. Scrivevano a quel tempo sul Po’ t’ù cuntu Salvatore Ingrassia, Carmelo Truscello, Ciccio Carrà Trincali, Antonino Equizzi, Salvatore Volpes Lucchese, Giovanni De Rosalia e tra i giovanissimi Pietro Tamburello, Nino Tesoriere e altri. Trasferitosi a Palermo sul finire degli anni Venti, egli (Ugo Ammannato, n.d.r.) fu, con Pietro Tamburello, tra i fondatori della Accademia Dialettale Siciliana “G. Meli” (di cui lo stesso Tamburello era stato l’ideatore)”.

Ancora il giornale di poesia siciliana sul numero Luglio-Agosto 1988 riporta il pezzo di Alberto Prestigiacomo in ricordo di Gianni Varvaro: “In quel tempo (gli anni Sessanta, n.d.r.) con Giuseppe Ganci Battaglia andavo in giro per i circoli di Palermo e della provincia a fare recite e conferenze su poeti siciliani. La domenica mattina, al bar di Villa Sperlinga d’estate e al bar Santoro d’inverno, incontravo i poeti che io avevo chiamato Nuovo Gruppo Alessio Di Giovanni e c’erano Nino Orsini, Paolo Messina, Pietro Tamburello, a cui si aggiunsero Giacomo Cannizzaro, Emanuele Baglio, Gianni Varvaro”, e dalla intervista immaginaria di Maria Sciavarrello con Pietro Tamburello pubblicata sul MANIFESTO della Nuova Poesia Siciliana – Catania 1989 – traiamo:

 “Se ancora oggi la poesia siciliana ha un seguito numeroso e se, come tutti riconoscono, ha cambiato pelle inserendosi nel vivo della cultura europea, spesso al passo con i movimenti poetici più avanzati, si deve soprattutto a due poeti che hanno saputo essere anche animatori culturali: Salvatore Camilleri a Catania e Pietro Tamburello a Palermo. Due poeti che hanno lavorato molto per gli altri, lasciando magari in ombra se stessi.” E prosegue la Sciavarrello: “Forte com’era di una cultura che gli veniva dallo studio dei poeti che più avevano contribuito in Europa e nel mondo al rinnovamento della poesia, da Lorca a Machado, da Baudelaire a Mallarmé, da Valery a Eluard, da Ezra Pound a Eliot, da Esenin a Maiakovski … Pietro Tamburello cominciò a maturare l’idea di una poesia siciliana moderna, non più legata al folklore e alla tradizione popolareggiante, non più sorda alla voce di rinnovamento formale e contenutistico, finalmente aperta alle innovazioni, più responsabile della realtà.”

La rivolta, la rivoluzione alla quale a più riprese abbiamo fatto riferimento, ha spazzato via la ridondanza dell’aggettivazione, l’oleografia dei vezzeggiativi, la sclerosi della tradizione.
“Il dialetto – afferma Paolo Messina nel pezzo in ricordo di Aldo Grienti, pubblicato a Febbraio 1988, a Palermo, sul citato numero ZERO del ritorno del Po’  t’ù  cuntu – non era più portatore di una cultura subalterna, ma si era innalzato alla ricerca di contenuti (e quindi di forme) su più vasti orizzonti di pensiero. Sicché con lui (e con gli altri poeti definiti allora “neoterici”) la poesia siciliana toccava il punto di non ritorno, aboliva ogni pregiudiziale etnografica, pur restando (linguisticamente) siciliana”.

E accogliamo la voce propria di Pietro Tamburello.
Museo Etnografico è un pezzo non firmato, apparso il 31 Maggio 1954, ma sicuramente di Pietro Tamburello, sostiene Salvatore Camilleri.

Dice tra l’altro Tamburello:

 “Un poeta, noi pensiamo, comunica coi mezzi che egli crede esteticamente più idonei alla liberazione del canto. Noi vagheggiamo un ideale museo ove riporre definitivamente i tardi epigoni del Meli e dello Scimonelli, i rapsodi d’un inverosimile mondo pastorale, i beati menestrelli di una Sicilia convenzionale e manierata e tante brave persone che professano critica letteraria e non sanno distinguere fra la melensa faciloneria dei loro compagni di museo e la consapevolezza di chi affida al linguaggio del focolare i propri sentimenti, il suo pensiero e le sue fantasie, solo per una esigenza spirituale che si può discutere ma non ignorare. In questo museo delle idee sbagliate non può mancare quella di chi considera il poeta siciliano un complemento del folklore locale, quasi una curiosità paesana da offrire ai visitatori insieme al carrettino, alla brocchetta e al paladino di Francia impennacchiato.

E su Nuvole e Rane, apparso il 30 Giugno 1954 in Ariu di Sicilia, a proposito del Rinnovamento della Poesia Dialettale Siciliana puntualizzava: “Sappiamo tutti dove andare, ma non siamo concordi sulla via da seguire”.  

Il Giornale di poesia siciliana, numero di Giugno 1988 propone un pezzo di Pietro Tamburello in ricordo di Vito Mercadante: “Tra le mie cose più care conservo uno foto (del 1933, riprodotta in calce all’articolo, n.d.r.) in cui, con Nino Orsini e altri amici, ci stringiamo intorno al suo sorriso nel giardino della sua casa. Qualche anno ancora e poi la poesia siciliana avrebbe perduto la dolcezza di quel sorriso.”

“Ariu di Sicilia – ammette lo stesso Tamburello in una sua lettera pubblicata sul numero di Settembre 1988 del giornale di poesia siciliana – fu un’occasione mancata ma senza rimpianti dico io. Ho predicato il Vangelo ai turchi nella speranza che qualcuno si convertisse ma, come avvenne a San Francesco, i turchi sono rimasti attaccatissimi al loro Corano.”

E occupiamoci adesso, brevemente, delle due sillogi edite di Pietro Tamburello.

Carmelo Lauretta ne “La lirica di Pietro Tamburello” pubblicato sul numero di Luglio-Agosto 1991 del giornale di poesia siciliana commenta: “Edite nell’82 Li me’ palori sono l’unica (alla data dell’articolo, n.d.r.) opera di Pietro Tamburello, una delle voci più originali e più rare della lirica dialettale moderna.
Il titolo Li me’ palori non vuole significare, come potrebbe sembrare, un confronto polemico o un’autodifferenziazione dalla routine della produzione contemporanea, ma un’emblematica rivelazione delle sobrie valenze di linearità, della sorvegliata cura di linguaggio, della dimessa e confidenziale affabulazione, che contraddistinguono l’intera raccolta.
Le quaranta liriche del volume sono il frutto dell’esperienza poetica di oltre un quarantennio di vita. Esse abbracciano, infatti, il periodo che va dal ’36 al ’82, ed ovviamente accusano una coraggiosa eliminazione di precedenti composizioni liriche ed una decisa rinunzia della produzione giovanile. Tamburello dimostra così che ha il dono di non nutrire smanie di esibizione e che è dominato da una concezione seria della poesia, da un rigoroso senso estetico, da una ricerca di valori assoluti. Egli affrontò, nel dopoguerra, i problemi del rinnovamento della scrittura della poesia, dei suoi rapporti con la tradizione siciliana e della sua “europeizzazione”.

Volle che la poesia fosse impegno di penetrazione e di scavo interiore e che poggiasse su precise basi ideologiche e sulla capacità di una continua auto-analisi stilistica.
Nessuna meraviglia se la sua opera, ancora oggi, ha tutti i numeri per essere viva, attuale, piena di freschezza melodica e di alta connotazione estetica.
Mappa dei suoi itinerari poetici è una summa di materiali biografici, psicologici, spirituali, ambientali: affetti, esperienze esistenziali, vicende sociali, travaglio degli umili che trovano in Tamburello il loro registro lirico coerente e si traducono in contenuti eidetici, i cui nuclei-base sono amore, solitudine, pane, morte, paesaggio, solidarietà.

L’adesione al dialetto si rivela pronta, spontanea, non condizionata da tergiversazioni opzionali né da teorizzazioni provocatorie.
La fenomenologia della parola dialettale si definisce ai suoi occhi nei termini di una seconda nascita, di una rivelazione, di uno strumento cioè che meglio garantisce alla sua poesia il carattere di genuina musicalità e di presa diretta con le realtà tematiche nettamente individuate. Quello che colpisce nella silloge è la tempestività nell’individuazione delle immagini adorne di semplicità e di pregnanza semantica: niente sfruttamento di astrazioni generiche né baloccamenti copiosi di apparati aggettivali. Predominante nella costruzione sintattica è la forza del sostantivo in una all’impiego dell’indicativo, che esprimono realismo e concretezza.”

Arte e Folklore di Sicilia, sul numero menzionato di Luglio-Agosto 1998 pubblica il saggio di Salvatore Di Marco su Rosi di ventu

“Assai vicino alla lirica pura secondo la dettatura montaliana, Tamburello però ne semplifica il modello e l’occulta sotto gli abiti della tradizione siciliana delle forme rimate, del sonetto, dell’endecasillabo che risuona nelle composizioni a verso libero, lo occulta tra le fioriture lessicali di un dialetto armonioso ed antico. Da qui poi Tamburello ascende alle suggestioni della grande poesia francese. E, fuori dalle scene mondane, ormai raffinato artefice della propria parola poetica, giunto alle misure essenziali del dettato … ad ogni componimento consegna ineccepibile forma, dove nulla è superfluo o casuale”.

Lumie di Sicilia, edito in Firenze dall’Associazione Culturale Sicilia - Firenze, sul numero 37 di Ottobre 1999 riporta il mio breve saggio su Rosi di ventu

“L’uomo e il poeta Pietro Tamburello – la cui impronta comunque avrebbe figurato nel boulevard universale dei Poeti – sanno trovare, ancora oggi, i motivi, l’animo, il gusto di riproporsi, di calarsi nella tenzone, di rischiare. Con la puntuale prefazione di Antonino Cremona, ha visto luce infatti – a distanza di sedici anni dalla prima precedente opera – la nuova silloge di Pietro Tamburello “Rosi di ventu”. Fragili boccioli in apparenza – il gambo mediamente non supera i venti versi – esse, scevre da qualsiasi mirabilia fonografiche, sono ben radicate nel più fecondo del terreni: la ninna duci di lu me dialettu.

Scrive Salvatore Camilleri sul numero di Luglio-Agosto 2001 di Arte e Folklore di Sicilia: “Due volumi di poesie del Tamburello – Li me’ palori, del 1982 e Rosi di ventu, del 1998 – nel complesso poco più di mille versi, pochi rispetto a quelli composti durante tutta una vita dedicata alla poesia siciliana. Non si può parlare, quindi, della produzione del poeta, ma di una scelta. Pietro Tamburello è un poeta ben degno di essere studiato, in profondità, lungo gli itinerari che l’hanno portato alla sue cose migliori. Dico per lui ciò che ho detto per Mario Gori e per Santo Calì: Approfondiamone l’opera con impegno e amore.”  

D’altronde sempre Paolo Messina, nella introduzione al volume DOVE PASSA IL SIMETO di Aldo Grienti, ribadisce: “Qualcuno (uno storico della nostra letteratura) prima o poi dovrà pure far piena luce anche su quella nuova ouverture siciliana”.

E chiudiamo, fidando che gli incitamenti di Salvatore Camilleri e di Paolo Messina possano essere prima o poi raccolti, con due esempi della poesia di Pietro Tamburello.  
La prima, La scupetta di Camillo Torres, tratta da Li me’ palori:


La scupetta di Camillo Torres  
(prete guerrigliero boliviano)

Giustu Patri Camillu.

Tu dici ca la terra
la so minnedda ni l’appara a tutti
e ogni timpa avi un occhiu piatusu
puru pi li sfardati.

Tu dici ca lu ‘nfernu di li vivi
è arruvintatu comu ‘na carcara
e nun c’è santi e nuddu paraddisu
pi cu’ si senti l’occhi di li figghi
azziccati a li rini.

Perciò pigghiasti ‘n manu ‘na scupetta
ti ni jisti sbannutu a la vintura
e quannu ti sbamparu nni lu pettu
li rosi di la morti
la jisasti a lu celu
comu facevi cu lu sacramentu.

1969


La seconda, Rosi di ventu, dalla omonima antologia:
 
Rosi di ventu

Nun c’è ‘na gnuni d’aria    
dunni jiri a strògghiri lu gruppu
di li me’ jorna persi.

Supra ‘na rama sicca
nun spuntanu ciuri e mancu aceddi.

Ora
cogghiu rosi di ventu
mentri la luna cogghi paparini.



                                                                          

mercoledì 20 maggio 2015

INTERVISTA IMMAGINARIA A CAMILLERI. Marco Scalabrino intervista l'autore de La Barunissa di Carini


Chianci Palermu, chianci Siracusa
’n-Carini c’è lu luttu pp’ogni casa.

Attornu a lu Casteddu di Carini
ci passa e spassa un beddu Cavaleri,
lu Vernagallu di sangu gintili
ca di la giuvintù l’onuri teni.

“Amuri chi mi teni a to’ cumanni,
unni mi porti, duci amuri, unni?”




La Barunissa di Carini, un'esemplare storia per cantastorie:

"Paolo e Francesca" siciliani




La Barunissa di Carini

Intervista immaginaria a Salvatore Camilleri

di 

Marco Scalabrino


MS. Professore Salvatore Camilleri, la ringrazio intanto per avere accolto la mia richiesta. Prima di affrontare l’argomento del nostro odierno incontro, ci parli un po’ di lei.

SC. Caro Scalabrino, cosa vuole che le dica? Lei sa bene che ho speso tutta la mia vita al servizio della Poesia e della poesia dialettale siciliana in specie.

MS. Possiamo nondimeno elencare, e succintamente commentare, i tratti e i titoli principali della sua lunga prassi di poeta e letterato?

SC. Sangu Pazzu, la mia prima opera risale agli anni 1944-45. Essa raffigurava in termini lirici il diario di chi, reduce dalla guerra, ha visto franare tutti i suoi sogni. Nel 1952 mi sono trasferito a Vicenza, per insegnarvi. Nel frattempo avevo iniziato a tradurre i classici, pubblicato sul quotidiano catanese Il corriere di Sicilia svariati articoli sui poeti siciliani del Cinquecento e del Seicento e recensito parecchi poeti contemporanei, fra i quali Giuseppe Mazzola Barreca, Carmelo Molino e Gianni Varvaro.
Rientrato a Catania nel 1962, nel 1965, assieme con Mario Gori, ho fondato la Rivista Sciara, cui hanno contribuito, tra gli altri, Leonardo Sciascia, Giuseppe Zagarrio, Giorgio Piccitto e Santo Calì. Nel 1966 ho pubblicato Ritornu e nel medesimo anno Sangu pazzu, ove la lingua non è catanese, né palermitana, ma rappresenta la koiné regionale, determinata dalla sola legge del gusto, in cui l’ortografia è quella della tradizione liberata dalle incoerenze, legata alla etimologia latina, ma non sorda al rinnovamento linguistico, e nel 1971 La Barunissa di Carini.

MS. Ecco, giusto La Barunissa di Carini vorrei che lei ci illustrasse.

SC. Dopo ci arriviamo. Nel 1975 Alfredo Danese decise di fondare e pubblicare la rivista Arte e Folklore di Sicilia e sulle pagine di quel periodico, dall’esordio e fino al 2008,  hanno visto la luce decine e decine di miei saggi e interventi critici. Nel 1976 ho pubblicato Ortografia siciliana e nel 1979 Luna Catanisa, nella cui premessa ribadisco che non c’è risoluzione dei problemi formali senza risoluzione all’interno della coscienza, non c’è versante espressivo senza versante umano, non c’è arte senza vita: la poesia nasce sempre nell’ambito della sua dimensione storica, esistenziale e umana, non mai dall’esercizio fine a se stesso, dal nulla.
È sempre stata mia convinzione peraltro che nessuno procede da solo né nella vita né per i sentieri della poesia, né mai poeta ha percorso la sua strada senza avere a fianco altri compagni di viaggio, altri poeti, senza ricevere e senza dare a quelli che vengono dopo tant’è che, nel 1983, ho dato alle stampe 70 POESIE, Federico Garcia Lorca nel siciliano di Salvatore Camilleri.

MS. Io posseggo una copia del suo MANIFESTO della nuova poesia siciliana, che ritengo sia una sorta di vangelo per ogni poeta, in dialetto o meno.

SC. Il MANIFESTO è un tomo in fotocopie di circa 500 pagine, del 1989, che raccoglie saggi, interventi critici, poesie dei quarantacinque anni precedenti, pressoché tutti editi su Arte e Folklore di Sicilia.

Mi faccia, però, ultimare l’elenco delle mie opere. Nel 1944, allorquando iniziai a scrivere in siciliano, avvertii subito la mancanza di un vocabolario. Quelli che trovai, non più in commercio ma in biblioteche pubbliche, erano vecchi di quasi un secolo, e praticamente inutili, in quanto si trattava di vocabolari siciliano-italiani. Mancava il vocabolario che mi occorreva, come mancava a coloro che scrivevano per il teatro, agli attori dialettali, agli studenti, ai moltissimi appassionati del dialetto: mancava un vocabolario italiano-siciliano, cioè uno strumento capace di aiutarmi concretamente in tutte le circostanze nelle quali non mi veniva in mente il corrispondente siciliano di un vocabolo italiano. Nel 1998 ho dato perciò alle stampe Il Ventaglio – Vocabolario Italiano-Siciliano.
Nel 2001 è stata la volta di Lirici greci in versi siciliani, Archiloco, Mimnermo, Stesicoro, Alceo, Anacreonte, Simonide, Callimaco, Teocrito e altri, che ho tradotto affinché le mie traduzioni, come i miei versi, possano far parte della cultura siciliana. È stato un esercizio propedeutico fondamentale che, consentendomi di misurarmi con i poeti che traducevo, ha innalzato miei livelli di ispirazione, ha favorito la creazione di un mio linguaggio poetico, del linguaggio delle mie opere.
Ho inoltre adattato in versi siciliani: l’Odissea di Omero (Musa, pàrrami tu di dd’omu, mastru / di tutti li spirtizzi, chi gran tempu /…), l’Eneide di Virgilio, Le Argonautiche di Apollonio Rodio, De Rerum Natura di Lucrezio, Saffo e Catullo e altresì poeti spagnoli e francesi nonché gli Arabi di Sicilia Ibn Hamdìs e Muhammad Iqbàl.

MS. Mi scusi se la interrompo. E la Grammatica siciliana?

SC. La Grammatica siciliana e i trenta volumi della Storia della poesia siciliana sono tra i miei ultimi lavori.
La Grammatica siciliana riprende e amplia i problemi osservati nella Ortografia siciliana e li pondera, li sviscera in tutti i loro aspetti, alla luce dei contributi scaturiti dagli incontri con gli amici con cui se ne discuteva, fra i quali: Maria Sciavarrello, Antonino Cremona, Paolo Messina, e dello sprone incassato da Ignazio Pidone, Orio Poerio e Giovanni Cereda.
Il penultimo capitolo di questa mia storia è del 2005: Gnura Puisia consegna quasi un ventennio di riflessioni, soste, incontri, avanzamenti in armonia con la condizione esistenziale del poeta, creatore per eccellenza, quindi innovatore, trasgressore e – nei limiti – anche programmatore.
Le conquiste formali precedenti, con pochi aggiustamenti, rimangono le conquiste di sempre, divengono le colonne del tempio; il contenuto, pure attraverso gli assalti della sofferenza, continua sulle tracce iniziali: ’n-cerca di puisia, ‘n-cerca d’amuri pi canciari lu munnu a sumigghianza di lu me cori. Del 2007 è Biribò che, asserisce Paolo Messina in prefazione, è “la summa di ogni escogitazione formale (dai versi liberi all’ottava siciliana) per indagare poeticamente ogni ramo del sapere”.
MS. E Sicelides Musae …. come è venuto fuori?

SC. A 87 anni, nel 2008, esauritasi l’esperienza di Arte e Folklore di Sicilia ma non la mia voglia di impegnarmi, ho fondato a Catania con altri amici il bimestrale letterario Sicelides Musae.

MS. Molto bene; grazie. Ci parli adesso, per favore, de La barunissa di Carini.

SC. Nell’estate del 1971 fui invitato da un libraio editore a preparare una nuova rielaborazione del testo della Baronessa di Carini e a premettervi un saggio introduttivo. Mi misi subito al lavoro e preparai l’opera, che apparve nel Dicembre dello stesso anno.   

MS. Con che accoglienza?   

SC. Dire che la stampa se ne sia interessata è un bugia. Bernardino Giuliana, però, incantò le platee di molte località della Sicilia con le sue magistrali interpretazioni, Fortunato Pasqualino mi comunicò che l’aveva letta con grande piacere, Lidia Alfonsi mi consigliò di trarne un film o uno sceneggiato televisivo.

MS. E, con tali favorevoli premesse, come finì?

SC. Finì che il libro non ebbe alcuna recensione, ma nel primo anno di vita, una poetessa venezuelana, Yuri Weky, ne fece una traduzione in spagnolo, verso la fine del 1972 Lucio Mandarà mi accennò della possibilità di realizzare uno sceneggiato per la televisione, e in seguito Massimo Mollica mi informò dell’approvazione del progetto e della sua prossima realizzazione.

MS. E dunque il giusto riconoscimento è arrivato?

SC. Non propriamente. Durante la presentazione in televisione dello sceneggiato fu fatto il mio nome come di chi è stato a interessarsi per ultimo della Baronessa di Carini, né una parola in più, nonostante durante le quattro puntate dello sceneggiato Paolo Stoppa parlasse spesso con le mie parole.

MS. Siamo alle solite: la fatica è nostra e i meriti altrui.

SC. In parte, sì. 
In effetti, con la proiezione dello sceneggiato qualche briciolo di notorietà venne anche alla mia opera. Giuseppe Bocconetti su Radio Corriere TV scrisse che “Salvatore Camilleri, sulla vicenda ha scritto un interessante volume al quale Mandarà si è rifatto”, Luigina Grasso su La Sicilia: “Salvatore Camilleri è insigne storico e dalla sua opera Mandarà e D’Anza hanno ampiamente attinto per il loro soggetto”, e Aurelio Rigoli, sul Giornale di Sicilia: “La Rai-TV ha utilizzato un recente lavoro di un autore catanese per la trasmissione televisiva”, ma mi ha rattristato che non abbia fatto il mio nome.

MS. Ma qual è la vicenda de La Barunissa di Carini?

SC. Il 4 dicembre 1563 viene consumato nel Castello di Carini un efferato crimine: vittima è la Barunissa, uccisore il padre. Questi, uno dei personaggi più potenti e prepotenti del regno, impone il silenzio su quei foschi fatti, nei quali è implicato l’onore della casata. Tutti i diaristi dell’epoca pertanto taceranno e si deve unicamente a un poeta, che elaborò un poemetto su quei tragici avvenimenti, se quella storia si diffuse nei secoli tanto da pervenire fino a noi.

MS. Professore Camilleri, chi era La Barunissa di Carini? E perché il padre la uccise?

SC. Caterina La Grua, giovane figlia del barone La Grua-Talamanca, “supremamente bella”, corteggiata dal cugino Vincenzo Vernagallo se ne innamora e gli si dà. Ma il barone, venutone a conoscenza per le confidenze di un frate “tristo, ingrato e invidioso”, cerca di uccidere l’amante, il quale riesce a fuggire e a rifugiarsi a Palermo; non fugge però Caterina, che viene uccisa e il cui sangue “si può ancora vedere a una parete della torre di Carini.”

MS. Io so che Salvatore Salomone-Marino …

SC. Prima di lui il Marchese di Villabianca, vissuto tra il 1700 e il 1800, e Lionardo Vigo, nel 1857, e successivamente Giuseppe Pitrè, nel 1870 e poi nel 1891, ne scrissero estesamente; il Pitrè prospettando l’ipotesi dell’uxoricidio. 
Ma, come comprova definitivamente il Salomone-Marino nel 1914 e io sostengo, la tesi è niente affatto condivisibile e suffragata. Il Salomone-Marino, sin dal 1867, raccolse prima un centinaio, poi circa cinquemila e infine qualcosa come ventimila versi e trecentonovantadue varianti, con i quali ricostruì il poemetto, in conformità alla verità storica che egli si era venuto formando e che i testi gli confermavano. In stagioni più recenti, Giuseppe Cocchiara, nel 1926, e Federico Di Maria, nel 1943, ristamparono rispettivamente le edizioni del 1914 e del 1873 del Salomone-Marino.

MS. Le rivolgo, a questo punto, la domanda delle domande: chi è l’autore de La Barunissa di Carini?

SC. La sua domanda è destinata a rimanere senza risposta. Si sono fatti alcuni nomi: Matteo Di Gangi, Antonio Veneziano, Geronimo D’Avila, Vincenzo Bosco, Mariano Bonincontro, Mariano Migliaccio, Tubiolo Benfare. Antonio Pagliaro, nel 1956, distinse due diverse personalità nell’autore del poemetto: il primo, quello, delicato e aulicizzante, della canzunedda rispittusa, esordio del componimento e dell’incontro fra il barone e la figlia; il secondo, ancorato alla tradizione popolaresca, quello delle altre parti. Tubiolo Benfare, per le considerazioni comparate che ho espresso nel libro, è l’unico che a mio avviso avrebbe potuto scrivere il poemetto.

MS. La sua ricostruzione, allora, a chi si rifà?

SC. Oltre a quelle menzionate, il poeta Vann’Antò, Giovanni Antonio Di Giacomo, approntò una edizione del poemetto e un ponderoso volume di Aurelio Rigoli contenente i ventimila versi e le trecentonovantadue varianti raccolti da Salomone-Marino uscì nel 1963. La ricostruzione del 1873 di Salomone-Marino costituisce, a parere mio, quanto di più autenticamente poetico ci abbia conservato la tradizione orale. Il compito che mi sono assunto è quello di ripresentare quel testo, possibilmente migliorato, liberandolo di molte delle sue incongruenze, facendo tesoro anche delle ricostruzioni di Luigi Galante, del 1909, e di Federico Di Maria. La mia rielaborazione è estetica e non filologica, ed è intesa a formulare un testo finalmente accessibile, un testo poetico e non folkloristico, un testo che ci restituisca il capolavoro della poesia siciliana popolare.

MS. Ma, ci sono dei suoi versi nella riedizione del 2005 della sua Barunissa?

SC. Non più di una decina; li troverà tra virgolette.

MS. E come è strutturata l’opera?

SC. Si articola in sette parti, denominate: La canzunedda rispittusa, L’amore, La morte, La mala nova, La mala sorte, La discesa all’inferno, Rimorso, preceduta ognuna da una rapida introduzione, una strofe per pagina, con commento esplicativo, brevi riferimenti storici e qualche nota estetica.

MS. Professore Camilleri la ringrazio di cuore per l’amabile conversazione, per le sue  appassionanti delucidazioni e le chiedo, in chiusura, che mi autorizzi a corroborare questo nostro colloquio con alcuni stralci della sua Barunissa di Carini.

SC. Va bene; li scelga lei stesso.   


Chianci Palermu, chianci Siracusa
’n-Carini c’è lu luttu pp’ogni casa.

Attornu a lu Casteddu di Carini
ci passa e spassa un beddu Cavaleri,
lu Vernagallu di sangu gintili
ca di la giuvintù l’onuri teni.

“Amuri chi mi teni a to’ cumanni,
unni mi porti, duci amuri, unni?”

Tutta la notti nsèmmula hannu statu:
la cunfidenza longa l’hannu a fari.
Lu munacheddu nisceva e ridia,
e lu Baruni sulu sdillinia.
Afferra lu Baruni spata ed ermu:
“Vola, cavaddu, fora di Palermu!”

Chianci Palermu, chianci Siracusa
’n-Carini c’è lu luttu pp’ogni casa.

“Viju viniri na cavallaria…
Chistu è me patri chi veni pri mia!
Viju viniri na cavallarizza…
Chistu è me patri chi mi veni ammazza.
Signuri patri, cchi vinistu a fari?
Signura figghia, vi vegnu a ‘mmazzari!”

Lu primu corpu la donna cadìu,
l’appressu corpu la donna murìu;
‘n-corpu a lu cori e ‘n-corpu ntra li rini,
povira Barunissa di Carini.

Ora spaccatu è ddu filici cori,
e di lu chiantu Sicilia ni mori.

Chianci Palermu, chianci Siracusa
’n-Carini c’è lu luttu pp’ogni casa.



Giugno 2013                                                                 Marco Scalabrino



Otello Profazio canta La barunissa di Carini
https://www.youtube.com/watch?v=LsUOZWmidNw