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domenica 28 settembre 2014

UNA FOCACCIA CHIAMATA "MPIGNULÀTA"






VARIA IL NOME E CAMBIA LA SOSTANZA
(NON SOLO IL CONDIMENTO)

“Sono veramente pochi i posti della Sicilia in cui non si conosca quel particolare tipo di focaccia [...] 
Essa comunemente si chiama nfigghjulàta o anche mpigliulata (nei dialetti della Sicilia centrale). [...] 
Gli ingredienti [...] sono la carne tritata o la salsiccia sbriciolata insieme alle olive nere e alla cipolla soffritta, nell’Agrigentino. 
Gli stessi ingredienti a Noto e a Pachino (SR) vengono soffritti insieme a pezzetti di lardo. [...] 
Nel Messinese (dove, pare, questo tipo di focaccia non è conosciuto) la parola nfigghjulata indica una frittata, fatta con uova sbattute insieme a formaggio grattugiato, prezzemolo o menta, aglio e arrotolata a mo’ di omelette. [...] 
Attorno a questi due termini [...] ruotano una serie di varianti. Nell’ordine alfabetico sono: figghjulata, nfagghjulata, nfigliulata, nfrigghjulata, nfrugghjulata e nfugghjilata”.

Salvatore C. Trovato, La fiera del Nigrò. Viaggio nella Sicilia linguistica, Sellerio editore, Palermo 2006


E così via degustando, tra ingredienti fantasiosi e pronunce diversificate, anche se noto che nell’elenco il termine mpignulàta, secondo l’accezione fonetica racalmutese, non c’è, ma forse, anzi sicuramente, la colpa non è dello studioso bensì mia, per non aver onorato a suo tempo con l’amico Melo  (da Carmelo) la promessa di una degustazione annunciata.


Recensione pubblicata su 
"Lumìe di Sicilia", n. 58, ottobre 2006



giovedì 18 aprile 2013

I CIOTTOLI D'AMORE DI "MICHETTO" ROMANO

Lo vedevo qualche volta nei corridoi dell'Università ma non è stato mio professore, il corso di latino per gli studenti di filosofia lo teneva la professoressa Gianna Petrone di cui conservo un ricordo bellissimo e che mi ha fatto amare la modernità di Orazio; il prof. Domenico Romano invece l'ho incontrato nella veste di poeta nella mitica tipografia di Totò Lazzara dove tutti lo chiamavano familiarmente Michetto. 


Sinceramente strideva ai miei occhi una tale trasformazione: il chiarissimo professore universitario della cattedra di Latino I per gli iscritti a Lettere classiche, che intravedevo di mattina nei corridoi della Facoltà, veniva "declassato" a "Michetto" e poeta underground per giunta nello scantinato di una tipografia.


Ma bisognerebbe sapere e capire cos'è stata l'officina tipografica S. T. ASS. di via Maggiore Toselli, 21, cosa ha rappresentato per la cultura palermitana, per tanti accademici, artisti e uomini di cultura, se un prof. universitario veniva trattato così familiarmente e gli si dava del tu: in questo luogo, ormai scomparso, si veniva a consacrare attraverso accuratissime pubblicazioni, coordinate e supervisionate dal "regista" Totò, il valore della propria arte e della propria cultura, senza boria, senza accademismi, ma con naturalezza, con familiarità, addirittura in amicizia. L'aria che si respirava era quella di un ideale cenacolo. Le Edizioni Grifo ne suggellavano quasi l'appartenenza. 


L'avrei capito bene dopo, col tempo, irreversibilmente quando la tipografia ha chiuso. E che ora mi manca, che manca alla cultura palermitana e quindi siciliana. Per dare l'idea del fervore culturale che vi aleggiava e dei personaggi che vi bazzicavano occorrerebbe una lunga processione di nomi.


E' stato in questo luogo che ho avuto in dono la copia di Ciottoli dal professore Domenico Romano, per farne una recensione, e altre copie da Totò Lazzara perché ne facessi dono agli amici. 




Ciottoli d'amore
Mia recensione del libro di
Domenico Romano, CiottoliGrifo, Palermo 1990, pag.66 (ed.fuori commercio)


Gudemula sta vita.
Lesbia du me cori.
e amamunni...

E' la fresca traduzione, ad opera di un professore universitario, del primo verso del famoso Carmen 5 di Catullo : Vivamus, mea  Lesbia, atque amemus...
Opera di un poeta poliglotta, dunque, polifono e policorde. Pochi altri, oltre il Carducci, hanno saputo resistere all'abitudinaria forza spoeticizzante dell'accademia. Essere professore universitario e poeta, giudice e "attore": un "acrocoro", un ossimoro : iperbole, contraddizione e rarità. 

E' occorso al chiarissimo professore di Letteratura Latina della spoeticizzante Università di Palermo. Domenico Romano (per gli amici ''Michetto"), che ha dedicato all' "assidua compagna dei suoi sogni", alla "sua Ermelinda", una piccola silloge di quarantanove poesie proprie e di due altrui (tradotte dal lati­no in siciliano e dal tedesco in italiano). 


Artifex. il Professore, anzi il Poeta, di un unico atto di poesia, scandito in tre tempi: 1972, 1975, 1990, cui corrispon­dono rispettivamente: Il sentiero spezzato, Dietro la storia,  Ciottoli. 



Quest'ultimo piccolo libretto, dal forma­to graziosissimo (è una "botticina picco­la": puntuale la copertina "acciottolata" di Nicolo D'Alessandro, curata perso­nalmente da Totò Lazzara), stampato in trecento copie non numerate, è un gesto di autentico nascondimento che varrebbe la pena di far conoscere per la sua autenticità, esso infatti va ben oltre l'occasionalità di un anniversario coniu­gale.

Anzi, partendo da questo dato si può notare che la limpidezza dei versi, non rimati ma cadenzati semplicemente e con realismo sul sentimento, denuncia la resistenza ad una duplice usura : l'u­sura quotidiana anche degli amori più grandi e l'usura delle parole che s'in­grommano e diventano sfilza di luoghi comuni, sorde e senz'anima. 
"Come amarti ancora/ mia luna...?"  l'uomo si chiede dinanzi al "desolato silenzio / di pietre' (Non sei) .

"Sei stata, felicità... Eppure sei stata, feli­cità... Sei stata felicità..."(Storia). L'uomo non si vuole ingannare dinanzi al precipitare del tempo, all'appesantirsi delle ali della giovinezza. Ma il poeta non vuole disperare e sublima nel canto e col canto le gioie antiche: le antiche irruenze sono ora un "frullio", si ricono­sce e si accetta la nuova condizione perché tutto appare rasserenato, irreale come la bellezza / folgorante d'un sogno" (Frullio) . 

Ed ancora, la sensua­lità della poesia Eloisa è una sensualità pudica, temprata e temperata dal rispetto del tempo trascorso : "La mano ansiosa / che fruga tra sparsi brandelli di alabastro / tesori celati, / ignota sor­giva / d'incanto di sensi". Si contemplano il fuggire e lo svanire della vita, l'impernanenza degli eventi, per approdare al porto fermo della memoria che "allegra" "punge": "...resta murmure lene / d'onda di smemorati pensieri" ( Mi sperdo).


Questo tono da Ecclesiaste di molte poesie ne fa una raccolta assonante col bufaliniano "amaro miele" della giovi­nezza trascorsa, dove l'amaro è la colpa della giovinezza ormai andata, perché andata, che ha lasciato posto ad una debilitata ragione di vivere. 
Le poesie così intonate formano uno scarno rima­rio senza rime del cuore, disadorno di ogni ottimistico fiore, quasi disinteressa­to a un mondo svuotato di vitalità. 
Ma è appena un momento. 
Riemerge l'uomo con la sua responsabilità e le sue idee, col suo sentimento morale, col suo impegno. 
Il poeta ne prende atto. 

Alla melanconica corda poetica si intrecciano altri fili che la fanno più robusta. 

Il poeta "civile", questa volta, incita gli studenti di Lettere ad essere "impeto grande/che pulisca l'aria, che si nutre dello sterco / dei potenti del mondo" (Agli studenti di lettere); ama la sua "terra di Sicilia"con la sua "antica miseria / e opulenza mischiate" che gli "graffiano l'anima" (Terra mia) ; con­danna il "furore di belve" che si avventa sul mondo (Storia).

Suggellano infine il libro, ovvero il peri­plo di questa awentura poetica, un sen­timento cosmico , la speranza di una progressiva umanizzazione dell'uomo, un'ansia metafisica e una risposta luci­damente laica.









Seguiteranno i grilli 
a scuotere l'aria 
d'allegria di festa
... Io non ci sarò.
Seguiteranno i bimbi 
a correre spensie­rati
...ed i corpi amanti 
a confondersi
 in stretta vogliosa 
d'oblio.
Io non ci sarò. 
...Un giorno l'uomo 
si donerà agli altri,
 allora sarà uomo.
Io non ci sarò
(Non ci sarò).

Questo "non esserci" è una rovesciata voglia di "volerci essere", un desiderio strozzato. L'ultima parola dell'ultima poesia della raccolta è, seppure interro­gativamente, "eterno".
P.C.
Pubblicata precedentemente su:
“Lumìe di Sicilia”, n. 23, febbraio 1995, pag. 3

http://www.sicilia-firenze.it/upload/files/lumie_n23.pdf 


Vasati a nun finiri:
http://archivioepensamenti.blogspot.it/2013/04/vasammuni-lesbia-o-comu-schifiu-ti.html


martedì 22 gennaio 2013

LA DOPPIA SCRITTURA DI ANNA MARIA SCICOLONE

Da tempo me ne parlava, di progetti accantonati, di testi inediti, di cassetti in attesa di essere smagriti, ma dopo l'ultima telefonata di circa un  mese fa, non si sa come e non si sa perché, o forse sapendolo benissimo ovvero per l'imponderabile scoccare delle  occasioni e delle decisioni, mi trovo sotto gli occhi, quasi sorpreso,  la copertina di Un silenzio bianco delle edizioni Drepanum, autrice proprio lei.


L'annuncio dell'imminente pubblicazione è fatto attraverso la copertina ma mi è noto e familiare tutto ciò che ci sta dietro: le poesie di Anna Maria, per averle spigolate in pdf; il pastello sulla copertina di Franco Fasulo, per avere avuto modo di ammirare l'opera pittorica di questo artista agrigentino al Funduk, un fantastico spazio in via Santa Maria dei Greci. 


Familiare mi risulta anche la Prefazione, che qui ripropongo come augurale viatico alle poesie di Anna Maria, "scritte", come ha tenuto a precisare lei stessa nel darne l'annuncio sul suo blog, "tanto tempo fa e tirate fuori da un cassetto".







Prefazione

Anna Maria ha scritto da sempre, ma la sua scrittura finora è stata finalizzata all’oggettiva comunicazione delle notizie. Una scrittura al servizio della realtà da raccontare, senza voli pindarici e senza contraddizioni.

Parallelamente ha coltivato un’altra scrittura, quasi da clandestina, il cui mondo di riferimento e criterio di verità sono se stessa, esercitata in piena libertà. In quest’altra dimensione, Anna Maria Scicolone scrive, ma elogia il silenzio. E’ carnale sensuale sanguigna.  Ma si apparta nella scrittura. Medita. Sogna. Straripano le immagini, i correlati oggettivi,  alludenti a pensieri e sentimenti. 

E’ antiletteraria, la scrittura di questa esordiente poetessa, “senza rima”, moderna, brutalmente realistica (“La mia rabbia è una vecchia cagna”, “la mia rabbia è appesa a un cappio”, sono versi che prorompono come un urlo), eppure letteratissima, venata  di “una sorta di allegrezza”. Risuonano di echi rimbaudiani e di ironia i suoi ortivi colori accesi da un dannunziano tambureggiare di raggi solari: “E’ giallo grano…” / “…è rosso-/pomodoro!” / “E’ viola melanzana…” / “…è rosa / melograno!” / “No, è bianco zagara!” / “adesso è un iris / blu / tra le rocce”.


E l’amore? “Scatenerà un tripudio chimico.”  Sembra tutto risolversi nella dimensione sensoriale, poco trascendentale, affatto spirituale: “La mia bocca è un approdo / La tua bocca è /un approdo”. Eppure,  spento il tripudio “saranno ancora parole, / quelle scritte e mai scritte, / quelle mai dette”, sprizza l’anelito ad andare oltre:
“La vita, la vita / Il silenzio, il silenzio  / La morte è il nulla. / Alzo lo sguardo  / E sei già altrove, / un punto / un mistero”.

Nel gioco o nella necessità dei  richiami,  delle assonanze, delle preferenze stilistiche, delle esplorazioni semantiche, Anna Maria non tende a perdersi “tra un se e una virgola” come dice di sé un altro poeta moderno, Matteo Cotugno, non lambicca ermetiche sillabe, tira dritto al vissuto per trascinarlo altrove, in un cielo di sapienziale senso del vivere, dell'amare, del morire, il morire dei ricordi, delle passioni, dei sentimenti soprattutto. “Non ricorrerò a virtuosismi sintattici o letterari. / Né a contesti ambientali o dettagli temporali. / Tra queste righe vige la sola regola del dolore.”


Un dolore disincantato, asciutto direi, non sentimentale, che scaturisce dalla consapevolezza che sogni e passioni possono rivelarsi fuochi di paglia o venire travolti da una spoeticizzante quotidianità, quasi dissacrati, ridotti infine a “spettacolo demodé di Passioni Finite”.

Tutta la vita viene colta come una ribalta dove compaiono plastiche processioni parallele, opposte, inconciliabili, da un lato: cani che “si aggirano a branchi”, “acqua putrida di sterco”, buio, offese, umilazioni, chiamate anonime, lettere mai spedite, stupidità, ombre deformi, ombre spezzate, fiumi di carne umana, rantoli, noia, tedio, scorze di limoni… dall’altro: stelle, anelati silenzi, primavere e cicogne, preghiere, canti dolcissimi, cieli stellati, frullio d’ali, voli di libertà, ninne nanne, ninne, oh!

Che può fare un uomo, una donna, dinanzi a queste ineluttabili processioni se non provare sconcerto, smarrimento?  Vi può trovare rimedio con la fuga, con la fede, con la pazzia. O con la poesia: “Altrove sarà il buio, / smisurato e impenetrabile, / come una luce accecante. / Sarà un silenzio bianco.”  La candida bianchezza che rinfresca e dà riposo alla vista, distensione al vivere, non è il non colore, è piuttosto dato dalla somma di tutti i colori in mirabile sintesi purificata e purificatrice. Che sia questo il sotteso messaggio della poesia di Anna Maria?
 
Un dato è certo, la scrittura cronachistica, di servizio, a cui si alludeva inizialmente, nelle poesie si è completamente metamorfosizzata per ridire e ricompredere la realtà in tutti i suoi aspetti. Amore in tutte le sue diramazioni, natura, sentimenti, oggetti, meditazioni sapienziali, ma anche temi sociali, costituiscono la tavolozza ispiratrice  che, per dirla con Verlaine a proposito di un giovane poeta, “tenta tutte le corde dell’arpa, gratta tutte quelle della chitarra”.
Anna Maria con questa silloge ha iniziato a far risuonare strumenti che ci riserveranno nel futuro  - l’interrogativo valga come ottimistico auspicio – inauditi esiti?
                                                                                                                                        Piero Carbone








Grazie

Grazie della tua gelida indifferenza.
Della ferocia delle parole,
delle sferzate di verità.
Grazie delle omissioni e delle fughe silenziose,
delle brucianti assenze,
delle umiliazioni, delle terribili offese.
Grazie dei regali che non mi hai fatto,
dei baci che non mi hai dato,
dei tuoi patetici ritorni,
dei “non posso vivere senza di te”,
delle volte che hai detto “non dovevo, ho sbagliato”,
delle volte che hai detto “devo, amore, perché è
giusto”.

Grazie dell’avermi convinto al punto
che ho creduto di poter partecipare
ai tuoi risanamenti,
pazza, ormai, e senza dignità.
Grazie dei “vorrei ma non posso”,
dei “vorrei ma non devo”,
grazie dell’avermi affogato nel mio vomito,
dell’avermi ormai sposato alla tazza del cesso.
Grazie delle illusioni,
sogni così piccoli
che non ci credono neanche i bambini,
di cellulari rubati,
di chiamate anonime,
di lettere che non mi hai mai spedito,
di messaggi che non mi hai mai inviato.

Grazie delle notti insonni,
del dolore di dare dolore
del tormento di dare il tormento,
perché ho usato armi che altri hanno usato.
Grazie della vergogna,
del disprezzo che nutro di me,
del tempo perduto,
delle preghiere che non ho detto,
della solitudine e dei nostri silenzi.
Grazie, amore mio.

Grazie della rabbia e dello sconcerto,
della rassegnazione e del pentimento,
di tutte le cose che avrei dovuto capire
e che non ho capito.
Grazie della paura,
della stanchezza,
dell’angoscia e del buio.
Grazie di questo abisso senza fine.

Grazie delle notti trascorse insieme,
grazie di non aver capito la mia rassegnazione
scambiando il mio prudente silenzio per stupidità.
Grazie delle tue continue partenze:
grazie dei tuoi ritorni:
“avrei voluto viaggiare con te”.
Grazie dei tuoi “ti amo”
scanditi dalle telefonate.

Grazie, amore, grazie, amore,
grazie sul serio,
perché, se è vero tutto questo,
il mio amore è stato grande davvero.



Da: Anna Maria Scicolone, Un silenzio bianco, Edizioni Drepanum, Trapani 2013


http://archivioepensamenti.blogspot.it/2012/10/franco-fasulo-al-funduk.html