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venerdì 6 marzo 2015

SE L'ALTARE VA IN ROVINA, IL POPOLO SOCCORRE



Ho rinvenuto questa antica cartolina tra le carte della sorella di mia nonna Angelina, Giuseppina Capobianco, donna devotissima, socievole, la sua casa era un via vai di amici, un punto di riferimento del quartiere, anzi, della via Pomo. 

Una casa povera, all'antica: 
due ambienti attigui con uno stanzino ricavato al pianterreno e una grande stanza al piano superiore riservata alla conservazione dei cereali raccolti durante l'estate nei terreni di Gargilàta nonché ripostiglio o "casa di ritiro" di frutta invernale, ortaggi e varie conserve alimentari; 
l'ingresso al pianterreno fungeva da soggiorno e stanza da pranzo; nello stanzino, il focolare e il forno a legna; 
attraverso l'ingresso-soggiorno-stanza da pranzo si accedeva alla contigua e retrostante stalla fornita di mangiatoia per il mulo e strapiena di paglia e di arnesi da lavoro; 
nel sottoscala erano appoggiate le quartare piene d'acqua; in un cantuccio riparato, il cantaro per i bisogni; 
sotto il letto altissimo con materassi di crine o di lana c'era spazio per la corriola piena di biancheria, incluso il corredo da sposa che non venne mai utilizzato perché Pippineddra rimase signorina; 
alle pareti, quadri e quadretti di santi, crocifissi e madonne; 
le stoviglie a vista; 
le galline scorrazzavano liberamente dove potevano e dove volevano, le uova freschissime, però, non mancavano mai e spesso ne beneficiavano i bambini del vicinato.
I galli invece, sotto mani abili, diventavano, con un castrante intervento chirurgico, capponi.



Ogni pomeriggio, prima che ritornassero gli uomini dai campi, la casa si animava di donne e giovinette per la recita del santo rosario, come con altre fogge e altro clima avveniva nelle case più ampie e ricche di borghesi, principi e baroni, come nella scena iniziale del Gattopardo per intenderci. Solo che in casa della za Pippinè il rosario si recitava in rigoroso dialetto siciliano. Teologicamente, il rosario dei poveri era identico al rosario dei ricchi e dei nobili anche se con meno fruscii e più vocii.

Analogie e differenze culturali, economiche, sociali e si direbbe di umanità. Un'umanità, quella di via Pomo, diversamente ricca, e forse, sotto certi aspetti, incredibilmente più ricca delle ricche dimore dei signori. La casa povera e dignitosa della za Pippinè, dove viveva anche il fratello, lu zi Ruardu, anch'esso scapolo, era indubbiamente la più ricca del vicinato proprio perché era sempre piena e animata al punto che era definita "la casa di tutti". Anche perché sapeva leggere, sapeva scrivere, e leggeva libri per tutti e scriveva le lettere per conto di chi era analfabeta.
Ogni particolare sembra rimandare a una pagina di Verga o a un ragguaglio del Pitrè e invece era semplicemente la vita, e seppure nei suoi estremi bagliori, la nostra vita.
Conservare una di questa case, come Antonino Uccello ha fatto a Palazzolo Acreide,  sarebbe un riconoscimento delle nostre radici a cui pur dobbiamo qualcosa. Sarebbe una sorta di tempio laico della nostra memoria. 

Ma da altri templi, di ben altra natura, eravamo partiti.



La cartolina, che pur ci ha portati lontano, la cartolina, dunque, rappresenta l'altare del Santuario della Madonna del Monte e sul retro è riportato un appello scritto a mano, in favore del suddetto altare che versava in non buone condizioni e aabbisognava di interventi di restauro e di offerte da convogliare e far convergere all'indirizzo indicato.

La richiesta di offerte e contributi da parte dei devoti della Madonna del Monte veniva fatta attraverso la cartolina perché probabilmente veniva inviata agli emigrati racalmutesi sparsi per il mondo, che erano tanti. 




link correlato
http://archivioepensamenti.blogspot.it/2014/03/la-miniera-dei-modi-di-dire-racalmuto-3.html

giovedì 29 gennaio 2015

QUEL GESTO DI LILLO MARINO

Singolare testimonianza di Rita Mattina su un personaggio che, nonostante le difficoltà  nel vivere e nell'organizzare con i parametri della corrente normalità la propria vita, nonostante la sostanziale solitudine, si è reso protagonista di un lucido gesto di generosità fino a rammaricarsi di non aver potuto dare la propria vita in cambio di un'altra ritenuta più utile, un gesto che, per l'analogo sentimento di altruismo,  richiama quello che ha voluto e potuto fare Padre Massimiliano Kolbe in un campo di concentramento sostituendosi a un padre di famiglia condannato a morte dai nazisti.






Lillo dal grande cuore
di
Rita Mattina



Lillo Marino, uomo dal grande cuore.

Concedetemi di raccontare un fatto accaduto di cui lui, Lillo, ne è il protagonista. Mio padre è morto all'età di 47 anni lasciando nel mondo una moglie distrutta dal dolore, costretta da sola a tirare avanti con grandi sacrifici, sei figli tutti piccoli. 

Quando mio padre era nella bara, in casa, si presentò Lillo Marino, con i suoi abiti logori e sporchi, tutti i presenti si indignarono un po', ma lui con rispetto e timidezza, con gli occhi lucidi di pianto, con un dolore vero, si avvicinò a mio padre e alzando lo sguardo al cielo esclamò:



Signuri miu, a mia t'aviatu a pigliari, ca nun aju a nuddru e sugnu sulu, no a iddu ca avi sei figli!


Mia mamma (cugina di Lillo) lo raccontava sempre e per me Lillo è e rimane la persona più buona, sensibile, amorevole che abbia mai conosciuto. Per me ha lasciato un profumo di eterno, rimane un angelo che ricorderò per sempre con tanto, tanto, tantissimo affetto. 
Ci rincontreremo, Lillo, e ti darò tantissimi baci che avrei voluto darti quando eri in vita...

Ciao, Lillo!








Foto: archiviopierocarbone 1987

sabato 22 novembre 2014

BERE PER SDIMENTICARSI. I ricordi di Eduardo


Scoprire tesori di umanità e condividerli, questa credo sia una delle gioie più grandi.


Sono ben felice pertanto quando nel blog emerge la seguente connotazione: testimoniare "l'altra Sicilia", farla emergere, grazie anche alla visione convergente degli amici, vicini e lontani, ma lontani soltanto fisicamente.


Eduardo Chiarelli, da Setúbal in Portogallo, con acuminata sensibilità esistenziale, tratteggia la parabola di un personaggio che credevamo semplicemente comune, addirittura così comune da identificarlo o caratterizzarlo con una sua debolezza, quella del bere. 

E invece...




1.


Numeri e parole
di
Eduardo Chiarelli


"Lo ricorderò sempre, come un bambino buono, sensibile ed educato".

Così terminava il bellissimo discorso che la Professoressa Vincenzina Messana fece durante il funerale del suo ex alunno.

Dal canto mio, belle parole non ne dirò, perché lui non le avrebbe approvate.

Eravamo amici e ci volevamo bene, senza smancerie o altre “bagascerie”, come le chiamerebbe mia nonna.

Voglio solo ricordarlo insieme a coloro che, come me, hanno avuto l'onore e il privilegio di conoscerlo.

C'è un frammento di meteorite, nel Museo di Mineralogia di Caltanissetta, donato molti anni fa da un giovanissimo Perito minerario, per dimostrare anche ai più scettici che la depressione nel terreno, non lontana dal suo paese, era stata provocata dall'impatto di un meteorite.

Erano gli anni della ricostruzione, e la Sicilia per la prima volta, sembrava voler prender parte al miracolo economico Italiano.

Per farlo c'era bisogno di persone dinamiche e con idee nuove.

Così l'Ente Minerario Siciliano, diede al giovane Perito , l'incarico di procedere all'analisi geologica e fare studi topografici, per determinare il luogo dove doveva sorgere la nuova miniera di salgemma di Petralia Sottana.

Il giovane Racalmutese si buttò a capofitto nell'impresa, distinguendosi, sin dal primo momento, per zelo ed entusiasmo.

All'inizio scandalizzò un po' tutti , per via delle nuove tecniche da lui applicate, che miravano all'aumento della produzione, alla riduzione dei costi e, soprattutto, alla sicurezza dei minatori, aspetto questo che era stato fino ad allora posto in secondo piano.

Una delle innovazioni da lui ideata ed implementata fu quella di sostituire le macchine con i cingoli con altre provviste di pneumatici, giacché queste ultime erano più veloci, ed inoltre, avendo meno parti metalliche a contatto con il sale, erano meno soggette alla corrosione, ciò riduceva i guasti e naturalmente i costi di manutenzione.

Queste e altre metodologie da lui applicate fecero sì che diventasse rapidamente, insieme a quella di Racalmuto e di Realmonte, una delle miniere di salgemma più produttive di tutta la regione.

Ma come purtroppo accade con quasi tutto in Sicilia, la mala politica, alleata alla spietatezza del mondo imprenditoriale, aveva creato un così disgustoso intruglio, che nulla aveva a che vedere con il giovane idealista.




Così amareggiato e deluso, abbandonò per sempre quel mondo.

Alla vicenda della miniera, nello stesso periodo, se ne aggiunse un altra ancora più forte e personale.

Era troppo, lo sarebbe stato per chiunque. Ma per lui, lo fu ancor di più.

Profondamente cambiato, andò ad insegnare presso l'Istituto Tecnico Professionale del suo paese, un lavoro degnissimo per carità, ma la scuola non sempre è il luogo migliore per esprimere al massimo le proprie capacità.

Era lontano ormai il tempo in cui era stato un professionista di successo e pieno di speranze.

Cominciò ad avercela con il mondo, con quel mondo a cui non era stato capace conformarsi, ma invece d'infierire su di esso, chissà per quale misteriosa ed assurda ragione, cominciò ad accanirsi sulle sue stesse carni. Cominciò a bere.


Non tutte le croci portano alla santità, e quella da lui scelta lo portava decisamente verso una consapevole, lenta ed inesorabile autodistruzione.

Quante volte avrei voluto aiutarlo, quando barcollante sembrava non riuscisse a tornare a casa. Ma non lo facevo, sapevo che tale gesto lo avrebbe offeso, umiliato, e la nostra amicizia sarebbe stata irrimediabilmente compromessa.

Mai avrei voluto privarmi della sua compagnia, delle lunghe chiacchierate e soprattutto degli esperimenti ai quali mi permetteva partecipare, nella vecchia officina di fabbro del padre.

Non era per nulla una persona comune, e il suo pragmatismo sfiorava il blasfemo.

Sembrava che il metodo scientifico innato in lui, e che una volta aveva usato per dimostrare l´origine meteoritica di un fosso, aveva cominciato ad usarlo esclusivamente per dissacrare e demistificare tutto.

Lo faceva continuamente, spiegando qualsiasi fenomeno naturale, con formule chimiche e complicatissime equazioni matematiche.

"Sono io che decido il colore delle mie ortensie!" diceva. "Se nel terreno metto la calce misturata alla limaglia di ferro, verranno rosa, se invece ci metto lo zolfo verranno blu."

Un altra volta mostrandomi una lancia termica, da lui stesso costruita con materiali di recupero, disse: "Con questa riusciamo a riprodurre la stessa temperatura della superficie solare", e nel dire quelle parole fece un gesto, come per dire: non è poi così difficile!

Molte volte utilizzavo il tornio della sua officina, per costruire dei flauti in legno, che poi suonavo in sua presenza, ed anche in quelle occasioni, mentre io parlavo della dolcezza del suono, degli armonici o dell'estensione, lui, prendendo lo strumento fra le dita e osservandolo, o meglio analizzandolo con il suo occhio clinico, cominciava a discettare sui vortici e sulle turbolenze dei fluidi, su Bernoulli e l'effetto Venturi, che sono principi che si applicano sia in meccanica, come per esempio nei carburatori, sia negli strumenti a fiato.


Allora non sapevo, ero poco più di un ragazzo, e pensavo che quel suo atteggiamento che tanto mi affascinava, perché irriverente, fosse la reazione di chi un giorno aveva creduto in qualcuno e in qualcosa.

Sembrava che quel disperato bisogno di ridurre tutto in formule e teoremi fosse dettato dal rabbioso tentativo di non tirare in ballo Dio, non quello dei "parrìni" o dei preti, per lo meno.

Ricordo per esempio che, seppur garbatamente, non perdeva occasione di attribuire origini pagane alla maggior parte dei riti cattolici.

Dovevano passare alcuni anni, per capire che quello era appena il suo linguaggio, la sua forma di esprimersi.

Mi fu d'aiuto una frase del fisico Paul Dirac, che diceva: Un fenomeno naturale può essere certamente spiegato, com una formula matematica elegante ed inoltre che era un dovere dello scienziato spiegare gli aspetti della natura, con teorie scientifiche che fossero anche belle.


Terminata la scuola, partii per il servizio militare e un anno dopo, subito dopo il congedo, emigrai.

Ci rivedemmo tredici anni dopo in Piazza, davanti alla Matrice del nostro paese, ci abbracciammo commossi, gli presentai mia moglie e gli raccontai dei miei viaggi, del Canada, degli Stati Uniti, delle Azzorre e del Portogallo continentale.

Lui ascoltava con molta attenzione e approvava sorridente, nonostante le lacrime continuassero a scorrergli lungo il viso.

Al momento di lasciarci, mi strinse le braccia con forza, e gurdandomi dritto negl´occhi, singhiozzando, disse: "Quanto t'ho voluto bene!"

Non furono quelle parole che mi fecero gelare il sangue, perché sapevo che me ne voleva, fu piuttosto quello che vidi in quegli occhi pieni di lacrime: lui sapeva.

Conosceva bene la mia storia. Mi aveva visto quando ero in difficoltà, ma, come avevo fatto prima io con lui, non mi si era avvicinato, per non umiliarmi.

Era un Uomo discreto e riservato, e, in condizioni normali, mai avrebbe pronunciato quelle parole. Forse sapeva che non gli restava molto tempo, e la morte a volte libera da stupidi pudori.

Cosí, poche settimane dopo, un pomeriggio di dodici anni fa, invece di compiere la sua penosa ronda per i bar, se ne restò seduto sul divano di casa, con un'espressione serena in viso.

Finalmente, aveva trovato la pace.



2.


Foto 1. e 2. di Damiano Sabatino.
Scultura di Damiano Sabatino realizzata con blocchi di sale della miniera in contrada Raffo di Petralia Soprana, in occasione del Simposio di Scultura 2012:
http://archivioepensamenti.blogspot.it/2012/08/sicilinconia-scultura-di-sale-di.html