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giovedì 3 giugno 2021

ARRIVARU LI PIGNATEDDRI? SONO ARRIVATE LE PENTOLINE? Era la domanda che si faceva nel gioco infantile di una volta

 

Sono arrivate le pentoline?
In dialetto: 
Arrivaru li pignateddri?

In un dialogo a schema fisso
la domanda veniva reiterata soprattutto dalle bambine fra loro
 per avere sempre una rituale risposta
 che lasciava adito  a ripetere, dopo un po', la stessa domanda. 
Era un gioco.

Al di fuori di quel gioco, la domanda vale anche come metafora
quando si vuole una risposta alle più svariate domande.
La risposta non è mai esaustiva né immediata,
secondo le regole del gioco.




giovedì 6 agosto 2015

L'IMPORTANTE È PROVARCI, ANCHE SE "VE NE HA A RIBOCCO". Ma non sempre il fine giustifica i mezzi

Anche se può turbare l'idea di "turba", perché subdolo e incombente lo sciagurato rischio di esserne risucchiati, attuali, anche se non si sa quanto utili, risultano le considerazioni del Padre Bonaventura Caruselli sullo scrivere, sullo scrivere libri. 



Bonaventura Caruselli, Maria Vergine del Monte in Racalmuto. Dramma sacro preceduto da una memoria storica sopra Racalmuto e la Vergine del Monte e seguito di altre sacre poesie, Palermo, Policromo-tipografia di Francesco Natale - Piazza del Carmine Maggiore, 1856


DEDICATORIA


domenica 5 maggio 2013

I LIKE LU SICILIANU

Avrei dovuto farlo da tempo, fin da quando qualche mese fa mi è arrivata dall'America la grammatica siciliana di Gaetano Cipolla, e cioè scriverne la recensione e darne notizia sul blog. Lo faccio ora: attraverso la recensione di Marco Scalabrino. 

E' piacevole in un sodalizio ideale di interessi comuni omaggiare il lavoro di un amico con le riflessioni e lo studio di un altro amico.
Intanto anticipo che il libro verrà presentato  a Palermo, al Castello di Maredolce, il prossimo 4 giugno. 

In un apposito post ne sarà dato completo ragguaglio.  P.C.







Gaetano Cipolla

Learn Sicilian / Mparamu lu sicilianu

Edizioni LEGAS, Ottawa (Canada)  2013

Recensione
 di Marco Scalabrino
 

Malgrado, dall’Unità d’Italia e dalla affermazione del Toscano quale lingua dei sudditi del Regno, i linguisti a più riprese ne abbiano annunziato l’imminente sparizione, il Siciliano ha provato di essere resistente e, quantunque la sua influenza si sia ristretta alle sfere familiare e amicale, esso è tuttora parlato e capito dalla grande maggioranza degli Isolani.  

L’organizzazione culturale statunitense Arba Sicula, nel corso degli ultimi 33 anni, ha dedicato ogni sua energia alla promozione della lingua e della cultura siciliane nel mondo.
Gaetano Cipolla è l’anima di Arba Sicula.
Già professore di Lingua e Letteratura Italiana presso varie università americane, la St. John’s University di New York per ultima, nato in Sicilia nel 1937 ed emigrato negli Stati Uniti nel 1955, Presidente dell’Associazione U.S.A. “Casa Sicilia”, Presidente e Direttore di Arba Sicula, rivista bilingue che ospita articoli in inglese e siciliano, e del periodico Sicilia Parra, Ambasciatore culturale della Regione Sicilia nel mondo, vincitore di prestigiosi premi inclusi il “Talamone”, il “Thrinacria d’argento” e il “Proserpina”, Gaetano Cipolla ha tradotto in inglese parecchi poeti siciliani e fra loro: Nino Martoglio, Giovanni Meli, Antonio Veneziano, Nino Provenzano, Vincenzo Ancona, Senzio Mazza e Salvatore Di Marco.




Premesso che in Sicilia ci sono molte parlate, che il Siciliano è largamente usato dai poeti (mentre per la prosa è tutt’altra faccenda), che, sostiene convintamente Salvatore Camilleri, il Siciliano può esprimere qualsiasi concetto: “la storia, la filosofia, la sociologia, tutte le scienze, non in quanto tali, ma come patrimonio culturale che chi scrive brucia nell’atto della creazione”, la decisione di scrivere una grammatica del Siciliano – appunta Gaetano Cipolla, nelle note a corredo del volume – non è stata facile.   

Prima, però, di addentrarci nella “lettura” e di trarne delle sostanziali considerazioni, diamo contezza, oltre alla ben nota Grammatica Siciliana di Giuseppe Pitrè del 1875, di talune altre recenti pubblicazioni in argomento: Introduction to Sicilian Grammar di J. Kirk Bonner del 2001, Grammatica Siciliana di Salvatore Camilleri del 2002, Sicilian the oldest romance language di Joseph F. Privitera del 2004, Per lo studio del siciliano di Rosalba Anzalone del 2006.

Questi studi dimostrano irrefutabilmente quanto l’interesse degli studiosi, nazionali ed internazionali, sia ancora vivissimo nei confronti del Siciliano e al contempo quanto questo sia tuttora presente e vitale nella realtà e nella cultura del popolo siciliano. E ciò a dispetto del rapporto ATLAS del 2009, relativo alla “salute” delle lingue del mondo, il quale ha collocato il Siciliano nella V categoria, quella ossia delle “lingue vulnerabili”, rimarcandone il peggioramento rispetto alla precedente posizione rilevata nel Libro Rosso dell’UNESCO del 1999, che il nostro idioma aveva incluso nella VI categoria, ovvero “Lingue non in pericolo [di estinzione] con una trasmissione sicura alle nuove generazioni”.




Nello scrivere questa grammatica – annota Gaetano Cipolla, ricollegandosi ad uno dei passi appena premessi – ho dovuto scegliere quale parlata favorire.
Il mio lavoro di traduttore – prosegue – mi ha messo in contatto con i testi di Giovanni Meli di Palermo, Giuseppe Marco Calvino di Trapani, Domenico Tempio e Nino Martoglio di Catania, Luigi Pirandello di Agrigento, Corrado Di Pietro di Siracusa, Rosa Gazzara Siciliano di Messina e tanti altri di svariate parti della Sicilia, per cui il Siciliano che io uso nelle traduzioni e in questa grammatica è una sorta di koinè.
Registriamo, in soccorso di tale scelta, che una “koinè regionale, ove la lingua, legata alla etimologia ma non sorda al rinnovamento linguistico, non è catanese, né palermitana”, è stata sin dal 1966 praticata da Salvatore Camilleri nella sua silloge Sangu pazzu.



Il libro, bilingue Siciliano e Inglese, si apre con degli speciali ringraziamenti ai proff. Salvatore Riolo e Giovanni Ruffino, rispettivamente delle Università di Catania e di Palermo, ed altresì a J. Kirk Bonner, Mario Gallo, Gaetano Consalvo e Marco Scalabrino per la loro consulenza e il loro sostegno. Ulteriori ringraziamenti l’Autore rivolge poi a quanti hanno reso più facile il suo compito e fra loro: Corrado Avolio, Giuseppe Pitrè, Salvatore Camilleri e Frederick Privitera.

Suddiviso in più parti: una Introduzione, una Lezione preliminare, Capitoli da 1 a 18, una Appendice contenente un essenziale vocabolario siciliano – inglese e viceversa e l’indice delle registrazioni audio racchiuse sul DVD accluso al libro, questo – sottolinea Gaetano Cipolla – è stato concepito con un preciso proposito: quello di insegnare agli studenti le quattro abilità linguistiche: capire, leggere, parlare e scrivere il Siciliano. Siciliano che, notoriamente una lingua romanza al  pari di Italiano, Spagnolo, Francese, Portoghese e Rumeno, condivide nondimeno con l’Inglese un vasto patrimonio lessicale, giacché “circa la metà delle parole inglesi derivano dal Latino”.





L’introduzione richiama, per sommi capi, le origini del Siciliano che, viene ribadito, fu la prima delle lingue regionali d’Italia a guadagnarsi la qualifica di lingua di poesia.
Esso, viene precisato, fiorì sotto il regno di Federico II nella prima metà del 13.mo secolo e i poeti che appartennero alla Scuola Poetica Siciliana, tanti di loro non nativi della Sicilia, scrissero nel linguaggio parlato a Palermo alla corte imperiale, la Magna Curia, di Federico II.
Il Siciliano fu, quindi, il linguaggio usato per redigere gli atti del parlamento siciliano fino alla metà del 16.mo secolo, allorché il toscano gli subentrò nella stesura dei documenti ufficiali.

Vale il caso di ricordare in questa sede che addirittura il sommo Dante, nel De Vulgari Eloquentia, attestò che “tutto ciò che gli italiani poeticamente compongono si chiama siciliano”; che nella Sicilia del Cinquecento operavano due Università, quella di Catania e quella di Messina; che nel 1543 il siracusano Claudio Mario Arezzo propose di istituire “il siciliano come lingua nazionale”; che il Siciliano può vantare Vocabolari, non ultimo il monumentale in cinque volumi a cura di Giorgio Piccitto, Giovanni Tropea e Salvatore C. Trovato, testi di Ortografia, di Grammatica, di Critica, come pure autori di levatura assoluta.



Il volume, come comprensibile, affronta, nelle sue 336 pagine, una miriade di temi.
Gaetano Cipolla si sofferma su alcuni dei segni dell’alfabeto siciliano: la dd, la c e la j, fra essi. La dd, da non confondere con la doppia d che è un segno diverso, derivante dal tardo-latino (capillus, caballus, etc.), talmente fuso nella pronuncia da essere considerato un segno a sé stante e non il raddoppiamento di due d, rappresenta il suono più caratteristico della lingua siciliana. “Infatti la suddivisione sillabica di addivintari, ad esempio, è ad-di-vin-ta-ri, mentre quella di cavaddu – precisa Salvatore Camilleri – è ca-va-ddu”. Da rilevare inoltre che il suono di d è dentale, mentre quello di dd è cacuminale. 

Non sono mancati nel tempo i tentativi, non fortunati, di sostituire il segno dd con ddh o ddr e con i puntini in cima o alla base di dd. La c, dolce e strisciante, derivante dal fl latino, flatus, flos, flumen e di conseguenza in siciliano ciatu, ciuri, ciumi, altrove e in altri tempi – già Lionardo Vigo nella seconda metà del 1800 ne sollevò il problema della determinazione ortografica – è stata graficamente resa con x, con xh, con ç o con sc


Tuttavia, mutuiamo da Corrado Avolio in Introduzione allo studio del dialetto siciliano del 1882, “ultimamente, in una radunanza di dotti cultori di lettere siciliane tenuta a Palermo, si stabilì di trascrivere con “c””, senza dunque ricorrere ad alcun distinguo grafico. La j è un segno che ha sovente suscitato l’attenzione degli studiosi. Salvatore Giarrizzo, nel Dizionario etimologico siciliano del 1989, definisce la j semivocale latina. 

Se viceversa, come da altri sostenuto, fosse una vocale la j dovrebbe ubbidire alla regola di tutte le vocali, a quella cioè di fondersi col suono della vocale dell’articolo che lo precede, dando luogo all’apostrofo. Così come noi scriviamo l’amuri (lu amuri) dovremmo pure scrivere l’jornu, l’jiditu … cosa che nessuno si sogna di fare, appunto perché, non essendo la j una vocale, non vi è elisione e quindi non è possibile l’apostrofo, il quale si verifica all’incontro di due vocali e mai di una vocale e di una consonante.   

Gaetano Cipolla individua inoltre molteplici peculiarità del dialetto siciliano, talune delle quali di seguito riportiamo.
È regola generale in Sicilia che la “e” e la “o” toniche mutino in “i” e “u” tutte le volte che perdono l’accento tonico, sia che si tratti di verbi, sostantivi, aggettivi o avverbi. Ad esempio: volu - vulari, sola - suletta, lettu - littinu, ventu - vintagghiu, testa - tistuni, morti - murtali … e ancora frenu - frinari, jornu - jurnata, ferru - firraru, pedi - pidata




Nel Siciliano, le preposizioni e gli articoli, contrariamente a quanto avviene nell’Italiano, non si uniscono. Nel linguaggio parlato di tutti i giorni, nondimeno, in svariate località le preposizioni e gli articoli si contraggono e diventano una sola parola. Ecco perciò l’uso degli articoli u, a, i, e delle preposizioni articolate contratte (ô = al, â = alla, = del, = della, = dei, ntô = nel, ntôn = in un, ntâ = nella, ntê = nei o nelle, = col). Se la parola che segue inizia per vocale la contrazione, però, non avviene. 

Di regola il plurale dei nomi, sia maschili che femminili, termina in “i”; ad esempio: quaderni, casi, pueti. Un certo numero di nomi maschili terminanti al singolare in “u” – certifica Gaetano Cipolla – fanno il plurale in “a” alla latina; sono nomi che di solito si presentano in coppia o al plurale: jita, vrazza, corna, ossa, vudedda, gigghia, linzola, dinocchia, cucchiara. Ugualmente cospicui i plurali in “a” dei nomi maschili terminanti al singolare in “aru” (latino arius) significanti, in gran parte, mestieri e professioni. Se ne ripetono i più comuni: aciddara, birrittara, ciurara, dammusara, furnara, ghirlannara, jardinara, libbrara, marinara, nutara, putiara, ruluggiara, scarpara, tabbaccara, uvara, vitrara, zammatara.




E, proseguendo fra i tantissimi argomenti trattati, una interessante pagina attiene ai verbi.
Scontato il ripiegamento del (tempo) passato prossimo a beneficio del passato remoto: parraru per hanno parlato, mancu mi vidisti per neanche mi hai visto, eccetera, nel Siciliano è altresì conclamato il ripiegamento del (modo) condizionale a vantaggio del congiuntivo, ad esempio: si lu putissi fari lu facissi, ci vulissi jiri.  
  
In argomento, è praticamente estinto il tempo futuro e ogni proposizione pertinente a un’azione futura viene, dunque, costruita al presente e al verbo si associa un avverbio di tempo (ad esempio: dumani vegnu).

“Come si può interpretare (quasi filosoficamente) – considera Paolo Messina – questa anomalia? Ecco lo spunto per un nesso fra lingua e cultura, modi di essere e di pensare. È la consapevolezza storica dell’esserci heideggeriano a produrre la riduzione continua del futuro a presente, all’hic et nunc, e ciò nel pieno possesso del passato ormai definitivamente acquisito. I siciliani sono padroni del tempo o, per dirla con Tomasi di Lampedusa, sono Dei. Ma essere (o ritenere di essere) padroni del tempo può voler dire dominare mentalmente la vita e la morte, avere la certezza della propria intangibilità solo nel presente, un presente che si appropria del tempo futuro per scongiurare la morte, ombra ineliminabile dell’esserci. Quello che conta è il presente. Essere e divenire, insomma, nell’ansia metafisica si fondono o si confondono”.



L’immagine di copertina, la foto di uno scorcio dei giardini pubblici di Taormina (ME), è dello stesso Gaetano Cipolla.
Copiose altre illustrazioni a colori abbelliscono l’odierno encomiabile lavoro; fra esse assai suggestive: una veduta dell’Etna dal Teatro-greco romano di Taormina; la Fontana della Vergogna e San Giovanni degli Eremiti a Palermo; una veduta di Cefalù (PA), con la Cattedrale Normanna; il Tempio dorico di Segesta (TP); l’Orecchio di Dioniso a Siracusa; le Saline di Marsala (TP). Ed ancora la magnifica riproduzione del mosaico di Villa del Casale di Piazza Armerina (EN), che raffigura Ulisse mentre offre il vino a Polifemo; il Talamone, nel Tempio di Giove ad Agrigento; la Cappella Palatina al Palazzo dei Normanni e il Trionfo della Morte, di autore anonimo custodito presso il Museo Abatellis, entrambi a Palermo; la statua di Aci e Galatea ad Acireale (CT). 
 

Calzanti ragguagli afferenti ad ognuno dei nove capoluoghi di provincia e preziose note culturali sui miti, sulle tradizioni e sul costume, nonché sulla letteratura e sugli autori siciliani, corredano la pubblicazione. Fra questi ultimi: Petru Fudduni con lu Dottu di Tripi, a proposito dei quali a breve riferiremo le tracce di un incontro, Domenico Tempio, Nino Martoglio, Giovanni Meli, Luigi Pirandello, Ignazio Buttitta, Alessio Di Giovanni, Antonio Veneziano. Giuseppe Pitrè definisce dubbio quel “componimento popolare in ottava siciliana, con il quale un poeta propone delle difficoltà o dei quesiti a un altro poeta, da cui, in altra ottava, riceve una risposta quasi nelle stesse rime.”

Per il carattere ludico e di arte enigmistica, soggiunge Maria Bella, i dubbi, come le sfide, i contrasti e le nniminagghi, erano di grande richiamo per il popolo e venivano recitati nelle piazze durante le feste, assumendo spesso forma di scontri per la supremazia poetica. Se ne trae un esempio dal tomo Sfide, contrasti, leggende di poeti popolari siciliani di Salvatore Camilleri, per il quale i dubbi della nostra tradizione sono giocati tutti o sulla dilogia (doppio soggetto, uno reale e uno apparente) o sul calembour o chiapperello (da chiappare a volo, attraverso un qualsiasi riferimento o bisticcio).

È il Dotto di Tripi che, fra l’altro, propone: Dimmi cu’ vivi acqua e piscia vinu, / dimmi cu’ ti saluta di luntanu, / dimmi cu’ senza pedi fa caminu, / dimmi cu’ si currumpi e sempri è sanu; e Petru Fudduni, a tono, risponde: La viti vivi acqua e piscia vinu, / l’amicu ti saluta di luntanu, / la littra è senza pedi e fa caminu, / lu mari si currumpi e torna sanu. Un esempio di calembour è quello legato all’incontro fra Antonio Veneziano e lu Vujareddu di li Chiani: domanda il primo: Cchi farriti, cchi farroggiu, cchi farraju? E risponde il secondo: Corda fa riti, ferru fa roggiu, suli fa raju.


Numerosi proverbi e nniminagghi (indovinelli) guarniscono inoltre il volume e fra essi: Cu’ mancia, fa muddichi; Cui di trenta, cui di trentunu, di vint’ottu ci n’è unu (Li misi di l’annu); Aju un palazzu cu dudici porti, ogni porta trenta firmaturi, ogni firmatura vintiquattru chiavi (li mesi e li jorna); Cu’ pratica lu zoppu, all’annu zuppìa; Cu’ pecura si fa, lu lupu si la mancia.         

Da segnalare, per di più, alcune curiosità.
Endemica in passato e oggi pressoché scomparsa, la nciuria (o peccu), che sovente veniva ereditata dai discendenti di coloro che ne erano stati per così dire titolari, consentiva l’identificazione immediata e indubbia di un casato e di una persona. Le origini sono legate all’attività, a una speciale caratteristica fisica, a un distintivo atteggiamento, a una località, eccetera e la tipologia è assai variegata. Se ne elencano a mo’ di esempio, oltre quelle riportate da Gaetano Cipolla, mutuandole da Titta Abbadessa, alcune più “colorite”:

Ninu causilenti, Puddu acquafrisca, Angilu cacaligna, Giuvanni funciazza, Natali cosciajanca, Micalangilu cingalenta, Matteu mattiddina, Cammelu pulici, Ninu uccastotta, Pippinu mustazzu, Miciu favisquadati, Vicenzu pisciafinocchi, Nunziu menzuculu, Cammelu cicireddu, Mariu uccad’aneddu, Affiu masciuscia, Peppi urrocamotti, Turi babbaleccu, Neddu micciastotta, Ninu manazza;




il cirnecu, una speciale razza – tuttora esistente – di cani nativi dell’Etna, posti a protezione del tempio dedicato al dio Adrano. Si narra che mangiassero letteralmente vivi quanti fossero intenzionati a rubarvi e da tale loro aggressività è nato il modo di dire riguardo ai malintenzionati: vi pòzzanu manciari li cani!;

la ricetta della pasta alla Norma, inventata da un cuoco catanese in onore di Vincenzo Bellini, i cui ingredienti sono sarsa di pumadoru, milinciani fritti, ricotta salata: la sarsa [ca è russa] rapprisenta lu focu di Muncibeddu, li milinciani fritti ca sunnu niuri rapprisentanu la lava chi c’è attornu a Catania, la ricotta salata ca è bianca rapprisenta la nivi di la muntagna.  

A proposito di Muncibeddu … i nostri conterranei di area orientale chiamano affettuosamente, senza tema di fraintendimento e senza appello, la Muntagna, Nostra ‘gnura Matri la Muntagna, l’Etna, il vulcano più alto d’Europa. Diversamente essa è denominata Muncibeddu, vocabolo che assomma in sé la radice latina di mons (monte) e quella araba di gebel (monte). Il vulcano, in effetti, era ritenuto dalle credenze popolari il padre di tutti i monti e di tutti i vulcani.





I Siciliani – ebbe ad affermare già Cicerone – hanno un senso dell’umorismo assai sviluppato e trovano motivi di ironia nelle circostanze più disparate; in quelle della quotidianità, ovviamente, ma perfino in quelle serie, al cospetto della religione ovvero e finanche della morte.

Chiudiamo, allora, la rapida disamina concernente questo pregevole strumento didattico realizzato da Gaetano Cipolla con una ultima notazione destinata a deliziarci. L’invito è, pertanto, a leggere le battute della “vedova” e quella di Angelo Musco rispettivamente alle pagine 202 e 243, la scenetta “filosofica” della quale sono protagonisti un debitore e un creditore alla pagina 275, nonché la gag che trae spunto da una ordinaria questione di parcheggio alla pagina 303.

Dopotutto, asserì Platone, fu Epicarmo da Siracusa, vissuto tra il 548 e il 453 a.C., ad inventare il genere teatrale della commedia. 




giovedì 2 maggio 2013

U PRINCIPINU SICILIANU





Mario Gallo

u principinu

Edition Tintenfass 2010


di Marco Scalabrino


L’immagine scelta per la copertina è quella del principinu sull’asteroide B 612, il pianeta d’origine del principinu che è stato visto al telescopio, una sola volta, all’incirca nell’anno 1920 da un astronomo turco. Altrove abbiamo rintracciato quella del principinu che “approfittò, per venirsene via, di una migrazione di uccelli selvatici” o quell’altra del principinu nel “miglior ritratto che riuscii a fare di lui più tardi”. Quale comunque che essa sia, sono tutte immagini assai belle, le quali, è risaputo, sono creazioni dell’autore stesso di le petit prince, ovvero dell’aviatore-scrittore francese Antoine De Saint-Exupéry.

Per questa illustrazione e per le successive, la più parte a colori, assodata la felice collocazione rispetto al progredire della narrazione, un primo aspetto che ci colpisce (che c’entri la globalizzazione?!) è che questo volume, pubblicato in settecento copie col patrocinio della Regione Siciliana, dell’Assemblea Regionale Siciliana e della Fondazione Ignazio Buttitta di Palermo, risulta essere stato stampato in … Germania, dalle Edition Tintenfass.

Non i contenuti e le forme de le petit prince, né i contenuti e le forme della versione in lingua italiana a noi più vicina saranno all’attenzione di questa breve testimonianza, quanto piuttosto i temi e soprattutto gli esiti di questa ennesima versione
Come non mai possiamo affermare ennesima versione, giacché le petit prince, che ci risulti, è stato tradotto ad oggi in oltre 220 idiomi, dall’afrikaans allo zulu, dal bengalese allo yiddish, passando per l’armeno, il bielorusso, il croato, il coreano, il lituano, lo swahili, il tahitiano, il tamil, e perfino l’esperanto, il gaelico, il latino, il provenzale, e ciò fa di le petit prince un’opera universale, una tra le più diffuse, conosciute e lette al mondo. 
Tant’è che, soltanto in Italia, essa è stata adattata, oltre che nella lingua nazionale, altresì nei dialetti bergamasco, bolognese, friulano, milanese, napoletano, piemontese, sardo, veneziano e, ora, anche siciliano. Alla edizione in italiano curata da Nini Bompiani Bregoli ci rifaremo, comunque, per quegli accostamenti fra gli esiti in lingua e quelli in siciliano realizzati da Mario Gallo dei quali ci occuperemo.

Conosciamo da parecchi anni Mario Gallo, quale Siciliano autentico (benché abbia trascorso grande fetta della sua esistenza fuori dai confini del Triangolo), quale appassionato direttore del periodico fiorentino lumie di sicilia, quale autore di alcune pubblicazioni tra cui i vespi siciliani, pungente satira di costume; ma in verità egli ci ha sorpreso allorquando, qualche tempo fa, ci partecipò di avere concepito e intrapreso questo progetto e non meno adesso che il progetto vediamo compiuto. 
Ci viene da supporre che, oltre alla predisposizione dell’animo, oltre all’interesse per la Cultura, il frangente di avere dei nipoti in età adolescenziale possa avere favorito questa impresa.

La lettura della traduzione eseguita da Mario Gallo, che per quanto di nostra conoscenza è la prima in siciliano e quindi essa pure da considerarsi un originale, mentre il testo le petit prince di Antoine De Saint-Exupéry è da intendersi quale l’opera prima alla quale la traduzione fa riferimento, ci fornisce il destro per numerose notazioni sul dialetto siciliano, talune delle quali di seguito riporteremo.

Ad iniziare dalla didascalia relativa alla illustrazione che per prima incontriamo all’interno, la quale, a ben leggerla, si mostra come una sorta di identikit del traduttore e ne “tradisce” nettamente la provenienza. La frase in argomento è: “Jò criu chi iddu, pi jirisinni, apprufittau di na migrazioni d’aceddi sarvaggi.” 
[...]


Quella posta in essere da Mario Gallo, apprendiamo, è “traduzioni dû francisi ‘nsicilianu”.

Ecco, notiamo, Mario Gallo utilizza le preposizioni articolate contratte, che egli caratterizza con l’accento circonflesso, per cui troveremo: dû francisi, ê picciriddi, ntô munnu, dâ natura, â storia, pâ virità, nnâ me vita, ô stessu liveddu, pî ranni, nô misteru, cû tiliscopiu, dî cosi, câ so pecura, chî matiti, pû culuri, dî baobab, ntê visciri, eccetera. 
Forme che sono in buona sostanza quelle proprie della parlata e di questa trasmettono l’immediatezza; mentre, per contro, il siciliano letterario lascia separate le due parti morfologiche e preferisce la soluzione preposizione più articolo.

Il dialetto siciliano: i suoi lemmi che tuttora noi adoperiamo con naturalezza, con proprietà di significato, con i quali assolviamo egregiamente l’esigenza sociale della comunicazione, che fanno parte a pieno titolo dell’odierno, nostro, quotidiano conversare. Orbene, quantunque pregni di vitalità, di attualità, essi sono antichi di secoli, quando non addirittura di millenni; ma di ciò non abbiamo consapevolezza, perché, invero, forse mai ci siamo interrogati in tal senso. 
[...]



Tra le notazioni doverose su questo lavoro di Mario Gallo è da rilevare, pertanto, quella afferente alla scelta lessicale; scelta che, estraendo appunto dall’incommensurabile patrimonio del nostro dialetto voci, espressioni, soluzioni assai felici, impreziosisce alquanto la traduzione. 
Ne proponiamo solo pochi eloquenti esempi, con a fianco in parentesi il corrispettivo in lingua italiana: passatera (incidente), ‘nfastiriatu (di malumore), crastu (ariete), prescia (fretta), ‘nfrinzai (tirai fuori), m’abbaggianava (ero molto fiero), tistiannu (scrollò il capo), ntracchiatu (elegante), arrunchianu i spaddi (suggestivo ed efficace persino nella postura che ci sembra proprio di vedere, alzeranno le spalle), na larma chiù ranni (letteralmente una lacrima, poco più grande), pirciannu i cascittini cu l’occhi (per vedere attraverso le casse), scantu (paura), cuddata dû suli (letteralmente tracollo del sole, tramonto), alluccutu (stupefatto), zicchiava (sceglieva), munciuniatu (sgualcito), tampasiari (indugiare), fa attaccari i nervi (è irritante), siddiarsi (letteralmente scocciarsi, annoiarsi), pinnuliannusi (sporgendosi), vavusu (vanitoso), quannu ammicciau (appena scorse), arrusciu (innaffio), astuta (spegne), vecchiu bonentu (vecchio signore), mazzacani (grosse pietre), abbanidduzza (semiaperte), sdirrupatu (in rovina), additta (in piedi).  [...]

Sin dalle battute d’esordio, queste pagine di Mario Gallo sono una vera e propria miniera di suggerimenti, che ci consentono di argomentare su parecchie delle peculiarità del dialetto siciliano. 
Una tra esse, saldamente legata al latino, è costituita dalla perifrastica (da perifrasi: giro di parole, circonlocuzione), che in siciliano non è passiva come nel latino e viene resa mutando il verbo Essiri in Aviri. Il latino mihi faciendum est, difatti, in italiano si volge con la perifrasi io debbo fare, o consimili, mentre il siciliano lo rende con aju a fari. E, nel principinu: aviti a pinzari, dovete pensare, si ci avâ diri, bisogna dire, m’appâ fari vecchiu, devo essere invecchiato, tu m’â discriviri, tu mi devi descrivere …

Come del resto è già avvenuto in altre lingue, nel siciliano il verbo Essiri ha perduto, in favore del verbo Aviri, le funzioni di verbo ausiliare: m’avissi piaciutu, mi sarebbe piaciuto, avissi statu, sarebbe stato. Si è verificato inoltre l’evidente ripiegamento del modo Condizionale a vantaggio del Congiuntivo: truvassiru, troverebbero, fussi, sarebbe,  facissi, farebbe, lassassi, lascerebbe, l’avissivu vui, l’avreste voi, e del tempo Passato Prossimo a beneficio del Passato Remoto: ‘ncuntrai, ho incontrato, campai, ho vissuto, caristi, sei caduto, vi cuntai, vi ho raccontato, vitti, ho visto, accattai, ho comperato …    
  
Nel dialetto siciliano manca il tempo futuro dei verbi. “Come interpretare (quasi filosoficamente) questa anomalia? Ecco lo spunto – asserisce Paolo Messina – per un nesso fra lingua e cultura, modi di essere e di pensare.
[...]

Quello che conta è il presente. Essere e divenire, insomma, nell’ansia metafisica si fondono o si confondono.” Manca il tempo futuro e ogni proposizione riguardante un’azione futura viene costruita al presente e al verbo si associa un avverbio di tempo. Il principinu non deroga a tale precetto: ti pozzu aiutari ‘n jornu, potrò aiutarti un giorno, tu rumani sî luntanu, tu sarai lontano, capisci allura, capirai, ci sugnu stanotti, ci sarò questa notte, aiu chiù scantu stasira, avrò più paura questa sera …  

Largo è, in Mario Gallo, l’uso della desinenza in “a” per il plurale dei sostantivi: jocura, maruna, miliuna, culura, munna, putruna, fuculara, jorna, libra, cunta, spuntuna, diserta, ‘mmriacuna, viaggiatura, lampiuna, liama, cacciatura, labbra, puzza, vrazza, disigna, prugetta, migghia, munzedda. 

Beninteso, anche il numero dei nomi è soggetto alle norme; e allora vediamole: “Il plurale dei nomi, sia maschili che femminili – scrive Salvatore Camilleri sulla sua ortografia siciliana del 1976 e riprende nella sua grammatica siciliana del 2002 – termina in “i”; ad esempio: quaderni, casi, pueti, ciuri
Un certo numero di nomi maschili terminanti al singolare in “u” fanno il plurale in “a” alla latina; sono nomi che di solito si presentano in coppia o al plurale: jita, vrazza, labbra, corna, ossa, vudedda, coccia, gigghia, mura, linzola, dinocchia, cucchiara

Molto più numerosi sono i plurali in “a” dei nomi maschili terminanti al singolare in “aru” (latino arius) significanti, in gran parte, mestieri e professioni.” Tra i più comuni se ne elencano: aciddara, birrittara, carvunara, ciurara, dammusara, furnara, ghirlannara, jardinara, jurnatara, libbrara, marinara, massara, nutara, picurara, pisciara, quadarara, ricuttara, ruluggiara, scarpara, tabbaccara, uvara, vaccara, vitrara, zammatara.
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E caliamo il sipario su queste succinte esplorazioni richiamandoci alle due lettere che caratterizzano l’alfabeto siciliano: la DD, da non confondere con la doppia “d” che è un segno diverso, e la J, una consonante, da non confondere con la “i” che è una vocale. 

La DD, citiamo ancora Salvatore Camilleri, derivante dal tardo-latino (capillus, caballus, nullus, etc.) è talmente fuso nella pronuncia da essere considerato un segno a sé stante e non il raddoppiamento di due “d”; infatti, la suddivisione sillabica di addivintari, ad esempio, è ad-di-vin-ta-ri, mentre quella di cavaddu è ca-va-ddu. Da rimarcare in aggiunta che il suono di “d” è dentale, mentre quello di DD è cacuminale e gli infruttuosi tentativi di sostituire nel tempo il segno DD con DDH o DDR e con i puntini in cima o alla base di DD. 
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Mario Gallo, nel principinu, sfodera fra gli altri: chiddu, capiddi, nuddu, idda, stiddi, beddi, picciriddi, liveddu, coddu … jorna e ghiorna, ‘n ghiornu

Dulcis in fundo, un plauso a Mario Gallo e buon Principinu a tutti.