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Blog di Piero Carbone (da Racalmuto, vive a Palermo). Parole e immagini in "fricassea". Con qualche link. Sicilincónie. Sicilinconìe. Passeggiate tra le stelle. Letture tematiche, tramite i tags. Materiali propri, ©piero carbone, o di amici ospiti indicati di volta in volta. Non è una testata giornalistica. Regola: se si riportano materiali del blog, citare sempre la fonte con relativo link. Contatti: a.pensamenti@virgilio.it Commenti (non anonimi). Grazie
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martedì 7 gennaio 2020
martedì 27 agosto 2019
LETTERE D'AMORE DI CALIRI E ALTRI. Si presenta l'Antologia a Roccalumera
LETTERE D’AMORE
a cura di Aurelio Caliri
Presentazione:
Lunedì 2 settembre, h. 19
a Roccalumera
presso il Centro Sociale “Papa Paolo II” sul Lungomare
All’evento parteciperà Aurelia Sergi Petroselli, moglie dell’indimenticabile sindaco di Roma Luigi Petroselli. Nel volume, già presentato presso l’Auditorium del Parco della Musica a Roma, c’è una sua toccante lettera d’amore.
Interverranno gli autori Giuseppe Mannino, Roberto Mailli, Aurelio Caliri e il prof. Matteo Licari che ha contribuito alla pubblicazione dell'antologia. Coordineranno Carmelo Ucchino e Gaetano Busceni.
Il tema della pubblicazione è molto delicato, appassionante, e mette in luce ciò che ciascuno di noi custodisce gelosamente nel proprio intimo ma che improvvisamente sente il bisogno di esternare, di farne partecipi anche gli altri proprio perché ciò che è bello, emozionante, ciò che è basato sui nostri sentimenti più profondi, sul bisogno di verità di cui sentiamo l’impellenza, va condiviso con tutti coloro che sono sensibili a certi valori essenziali.
Il libro, formato cm. 24x17, pagine 176, è illustrato dai disegni a matita di Maria Leone che raffigurano esclusivamente donne , con uno stile assolutamente nuovo.
Aurelio Caliri . Via Malta, 43 - 96100 Siracusa
aureliocaliri1@gmail.com
Premessa di Aurelio Caliri
Qualcuno si chiederà perché mi sia venuta l’idea di questa nuova antologia. Dopo la pubblicazione di “Italo – Storie di animali”, a cui sono seguiti “Racconti di Natale”, “Eros”, “Emozioni – Teatri di Sicilia”, non avrei mai pensato di affrontare il tema dell’amore, visto poi in veste epistolare, genere considerato da molti ormai obsoleto, non in sintonia con i nostri tempi.
Ma, dopo una telefonata di Alessandra, la figlia di un mio caro amico, direttore di un teatro di Catania, la quale mi comunicava la scomparsa del padre, è scattato in me qualcosa, un forte rimpianto, un dolore condiviso con una nuova amica, Alessandra, che prima non conoscevo.
Mi confidava che i rapporti col padre erano stati sempre conflittuali, burrascosi, ma che nell’ultimo periodo entrambi si erano finalmente compresi, riavvicinati, e durante il ricovero in ospedale lei era stata sempre vicino a lui, aggrappata a lui, mano nella mano. La dolcezza della sua confidenza, le parole appassionate, poetiche, che il suo tormento le dettava, mi hanno molto emozionato. Pensavo istintivamente: perché non cercare in qualche modo di colmare il vuoto causato da una così grave perdita, magari con una lettera, un messaggio …?
E, di conseguenza, mi è balenata un’idea: perché non invitare i miei amici a scrivere una lettera d’amore? Di sicuro avrebbero condiviso con entusiasmo il mio invito, come era capitato le altre volte. A questa mia intuizione, è stato come se un fiotto vivido di luce invadesse la mia mente, come se una sorta di porta dorata si schiudesse davanti ai miei occhi, dalla quale venivano verso di me i miei Autori, sorridenti, affettuosi, che mi abbracciavano.
Come in un sogno. E ho ricordato le precedenti esperienze assieme a loro, l’attesa dei loro racconti, il piacere intenso nel leggerli, i commenti, la gioia. Per giorni, per mesi, fino alla stesura finale. E mi è sembrato che tutti i miei pensieri noiosi d’un tratto si dissolvessero e tornassi finalmente felice, libero.
Nell’arco di una giornata ho fatto più di cento telefonate e ho ritrovato i miei amici, alcuni che non sentivo da tanto tempo, ed è stato bellissimo.
Alessandro Quasimodo, che con generosità aderisce sempre ai miei progetti, mi ha suggerito di inserire anche alcune lettere di Abelardo ad Aloisa.
Gli ho risposto che quelle lettere sono forse le più belle al mondo, ma che il mio intento era un altro: incontrarmi idealmente con lui e con gli altri, perché questo è forse lo scopo vero delle mie sfide letterarie.
Quando le affronto, col loro sostegno, è come se vibrassi di entusiasmi nuovi, di emozioni nuove, come se nuove fantasie ed energie si sprigionassero dentro di me grazie alle quali riesco a scacciare – come già ho detto – il tedio dell’esistenza e ritrovare la libertà perduta.
Per finire, non posso non accennare a un fatto che mi ha lasciato senza parole.
Nicolò Mineo, dopo appena un giorno che aveva accolto il mio invito, col quale lo informavo anche che avevamo almeno un mese di tempo per stendere i nostri scritti, mi ha inviato “Lettera di Francesca Malatesta a Dante Alighieri”.
E’ stata una sorpresa assoluta, soprattutto per la sua straordinarietà e bellezza.
Si tratta di una pagina di alta letteratura, propria di un maestro quale egli è, una pagina che rappresenta un messaggio originale e moderno di solidarietà, di pietà, di poesia.
Penso che, a prescindere da questa pubblicazione, esso si divulgherà dappertutto, resterà nel tempo, patrimonio delle generazioni future.
E penso che sono stato io a dare lo spunto all’Autore e ciò, forse stupidamente, mi inorgoglisce, come se anch’io ne abbia un po’ di merito.
Ma, riflettendo ancora, mi chiedo: la lettera di Mineo non è rivolta forse, oltre che a Dante, anche a me, a tutti noi che ci cerchiamo e fantastichiamo?
E ancora: questa mia premessa non è anch’essa una delle tante lettere in tema, qui raccolte, indirizzata di rimando ai miei amici? Premessa - lettera d’amore?
Autori
Franco Arabia – Maria Teresa Asaro – Antonio Ballista – Alberto B. - Enzo Battaglia – Laura Bruno – Aurelio Caliri – Stella Maria Caliri – Salvatore Camilleri – Stella Caminiti – Bruno Canino – Alessandro Cannavò – Antonella Carbonaro –Gino Carbonaro - Pino Caruso – Lucia Castello – Matteo Collura – Alessandra di Mari – Roberto Fai - Josina Fatuzzo – Maria Ferrari Acciaioli – Marinella Fiume – Salvatore Fiume – Virginia Foderaro – Aldo Forbice – Angelo Fortuna – Giovanna Genovese – Giorgio Giannone – Giuseppe Giardina – Aristide Germano Livagri – Biagio Giompapa – Aurelio Grimaldi – Dario La Ferla – Matteo Licari – Leonardo Lodato – Luigi Lombardi Satriani – Rocco Lombardo – Dante Maffia – Roberto Mailli – Paola Manciagli - Giuseppe Mannino – Alda Merini – Rino Mignali – Nicolò Mineo - Renzo Montagnoli – Francesco Nicolosi – Alessandra Nicotra – Roberta Nicotra – Maria Emanuela Oddo – Eugenio Orciani – Enzo Papa – Francesca Parisi – Lidia Pizzo – Linda Pizzo – Salvatore Quasimodo - Flora Restivo- Salvatore Romeo – Paola Rubino – Sergio Sciacca – Antonio Sparatore – Ludovica Spinella – Antonio Staglianò – Carmelo Strano – Mariella Ubbriaco – Marilena Vita – Antonio Zanoletti – Salvo Zappulla.
Tra gli autori che hanno aderito al progetto anche Mons. Antonio Staglianò, il Prof. Angelo Fortuna e il Prof. Enzo Papa, tre netini illustri.
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Italo – Storie di animali
martedì 16 luglio 2019
NEL NOME DI GOGOL IL FAVARESE GIUSEPPE MAURIZIO PISCOPO VIENE PREMIATO PER UN SAPIDO RACCONTO. Il "Maestro dei sogni" che sa coinvolgere con l'insegnamento, la musica, la scrittura...
Premio Gogol ambasciatore del sorriso
al Maestro dei sogni, musicista e scrittore
Giuseppe Maurizio Piscopo
Venerdì 19 Luglio alle ore 21
presso
Village "El Bahira" di San Vito Lo Capo (TP)
ll Premio sarà consegnato a per il racconto breve dal titolo:
Il vecchio che rubava i bambini
pubblicato con la casa editrice Aulino Editore di Sciacca
nella collana "Coup de foudre" diretta da Accursio Soldano.
Motivazione:
"E' un racconto breve scritto con un linguaggio semplice e scorrevole, attira l'attenzione del lettore sull'ignoranza e sui pregiudizi di una società che valuta gli uomini per ciò che sembrano e non per ciò che sono".
Al "maestro dei sogni" Giuseppe Maurizio Piscopo, alcune domande:
1) Perchè il vecchio che rubava i bambini che è arrivato finalista al Premio Racalmare scuola, continua a suscitare grande interesse nella stampa e nell'opinione pubblica?
Perchè è una storia vera che invita a riflettere tutti in una società che ogni giorno che passa sta diventando sempre problematica.
Una volta a partire eravamo noi che siamo per la vita e per la cultura. Il vecchio è partito per la Merica.
E' un uomo onesto distrutto dalla piccineria e dalle maldicenze di paese.
2) Cosa provi quando ricevi un Premio?
Provo gioia e voglia di continuare a scrivere. Ogni volta penso ai miei genitori che mi guardano dal cielo.
Purtroppo ho cominciato a scrivere un pò tardi, quando i capelli mi sono diventati tutti bianchi.
Ho riflettuto molto passeggiando per i boschi delle Madonie.
Poi quando ho raggiunto l'età della saggezza ho deciso di scrivere e di raccontare il mondo che conosco meglio, cercando di cambiarlo con l'aiuto dei bambini che mi hanno insegnato tante cose...
3) Quali motivazioni ti hanno spinto a scrivere questo singolare racconto?
"Ho scritto questo racconto al termine della mia carriera di maestro.
Oggi la società sta diventando veramente più cattiva, il nuovo Vangelo è quello di maltrattare gli emigranti, umiliare i poveri, incolparli di tutti i problemi del mondo.
Come maestro ho sentito il dovere di gridare ai genitori di non creare inutili paure ai bambini, di aiutarli a crescere dicendo loro la verità e farli camminare con le loro gambe".
Il racconto è racchiuso in un pugno di pagine, poco più di una decina, ma le motivazioni dichiarate e i messaggi lanciati anche in nuce dal racconto impegnano in più ponderose riflessioni.
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| Da sx.: Giuseppe Maurizio Piscopo, Carlo Puleo, Piero Carbone, Marco Scalabrino in occasione del Premio Magister Vitae 2017 ph ©archivioepensamentiblog |
"Il 25 di marzo a Pietroburgo, accadde un fatto d'insolita stranezza..."
GOGOL, Il naso, trad. Serena Prina.
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venerdì 18 marzo 2016
RIMASE INCINTA CON LA FOTO DEL MARITO. Santo Calì lo racconta a Ferlinghetti!
L'incredibile storia di Filadelfio e Luigina da Santa Caterina da Xirbi
di
Santo Calì
Titolo originale "Il ritratto"
Il racconto di Santo Calì e il suo ritratto ad opera dello scultore G. Volpe
sono tratti da un vero cimelio della cultura siciliana
(anche se pochi lo conoscono):
Altri ne seguiranno.
lunedì 28 dicembre 2015
POST QUOTA 1000. BRINDIAMO INSIEME CON LO CHAMPAGNE DI AMBROISE! Grazie a tutti voi per la compagnia!
Mi piace evidenziarlo e condividere la notizia con voi che seguite
questa sorta di diario in pubblico non soltanto personale, visto che il blog si
arricchisce con gli apporti di amici ed estimatori.
Con questa occasione, anche perché in prossimità della fine di un anno e del principio di un altro, mi piace brindare: lo faccio con lo champagne di
un amico che ho stimato e al quale sono grato per la stima e l'amicizia che mi
ha voluto donare.
Si tratta di uno champagne sui generis e impalpabile al tempo stesso ossia virtuale, viene naturale pertanto associarlo ad un ricordo che pur essendo impalpabile lo rende realissimo e
fragrante.
Stappiamo... dunque, il ricordo.
Stappiamo... dunque, il ricordo.
Il dolce champagne di Claude Ambroise
Subito dopo la morte di Sciascia venne a Racalmuto Claude Ambroise
per commemorare l'autore di Candido
alla Fondazione omonima. Al termine della relazione, mi complimentai e lo
invitai a pranzo. Lui accettò congedandosi dagli organizzatori del convegno che
forse tanto bene non presero quell’invito imprevisto. Lo portai al Raffo,
da mio zio Matteo. Venne anche Anne Cristhel Reknagel.
Il verde e le acque del Raffo, a due passi dal Saraceno, si sa, sono incantevoli.
L’ambiente in cui pranzammo era rustico.
Mia zia tirò fuori qualche specialità.
Claude era felice come un bambino in quella dimensione poco, anzi, per niente formale, ammirava i frutti e la verdura appena raccolti, li odorava, quasi li palpava, addirittura si stava accingendo a prendere con le mani un ficodindia e forse a rigirarselo tra le mani per ammirarne la tavolozza dei colori ma lo fermammo in tempo intervenendo con coltello e forchetta.
Il pranzo fu semplice, gustoso e “familiare”.
Il verde e le acque del Raffo, a due passi dal Saraceno, si sa, sono incantevoli.
L’ambiente in cui pranzammo era rustico.
Mia zia tirò fuori qualche specialità.
Claude era felice come un bambino in quella dimensione poco, anzi, per niente formale, ammirava i frutti e la verdura appena raccolti, li odorava, quasi li palpava, addirittura si stava accingendo a prendere con le mani un ficodindia e forse a rigirarselo tra le mani per ammirarne la tavolozza dei colori ma lo fermammo in tempo intervenendo con coltello e forchetta.
Il pranzo fu semplice, gustoso e “familiare”.

Eppure, le premesse non avevano deposto bene.
Alcuni mesi prima del convegno racalmutese, infatti, ero andato ad ascoltarlo ad Acireale, sempre per una commemorazione di Sciascia a pochi mesi dalla sua scomparsa.
Al termine della conferenza il relatore invitò il pubblico ad intervenire. Io alzai la mano per chiedere la parola.
E' noto che nei gialli di Sciascia ci sono morti ammazzati ed è naturale che sulla scena del delitto sopraggiungano magistrati e forze dell’ordine, ora siccome Ambroise aveva fatto riferimento anche a questo, io semplicemente e, a pensarci bene, forse semplicisticamente, dissi: - Con tutti questi morti ammazzati, poliziotti e carabinieri mi sono sentito in questura o in caserma.
Alcuni mesi prima del convegno racalmutese, infatti, ero andato ad ascoltarlo ad Acireale, sempre per una commemorazione di Sciascia a pochi mesi dalla sua scomparsa.
Al termine della conferenza il relatore invitò il pubblico ad intervenire. Io alzai la mano per chiedere la parola.
E' noto che nei gialli di Sciascia ci sono morti ammazzati ed è naturale che sulla scena del delitto sopraggiungano magistrati e forze dell’ordine, ora siccome Ambroise aveva fatto riferimento anche a questo, io semplicemente e, a pensarci bene, forse semplicisticamente, dissi: - Con tutti questi morti ammazzati, poliziotti e carabinieri mi sono sentito in questura o in caserma.
Esternato il mio pensiero critico, mi sedetti, subito l’amico che
era accanto a me e con il quale avevo fatto tanti chilometri per andare ad
ascoltare il professore di Grenoble, mi tirò una forte gomitata sibilandomi
nell’orecchio “con quello che hai detto hai chiuso con lui”, ma, accostando di
nuovo le labbra all’orecchio, integrò “o
ti sei fatto un amico”. Ebbi un brivido di pentimento, ma ero fiero e
soddisfatto della mia franchezza.
Al termine della manifestazione, in mezzo alla naturale calca, il
professore Ambroise alzava gli occhi come se cercasse qualcuno tra la folla, ad
un tratto alzò il braccio e con la mano fece cenno di richiamo a qualcuno, io
ero terrorizzato perché guardava nella mia direzione, ma lui tolse di mezzo
ogni incertezza, - venga, venga, - disse.
Mi feci coraggio e andai.
Diventammo amici.
E mi diede appuntamento alla Fondazione di Racalmuto per il prossimo incontro. Incontro sfociato nell’invito a pranzo.
Mi feci coraggio e andai.
Diventammo amici.
E mi diede appuntamento alla Fondazione di Racalmuto per il prossimo incontro. Incontro sfociato nell’invito a pranzo.
Dopo il pranzo, dunque, lo riaccompagnai in Fondazione per il
prosieguo dei lavori.
A distanza di una settimana circa, mio zio mi fa sapere che era
arrivato un pacchetto da Grenoble da parte del prof. Ambroise e che avrebbe
voluto aprirlo in mia presenza. Io pensai subito si trattasse di libri. Invece,
quando lo aprimmo, ci trovammo sotto gli occhi tanti tappi di champagne, erano
di cioccolata, ripieni di champagne vero. Abbiamo brindato.
Testo e foto di ©Piero Carbone
giovedì 20 agosto 2015
COSA AVETE MANGIATO OGGI? NON SI DICE. "Ricordi all'improvviso" di Eduardo Chiarelli
archivio e pensamenti: CHE SI MANGIA OGGI? CAZZAMARRU, NATURALMENTE! Ricette "storiche" illustrate da Corrado Di Pietro
Ricordi all'improvviso
Ricordi all'improvviso
di
Eduardo Chiarelli
Eduardo Chiarelli
Su, Papà, portaci al
Mc Donald, è da tanto che non ci andiamo! ripetono a mo' di cantilena i miei
bambini.
Sanno che non vado matto per quel cibo che
odora di sebo, e che preferirei, visto che viviamo in una città di mare,
portarli in un ristorante dove servono
dell'ottimo pesce appena pescato.
Ma io e mia moglie
sappiamo che se non li accontentiamo dovremo udire la loro litania per tutta
la mattinata, e poi come si dice… ogni tanto!
Arrivati al
ristorante, cominciano a consultare il menù, ma non riuscendo a decidere cosa
ordinare, dopo tante esitazioni e ripensamenti, entrambi mi chiedono : - Cosa
mangiamo?
Ed è in quel
momento che improvvisamente mi riaffiora alla mente un'antica risposta:
“Cazzi di monaci!
“Cazzi di monaci!
Senza accorgermene, la ripeto e al contempo rido, perché era
questa la risposta che mia Nonna mi dava quando anch'io, da bambino, le chiedevo
con insistenza cosa ci fosse da mangiare.
Solo molti anni dopo avrei capito che per la
generazione dei miei Nonni tutto il cibo era grazia di Dio, per questo non
tolleravano certe domande, infatti dicevano anche: Inchi la panza e inchila
di spini (riempi la pancia e riempila di spine), proprio per dire che non si doveva fare gli schifiltosi e che la cosa
più importante era riempire lo stomaco.
Molti erano i modi
di dire relazionati con il cibo, e fra questi, c'era quella raccomandazione che
i genitori facevano ai propri figli prima che questi uscissero di casa, ed
era: se qualcuno gli avesse domandato ciò che avevano mangiato, dovevano rispondere: Pani e radici, chiddru chi mangia
nun si dici (pane e ravanelli, quel che si mangia non si riferisce).
Frase a doppio
effetto questa , che serviva sia per proteggersi dall´invidia dei vicini, nel caso
avessero mangiato una pietanza particolarmente prelibata o costosa, sia dalla
vergogna, nel caso invece si fosse trattato di una povera zuppa di borraggine,
bietole o cicoria. Verdure queste che crescevano spontanee nei campi, e per
tale motivo dette: di lu Signuruzzu (del Signore).
Quanta sofferenza e
quanto sacrificio dunque, in quelle semplici parole, ma anche tanto orgoglio e
tanta dignità.
Ci sono frasi, espressioni, modi di dire, che
a distanza di anni ci fanno sorridere, perché divertenti, pittoresche, e anche
se a volte un po' volgari , sempre sagge, immediate e dirette, perché proferite
nel nostro bel dialetto.
Parole sulle quali credo valga sempre la pena
soffermarsi e meditare, perché riflettono la realtà di un mondo che ci
appartiene, e che arrivano dritte al cuore, perché era proprio dal cuore che
venivano.
venerdì 26 giugno 2015
COMPLICI PER IL FUMO. Prima parte. Racconto di Federico Messana
Ormai son trascorsi due anni.
"Però è scritto guardando al modello di D'Arrigo", tiene a precisare a telefono Federico Messana, nell'annunciarmi l'invio del suo racconto.
I lettori sono avvisati: la storia se si vuole è minimalista ma la lingua è tutto un crepitio di suoni, una danza di parole, da apprezzare perché veicolano una storia ma contemporaneamente o sopratutto mettono in evidenza se stesse.
Per renderlo più consono ai tempi e ai ritmi di lettura di un blog, lo suddivido in due parti: per gustare meglio le parole, non solo il racconto ma anche il raccontare.
Il titolo, infine, traslandolo dal senso proprio in quello figurato, esula dalla storia a cui nel racconto si riferisce, e rimanda allusivamente ad altre storie, quelle di sempre, alle complicità tirate in ballo per procacciarsi qualcosa o ingraziarsi strumentalmente qualcuno, che si riveleranno a loro volta figurato "fumo" o concreto "arrosto". P. C.
FEDERICO MESSANA
I ragazzi di Monte Ottavio
Racconto ambientato negli anni sessanta in un paese
siciliano
Cinque amici alla
disperata ricerca di sigarette
Un
pensiero a Peppi e Totuccio
che
ci hanno lasciati per sempre.
"Che sigarette susprate[1]?",
addumannò Totuccio sdillaniato[2] ed
allupato con una taliata[3]
isterica, issando le ciglia verso il cielo che sperluciava come specchio, con
al centro un sole rosso di fuoco lavico. L'avidità che guttuliava[4] da
quella semplice domanda era talmente soprapelle che non una disinteressata
informazione voleva, ma carcariava[5] una
pressante richiesta d’aiuto, un "datemi da fumare perché non ne posso
più", come spissiava[6]
fare.
"Palmall, suspriamo! Ne vuoi
una?", gli rimandò una voce con aria babbiona[7] e
sonnolenta, lanciandogli addosso una nuvolaglia fumosa che colpì il ciuffo di
capelli sparpagliandoli in aria, in modo informe. Ciuffo che Totuccio, com'era
aduso fare, con mossa repentina e meccanica riportò immediatamente in avanti a
coprire la spaziosa e lucida fronte. Era un vero dilemma quel ciuffo
malandrino: spostato in avanti gli lasciava nuda la lucida nuca, sistemato
all'indietro lasciava intravedere una fronte spaziosa, in mezzo, sede naturale,
gli dava le sembianze di un gallo cedrone nell’atto di emettere un
chicchirichì.. Nel porre quella domanda, prima smorfiò con aria incredula,
quindi ridacchiò d’un riso tutto grifonesco.
Federico, senza attendere risposta
di voce, poiché erano stati sufficienti un movimento di collo ed una
dilatazione di guancia, seguiti da una scaccaniata[8]
gallinacea, estratta una sigaretta dal pacchetto di Palmall ancora pieno, che
barbagliava come specchio al sole per via della coloratissima confezione
sigillata da una lucida pellicola trasparente, l'allungò a Totuccio. Questi,
con l'avidità di chi è a digiuno da tempo assai remoto, accarezzandosi la nuda
e lucida nuca che sembrava il culo bianco di una verginella e sparpagliando
all'indietro, con gesto repentino e studiato, il ciuffo di capelli
scompigliati, in pochi secondi accese la sigaretta e cominciò ad emettere alte
volute di fumo, per rifarsi della prolungata astinenza.
Passeggiando su e giù, giù e su per la piazza, in silenzio e senza prescia[9], i cinque amici assomigliavano ad uno di quei treni merci del capoluogo che, tra sibili di ciminiere e monotoni nfunfù, nfunfù di pistoni e stantuffi arrugginiti, avanzano lentamente con un ciuff! ciuff! emettendo un denso fumo acre e nero che ti scompiscia[10] le tonsille.
Manco il tempo per due giri di boa che le sigarette erano già ridotte a cicche; i cinque amici le lanciavano a distanza col dito medio trattenuto dal pollice e quindi liberato come una fileccia[11]. In segno di sfida, di strafottenza e di momentanea abbondanza, contro l’onnipresente e tirribilia malasorte.
Passeggiando su e giù, giù e su per la piazza, in silenzio e senza prescia[9], i cinque amici assomigliavano ad uno di quei treni merci del capoluogo che, tra sibili di ciminiere e monotoni nfunfù, nfunfù di pistoni e stantuffi arrugginiti, avanzano lentamente con un ciuff! ciuff! emettendo un denso fumo acre e nero che ti scompiscia[10] le tonsille.
Manco il tempo per due giri di boa che le sigarette erano già ridotte a cicche; i cinque amici le lanciavano a distanza col dito medio trattenuto dal pollice e quindi liberato come una fileccia[11]. In segno di sfida, di strafottenza e di momentanea abbondanza, contro l’onnipresente e tirribilia malasorte.
"Fumiamo ancora!", disse
con enfasi Federico.
Ed estratto dalla tasca dei pantaloni un pacchetto di Lucky Strike distribuì una sigaretta a testa. Il fumo delle sigarette appena accese andò a sospingere il vecchio che lentamente cominciava a sfumuliare verso l'alto.
Mai forse quella piazza aveva visto tanta abbondanza di fumo, nonostante sentisse il lingueggiare del fuoco di caldo, né tantomeno i cinque amici che, con evidente voluttà, stavano finalmente gustando ed assaporando il loro momento di gloria.
Gli occhi di Totuccio commentariavano da soli, era come alloccato, e da qualche momento scambiava, ricambiato, cenni di soddisfazione cogli amici, ora aggrottando l'alta e nuda fronte traslucida, ora con sorrisi peccaminosi di compiacimento accompagnati da scàccani[12] indescrivibili, la cui eco rimbombava dal negozio del barbiere alla farmacia, al bar, al tabaccaio; finalmente vomitò la domanda che tutti attendevano da quando s'era aggiunto al vaporoso crocchio di sfessati.
Ed estratto dalla tasca dei pantaloni un pacchetto di Lucky Strike distribuì una sigaretta a testa. Il fumo delle sigarette appena accese andò a sospingere il vecchio che lentamente cominciava a sfumuliare verso l'alto.
Mai forse quella piazza aveva visto tanta abbondanza di fumo, nonostante sentisse il lingueggiare del fuoco di caldo, né tantomeno i cinque amici che, con evidente voluttà, stavano finalmente gustando ed assaporando il loro momento di gloria.
Gli occhi di Totuccio commentariavano da soli, era come alloccato, e da qualche momento scambiava, ricambiato, cenni di soddisfazione cogli amici, ora aggrottando l'alta e nuda fronte traslucida, ora con sorrisi peccaminosi di compiacimento accompagnati da scàccani[12] indescrivibili, la cui eco rimbombava dal negozio del barbiere alla farmacia, al bar, al tabaccaio; finalmente vomitò la domanda che tutti attendevano da quando s'era aggiunto al vaporoso crocchio di sfessati.
"Da dove arrivano queste
sigarette così profumate?", addumannò sommessamente e quasi sottovoce per
non azzoppare il magico e peccaminoso momento, inimmaginabile fino a qualche istante
prima. Intanto che poneva la domanda voltava e rivoltava la sigaretta, leggeva
la marca, annusava l'odore fumoso ed il fumo odoroso. Ma soprattutto si
sgargiava[13]
le guance con risate di compiacimento.
"Fuma, e non pensarci! Ieri è
arrivato un mio cugino dall'America Argintina!", gli rispose Salvatore che
subito trovò cenni di conferma dagli altri con un: "Vero è, proprio ieri
arrivò Angiluzzu!".
"Allora, evviva l'America
Argintina e gli americani argintini, evviva Angiluzzu!", rispose Totuccio con
una straordinaria scaccaniata che si udì a notevole distanza.
"Evviva l'America, le Palmall e
le Lucky Strike", gli fecero eco Federico, Peppi, Fefè e Salvatore.
I cinque, allineati come in
formazione d'attacco, andavano avanti e indietro, su e giù, avvolti da una
densa nuvolaglia, effetto delle veloci susprate il cui ritmo avrebbe ridotto in
fumo un'intera pagliera in tempi rapidi. E scialibando[14] come
dentro un miraggio, si gettavano scariche di scorreggette per saluto, trottando
per la piazza come in sella a delle onde e qualcuno li inseguisse a calci nel
didietro. Per Totuccio giunse a malincuore il momento del doloroso commiato,
che lui definiva doveroso ed ineluttabile per via dei gravosi impegni presi con
la famiglia. Era o non era gestore del bar? Doveva quindi correre e controllare
che tutto filasse liscio.
"Grazie delle susprate, ma ora
devo tornare al bar a controllare che qualche disgraziato allupato[15] non
rompa il vetro della macchinetta, com'è successo stamattina. Affamati come sono
di fumo, sarebbero capaci di svuotarla di tutte le sigarette americane di cui è
stata riempita 'stamatina", disse Totuccio, facendo cenno d'andarsene con
aria solenne da capufficio indaffarato e non un quilibet qualsiasi che passa
inosservato, ti passa sotto il naso e manco lo vedi.
"Aspetta!", gli disse
Federico. "Tieni queste due per fumarle più tardi, anzi tieni tutto il
pacchetto, visti gli impegni gravosi che ti aspettano. Ti pare
bastevole?".
"No, prendi questo!" gli
fece eco Fefè, in vena di cerimonie e complimenti, porgendo un altro pacchetto
a Totuccio.
"Fumati questo Lucky
Strike!", aggiunse Salvatore per non essere da meno.
"Il mio ti fa schifo? Prendi
anche questo HB!", l'apostrofò Peppi, con fare sardonico.
E così dicendo porsero i pacchetti a
Totuccio che accigliato, con fare tra il commosso, il perplesso ed "il non
so quale miracolo sia successo", la fronte aggrottata ed i capelli sempre
più scompigliati all'indietro, stringendosi la cinghia dei pantaloni si avviò
verso il bar scaccaniando più che mai "bastevole! bastevolissimo!",
tutto pomponella e teatranteria[16],
rischiando di restare assincopato dallo sforzo, ed annacandosi[17] sui
fianchi come cavallo arabo, per via di una pàpula[18] al
piede destro che lo faceva zoppiare vistosamente.
Avanzava annacandosi vistosamente, infatti, come o più d'un anziano
arcivescovo che di solido ha ormai soltanto un pesante crocifisso di duro
metallo appeso al petto, e si muove lentamente quasi sospinto dall'aria mossa
da un nugolo di seminaristi petulanti che lo attorniano costantemente.
Con cruccio e risentimento, da giorni andava sostenendo che zoppiare, per una persona normale era normale, ma non per lui che aveva intrapreso la carriera di agrimensore, pregna di impegni e responsabilità, come e più d'un vescovo; se infatti la cosa è plausibile per un prete, che può zoppiare sotto la nera veste e la gente non se n'accorge nemmeno, non altrettanto per uno che studia per vescovo, perché il vescovo sfigura se non è fatto bell'e fatto, per via dei suoi impegni istituzionali!
Giustappunto come un agrimensore, che deve lavorare di metro, piantare paletti, fare misure, avere a che fare col Catasto. A quelli non puoi presentarti zoppiando, come una mammatessa[19] infilata per culo, non ti prendono in considerazione. S'annacava insomma, per via della pàpula, come se gli avessero titillato le tonsille inferiori, o come se gli avessero messo una mano nel sottocavallo, sprovando col medio lo sbocco di bocca, il culo ovverossia, come una gallinella se ha l'ovo.
Con cruccio e risentimento, da giorni andava sostenendo che zoppiare, per una persona normale era normale, ma non per lui che aveva intrapreso la carriera di agrimensore, pregna di impegni e responsabilità, come e più d'un vescovo; se infatti la cosa è plausibile per un prete, che può zoppiare sotto la nera veste e la gente non se n'accorge nemmeno, non altrettanto per uno che studia per vescovo, perché il vescovo sfigura se non è fatto bell'e fatto, per via dei suoi impegni istituzionali!
Giustappunto come un agrimensore, che deve lavorare di metro, piantare paletti, fare misure, avere a che fare col Catasto. A quelli non puoi presentarti zoppiando, come una mammatessa[19] infilata per culo, non ti prendono in considerazione. S'annacava insomma, per via della pàpula, come se gli avessero titillato le tonsille inferiori, o come se gli avessero messo una mano nel sottocavallo, sprovando col medio lo sbocco di bocca, il culo ovverossia, come una gallinella se ha l'ovo.
Si muoveva
come un cavallo che trasporta un grosso carico, incordato al sottopancia, ed
arranca a fatica sotto il pesante fardello sculettando ed annacandosi ora a
destra ora a manca, ondoso a simula di onde.
Così avanzava Totuccio verso il bar, scaccaniando[20], girandosi di tanto in tanto verso gli amici, alzando la mano destra, per mostrare la sigaretta fumosa, che sembrava ridere del suo riso, e per un segno di doveroso gesto di ringraziamento. Fosse allegro e di buon umore, o triste, turbato ed inquietato, Totuccio reagiva a scàccani, con caratteristiche risate a crepapelle che solo lui sapeva dosare con assoluta maestria. Come quando, per celia, nei lidi di Girgenti gli amici gli buttarono a mare le mutande, e lui li inseguì per la spiaggia, come una giumentella non più tenuta per la criniera, con una mano davanti ed una dietro, scaccaniando contrariato con farsa da tragediatore. E non la finiva più di sgridiarli: "Disgraziati, mi avete spareggiato il corredo appena ingignato!"[21].
Così avanzava Totuccio verso il bar, scaccaniando[20], girandosi di tanto in tanto verso gli amici, alzando la mano destra, per mostrare la sigaretta fumosa, che sembrava ridere del suo riso, e per un segno di doveroso gesto di ringraziamento. Fosse allegro e di buon umore, o triste, turbato ed inquietato, Totuccio reagiva a scàccani, con caratteristiche risate a crepapelle che solo lui sapeva dosare con assoluta maestria. Come quando, per celia, nei lidi di Girgenti gli amici gli buttarono a mare le mutande, e lui li inseguì per la spiaggia, come una giumentella non più tenuta per la criniera, con una mano davanti ed una dietro, scaccaniando contrariato con farsa da tragediatore. E non la finiva più di sgridiarli: "Disgraziati, mi avete spareggiato il corredo appena ingignato!"[21].
I quattro, che fino a quel momento
avevano tenuto un rispettabile contegno di circostanza, come santi di màrmaro
per celiare la farsa, come chi col fatto appena accaduto non c'entra e con
indifferenza se ne sta in disparte a commentare l'accaduto, quando Totuccio
infilò la porta del bar e fu orbo alla vista, si sgargiarono in uno squasso di
sonore risate, piegandosi in due e trattenendo a stento le lacrime, dimenandosi
a gettasangue: come se stavolta, la mano nel sottocavallo ce l'avessero proprio
loro, sprovati come gallinelle nello sbocco di bocca e titillati nelle tonsille
inferiori.
* * * *
Di buon'ora, come tutti i santi
giorni, i quattro amici, s'erano incugnati[22] nel
bar di Totuccio, per ammazzare le lunghe e monotone ore del mattino. Scherzando
o giocando a carte, o pomponelleggiando con qualche canzoncina, attendevano che
i soliti avventori, amici o conoscenti, giungessero per ordinare un caffè che,
questa era la prassi, veniva offerto a quanti si trovassero nel locale.
Non un caffè a testa, s'intende, ma tirandosi il paro e disparo per chi dovesse iniziare per primo, una miserabile sucatina[23] dalla stessa tazzina che, passando di bocca in bocca, bagnava soltanto la lingua e soddisfaceva appena il palato; era come alliccare una sarda e trarne soddisfazione ma non sostanza, era come un mangiare a merdarella.
Era passato il capufficio, quindi il postino, infine il maestro.
La cerimonia, che da messinscena da opera di pupi si trattava, s'era ripetuta come da copione, e come da prassi consumata la stessa sigaretta nazionale stava facendo il giro di bocca tra gli amici. Susprandola[24] delicatamente per farla durare il più a lungo possibile ed in punta di labbra, quasi fosse una gara di resistenza.
Spesso prese a credenza[25] dal tabaccaio, che a malincuore segnava su una libretta che aumentava di spessore un giorno dopo l'altro, le sigarette si vedevano solo di lontano, come le reliquie sotto vetro dei santi nelle processioni, che passano sempre a quella certa distanza, calcolata giusta, per non essere scandagliate se sono finte o vere, rose o rosate, di osso o di cera.
Non un caffè a testa, s'intende, ma tirandosi il paro e disparo per chi dovesse iniziare per primo, una miserabile sucatina[23] dalla stessa tazzina che, passando di bocca in bocca, bagnava soltanto la lingua e soddisfaceva appena il palato; era come alliccare una sarda e trarne soddisfazione ma non sostanza, era come un mangiare a merdarella.
Era passato il capufficio, quindi il postino, infine il maestro.
La cerimonia, che da messinscena da opera di pupi si trattava, s'era ripetuta come da copione, e come da prassi consumata la stessa sigaretta nazionale stava facendo il giro di bocca tra gli amici. Susprandola[24] delicatamente per farla durare il più a lungo possibile ed in punta di labbra, quasi fosse una gara di resistenza.
Spesso prese a credenza[25] dal tabaccaio, che a malincuore segnava su una libretta che aumentava di spessore un giorno dopo l'altro, le sigarette si vedevano solo di lontano, come le reliquie sotto vetro dei santi nelle processioni, che passano sempre a quella certa distanza, calcolata giusta, per non essere scandagliate se sono finte o vere, rose o rosate, di osso o di cera.
Ogni tanto s'affacciavano sulla
piazza e con la mano a parocchio sulla fronte spiavano il sole, facesse
abbaglio o meno. All'imbrunire occhiavano al sole, alla luce che restava: e
vedendo che era giusto il momento in cui il sole al tramonto sembra mandare,
come estremo addio, un ultimo grande sprazzo di luce, attimi di vero fulgore, e
poi è tutto un precipitare della notte, si animavano di passione, si agitavano
con spasimi di cuore. Sembrava un gesto ridicolo, quasi volessero salutarlo da
soldati.
Per quella mandria di giovanotti sembrava una specie di rito matino e serotino, un segno di ringrazio per avere visto ancora il giorno e perché speravano di rivederlo ancora domani, al tramonto ma anche al sorgere, alto e immenso sole di fuoco, quando il cielo si alzava in un'altissima curva di fiamme. Anche se poi spesso lo maledicevano perché soprattutto nei giorni di mezzagosto lo scirocco africano, di cui si nutrivano mattina, mezzogiorno e sera, si poteva pigliare e mettere nei sacchi; sempre in attesa che soffiasse un venticello spiritoso in mezzo all’aria pesante che si respirava in quella piazza, una fresca borietta di grecale che rinfrescasse i pensieri.
Poi, o perché la calata del sole era stata troppo rapida e forte da seguire, o perché si spremevano troppo a smirciare[26] in quella luce, come in cerca di qualcosa, gli occhi pigliavano a fare lacrima. Lacrima di un lontano pianto, segreto, che cadeva di nuovo dentro, come in una tazzina di porcellana, dove si conserva per essere usata ancora, perché anche quella sorgente si essicca col tempo, la vita stessa si essicca. Ma non erano lacrime di pianto, pareva non le sentissero nemmeno e non se le asciugavano. Erano lacrime d'occhi, lacrime che si lacrimavano da sole, poiché lontano era il fumichìo delle reste di zolfo.
I loro occhi sembravano rigonfi di tutte le lacrime che possono riempire un occhio, e l'occhio trattenere e mai versare, di tutte le lacrime di cui è capace l'animo umano quando è veramente felice e quando è veramente infelice, quando felicità e infelicità non si sa più che cosa precisamente sia l'una e che cosa sia l'altra.
Non avevano sosta, avevano trovato un posto che già ne scandagliavano un altro, come un cane che va cercando col fiuto il posto dove fare gli affari suoi. Che poi manco di guerra venivano, per essere così apatici, sempre con l'uovo storto, ma stavano come gli altri sotto quella gran coppola di cielo dove non c'era solo sventura. Assomigliavano al cane di Nardazzu, caduto sulle zampe davanti, col petto a terra e la lingua di fuori, che fa bave e schiuma, una forma umana mezza confusa, grigia che si faceva nera, anche se il sole splendeva alto e rosso di fuoco; se ne stavano con profilo grifonesco, fisso, cogitoso, con una mente strambata. Quasi figura sfigurata del genere umano, a cuocere nel quaglio del loro massacrante stillicidio, o imboattati sani sani e conservati vivi sotto pece: mala tempora che correvano a precipizio.
Per quella mandria di giovanotti sembrava una specie di rito matino e serotino, un segno di ringrazio per avere visto ancora il giorno e perché speravano di rivederlo ancora domani, al tramonto ma anche al sorgere, alto e immenso sole di fuoco, quando il cielo si alzava in un'altissima curva di fiamme. Anche se poi spesso lo maledicevano perché soprattutto nei giorni di mezzagosto lo scirocco africano, di cui si nutrivano mattina, mezzogiorno e sera, si poteva pigliare e mettere nei sacchi; sempre in attesa che soffiasse un venticello spiritoso in mezzo all’aria pesante che si respirava in quella piazza, una fresca borietta di grecale che rinfrescasse i pensieri.
Poi, o perché la calata del sole era stata troppo rapida e forte da seguire, o perché si spremevano troppo a smirciare[26] in quella luce, come in cerca di qualcosa, gli occhi pigliavano a fare lacrima. Lacrima di un lontano pianto, segreto, che cadeva di nuovo dentro, come in una tazzina di porcellana, dove si conserva per essere usata ancora, perché anche quella sorgente si essicca col tempo, la vita stessa si essicca. Ma non erano lacrime di pianto, pareva non le sentissero nemmeno e non se le asciugavano. Erano lacrime d'occhi, lacrime che si lacrimavano da sole, poiché lontano era il fumichìo delle reste di zolfo.
I loro occhi sembravano rigonfi di tutte le lacrime che possono riempire un occhio, e l'occhio trattenere e mai versare, di tutte le lacrime di cui è capace l'animo umano quando è veramente felice e quando è veramente infelice, quando felicità e infelicità non si sa più che cosa precisamente sia l'una e che cosa sia l'altra.
Non avevano sosta, avevano trovato un posto che già ne scandagliavano un altro, come un cane che va cercando col fiuto il posto dove fare gli affari suoi. Che poi manco di guerra venivano, per essere così apatici, sempre con l'uovo storto, ma stavano come gli altri sotto quella gran coppola di cielo dove non c'era solo sventura. Assomigliavano al cane di Nardazzu, caduto sulle zampe davanti, col petto a terra e la lingua di fuori, che fa bave e schiuma, una forma umana mezza confusa, grigia che si faceva nera, anche se il sole splendeva alto e rosso di fuoco; se ne stavano con profilo grifonesco, fisso, cogitoso, con una mente strambata. Quasi figura sfigurata del genere umano, a cuocere nel quaglio del loro massacrante stillicidio, o imboattati sani sani e conservati vivi sotto pece: mala tempora che correvano a precipizio.
Parlavano e parlavano, di cose di
nullo conto, con voce scannarozzata che sfuggiva dalla bocca come un
mugulamento, una nota lamentosa che si sperdeva in tanti respiri strozzati;
fino al punto di rendersi scienti d'avere perso il filo del ragionamento, o
d'averlo ritrovato e averlo seguito tutto fino in fondo, fino all'altro capo,
che era la stessa cosa che perderlo o riperderlo. Allora ricominciavano daccapo
con sempre meno interesse di prima, come avessero un organetto e lo suonassero
senza suono.
Si giravano e rigiravano senza sosta, in un culo di sacco, come fosse sempre il tramonto, che colorava il loro viso di sfumature accoranti di malinconia, e sentissero il calamitare del sole per aria, senza potergli resistere, e tramontassero anche loro dietro il sole ma all'opposto del cielo, sottoterra. Oppure, quelle bocche d'oracolo se ne stavano mute come fossero di roccia, perché non avevano nessun bisogno di parlare con parole, quello che pensavano lo portavano scritto in faccia.
Si giravano e rigiravano senza sosta, in un culo di sacco, come fosse sempre il tramonto, che colorava il loro viso di sfumature accoranti di malinconia, e sentissero il calamitare del sole per aria, senza potergli resistere, e tramontassero anche loro dietro il sole ma all'opposto del cielo, sottoterra. Oppure, quelle bocche d'oracolo se ne stavano mute come fossero di roccia, perché non avevano nessun bisogno di parlare con parole, quello che pensavano lo portavano scritto in faccia.
La carestia di fumo era perenne,
scotrumbava[27]
a lingue di fuoco, perciò non potevano dire: "Incasciamoci[28] oggi
un po' di fumo, mettiamoci al sicuro con una bella scorta che domani forse sarà
la nostra manna e minna[29]. La
carestia che antivedettero i nostri, anni prima, adesso è passata! No, adesso è
una delle peggiopeggio mai viste". Ma non c'era un'unghia, una scarda[30] di
fumo da incasciare come scorta per il domani. Non c'era da stare allegri, come
quando s'appresentava il tantaratàtantà del getta bandi Lisina che mazzoliava
sul tamburo a tracollo per gettare un bando di dazio, o rincaro di pane, o di
sale, o di chinino di Stato, tanto per dire. Loro s'immedesimavano in questo
stato di cose miserrime, e sentivano ch'era sempre la loro pelle che Lisina
mazzoliava sul tamburo, era per essi che sonava a morto il gettabandi.
Le mani acconghigliati alla bocca, la faccia di giallocanario come un melloncino di Malta, gli occhi un po' a lacrima un po' a riso che fissavano il vuoto, come se le poche parole uscissero di bocca da sole e loro sbrigassero altre faccende con la mente; il gettabandi diventava voce e tamburo, come la voce del grammofono che getta fuori le parole dal disco, e anche se sono parole di sangue, a lei, alla tromba, non fa né caldo né freddo.
Del resto il gettabandi non è il cantastorie che espone il cartellone coi pupi e fatica, travaglia, soffre, si contorce, muove i fili di polso suo, fa l'opera di persona, sopra e sotto al fatto successo, vive e fa vivere, in una sola parola, la parte. Lui è solo ambasciatore di finanza e dogana, d'ordinanza di sindaco e prefetto, porta la pena che gli mettono in bocca, è l'eco che ripete quello che gli gridano.
Quel gettabandi batteva e mazzoliava sulla loro pelle, essiccata in qualche chiarchiaro[31] della zona, amplificava la loro miseria e non solo in fatto di fumo, perché questo era solo una conseguenza dell'altro più grave, atavico: la miseria! Morbo, che se investe come Dio comanda, sembra un poco tutti gli altri morbi messi assieme.
Intanto se ne stavano lì, come accapigliati e confusi in una mischia furiosa col tempo, la testa leggia[32], acquagliati tra tavoli e sedie, col grande patema d’avere una zita[33], s'agonivano inconversariati, a commiserarsi, a piangersi addosso ogni sventura, a liquefarsi di tristezza e malinconia, in attesa che la pesante màzzara[34], che spingeva in avanti la lancetta del tempo, facesse suonare il liberatorio battaglio di mezzogiorno.
Poco mancava che si cantassero da soli un bel miserere, e se a qualcuno fosse venuto in mente di passare col piattino, questo non di spiccioli si sarebbe riempito immediatamente ma di lacrime amare, di sangue, di bile.
E sempre si addannavano, e pure addannandosi, speravano sempre, in attesa di una qualche nenticchiella[35] di novità, e si consumavano la vista guardando quel fumo sigillato in quella specie di cassaforte protetta dallo spesso vetro.
Parlavano e riparlavano di cose di nullo conto, e così, poveri poeti che si suonavano la chitarra a morto e tra nota e nota alliffavano con gli sguardi quella specie di cassaforte, impavidi minchionelli, non s'addobbavano né panza con fumo, né sottopanza con donna di niuno genere.
Non erano come certe fiere di mare che muoiono per smisurato scialibi di pancia, e che restano assincopate aspettando il rutto che non viene, per vie delle sarde, triglie e sgombri che si sono accantarate[36] dentro, poiché mangiano non tanto per necessità quanto per vizio; no, per loro era valido l'opposto, loro rischiavano di morire assincopati per mancanza di vizio, di fumo fumoso, cioè. E non era neppure un enimma la loro faccia smorfiosa di sfinge.
Si addannavano, e pure addannandosi, speravano sempre, e si consumavano la vista sopra quelle scatolette colorate e variopinte, dilatando le pupille come un gatto abbagliato da una luce troppo forte.
Le mani acconghigliati alla bocca, la faccia di giallocanario come un melloncino di Malta, gli occhi un po' a lacrima un po' a riso che fissavano il vuoto, come se le poche parole uscissero di bocca da sole e loro sbrigassero altre faccende con la mente; il gettabandi diventava voce e tamburo, come la voce del grammofono che getta fuori le parole dal disco, e anche se sono parole di sangue, a lei, alla tromba, non fa né caldo né freddo.
Del resto il gettabandi non è il cantastorie che espone il cartellone coi pupi e fatica, travaglia, soffre, si contorce, muove i fili di polso suo, fa l'opera di persona, sopra e sotto al fatto successo, vive e fa vivere, in una sola parola, la parte. Lui è solo ambasciatore di finanza e dogana, d'ordinanza di sindaco e prefetto, porta la pena che gli mettono in bocca, è l'eco che ripete quello che gli gridano.
Quel gettabandi batteva e mazzoliava sulla loro pelle, essiccata in qualche chiarchiaro[31] della zona, amplificava la loro miseria e non solo in fatto di fumo, perché questo era solo una conseguenza dell'altro più grave, atavico: la miseria! Morbo, che se investe come Dio comanda, sembra un poco tutti gli altri morbi messi assieme.
Intanto se ne stavano lì, come accapigliati e confusi in una mischia furiosa col tempo, la testa leggia[32], acquagliati tra tavoli e sedie, col grande patema d’avere una zita[33], s'agonivano inconversariati, a commiserarsi, a piangersi addosso ogni sventura, a liquefarsi di tristezza e malinconia, in attesa che la pesante màzzara[34], che spingeva in avanti la lancetta del tempo, facesse suonare il liberatorio battaglio di mezzogiorno.
Poco mancava che si cantassero da soli un bel miserere, e se a qualcuno fosse venuto in mente di passare col piattino, questo non di spiccioli si sarebbe riempito immediatamente ma di lacrime amare, di sangue, di bile.
E sempre si addannavano, e pure addannandosi, speravano sempre, in attesa di una qualche nenticchiella[35] di novità, e si consumavano la vista guardando quel fumo sigillato in quella specie di cassaforte protetta dallo spesso vetro.
Parlavano e riparlavano di cose di nullo conto, e così, poveri poeti che si suonavano la chitarra a morto e tra nota e nota alliffavano con gli sguardi quella specie di cassaforte, impavidi minchionelli, non s'addobbavano né panza con fumo, né sottopanza con donna di niuno genere.
Non erano come certe fiere di mare che muoiono per smisurato scialibi di pancia, e che restano assincopate aspettando il rutto che non viene, per vie delle sarde, triglie e sgombri che si sono accantarate[36] dentro, poiché mangiano non tanto per necessità quanto per vizio; no, per loro era valido l'opposto, loro rischiavano di morire assincopati per mancanza di vizio, di fumo fumoso, cioè. E non era neppure un enimma la loro faccia smorfiosa di sfinge.
Si addannavano, e pure addannandosi, speravano sempre, e si consumavano la vista sopra quelle scatolette colorate e variopinte, dilatando le pupille come un gatto abbagliato da una luce troppo forte.
Era come se al centro della piazza
si alzasse un pennone con una bandiera gialla, di quelle che alzano le navi che
hanno avuto qualche caso di terribile morbo a bordo, ed un drappo nero col
teschio e le tibie incrociate sopra, bianco su nero. Quella bandiera di
funeraglia segnalava che a bordo gli uomini, marinai e passeggeri, erano ormai
parte morti e parte definitivamente speranzati, e che la nave messa in
quarantena batteva bandiera di morte, portava un carico di scheletri. E loro
sembravano quegli uomini di bordo, i marinai, i passeggeri senza alcuna
speranza.
Casualmente il professore aveva
detto qualcosa che forse dava una risposta a questo stato di cose e forse non
la dava, e qualcuno s'era posto il perché. Perché, aveva risposto, perché c'è
sempre un perché in ogni cosa. Non ci sono misteri nella vita, sembrano
misteri. Basta fare un piccolo sforzo e domandarsi: perché? E il cosiddetto
mistero subito si risente, non è più tanto fitto e impenetrabile, la visiera
gli comincia a tremolare sulla faccia, al signor mistero. Basta fare un piccolo
sforzo e domandarsi: perché? Solo che lì non c'era mistero e non bastava
domandarsi: perché? Era tutto chiaro e lampante come la luce del sole che
abbagliava sin dal mattino.
Eppure sembrava tutto indecifrabile, arcano sopra arcano, il tuono spaventoso, senza sprazzo né scintillio di luci, che nel cielo della notte, rimbombante e scuroscuro, fa il botto finale, l'ultima bomba della cassinfernale,[37] che chiude in bellezza e mistero la luminaria dei giochi d'artificio. Erano tutti giovani, giovanissimi, evidentemente; ma la loro non era giovinezza, non era vecchiezza, ma sembrava una vecchia giovinezza, una giovane vecchiezza.
Eppure sembrava tutto indecifrabile, arcano sopra arcano, il tuono spaventoso, senza sprazzo né scintillio di luci, che nel cielo della notte, rimbombante e scuroscuro, fa il botto finale, l'ultima bomba della cassinfernale,[37] che chiude in bellezza e mistero la luminaria dei giochi d'artificio. Erano tutti giovani, giovanissimi, evidentemente; ma la loro non era giovinezza, non era vecchiezza, ma sembrava una vecchia giovinezza, una giovane vecchiezza.
Era come se il sonno avesse pigliato
loro solo metà della mente, e metà mente invece non gli riuscisse
d'impossessarsene; ed era come se con quella metà mente sognassero e con questa
vivessero, sicché, pure facendo tutte e due le cose, non ne facevano veramente
nessuna delle due, né tutto sognavano né tutto vivevano, ma facevano una cosa
sola di tutte e due, un di più e un di meno: sognavano, come si dice, a occhi
aperti.
Diceva il professore: "Parabola
significa tarantola ballerina", in altre parole vita e perché, quella
maniata[38] di
ragazzotti doveva pigliarli per parabola col significato, con la morale, e col
significato morale significarsi la tarantola ballerina, ovverossia l'argomento
che avevano per le mani, mettendoci sotto la parabola, a spiega e commentario.
L'antico detto palermitano stava a significare che la tarantola è costretta a
girare vorticosamente in tondo, senza costrutto, allo stesso modo di chi sta
cercando una verità e gli capita di dover tornare al punto di partenza dove
tutto è avvolto nel dubbio e nel mistero. Loro erano la tarantola ballerina di
quella parabola, senza né capo né coda.
Da qualche
giorno in un angolo del bar era stata sistemata una di quelle macchinette dalle
quali, inserendo una moneta e manovrando una specie di piccola gru, si poteva
estrarre un pacchetto di sigarette americane: solo s'eri fortunato di culo.
Un tizio, che tra il rincoglionito e lo sdillaniato[39], s'accaniva da qualche tempo a consumare sonanti monete, di fortuna evidentemente n'aveva avuta assai poca se, dopo l'ennesimo tentativo bilioso andato a vuoto, aveva mollato un pugno di rabbia rabbiosa alla copertura di spesso vetro della macchina, rigandola leggermente in un lato, una fessurina di poco conto, impercettibile ai più, non si vedeva nemmeno, tant'era sottile da sembrare un graffio, anche se in realtà profonda ad un occhio ben attento e indagatore. I mugugni della padrona del bar, più per il fragoroso rumore di botta che per il danno causato, l'avevano costretto a desistere da ulteriori tentativi ed a tornarsene a casa ammammaluccato.
I quattro amici, biliatissimi, si guardavano in faccia con rassegnazione, intanto che i loro occhi si posavano su quei pacchetti di sigarette, ammirando con voluttà ora il loro splendeggiare acciaiato, ora il luccichio da sole al tramonto, intanto che giacevano lì accatastati uno sull'altro in bella mostra ed aspettavano soltanto una mano fortunata per essere prese e fumate. Il fuoco dei loro occhi convergeva su quella macchina, immobile ed insensibile al loro penìo, come un santo di marmo che non suda; era un continuo domandare e rispondere, breve e muto, alle volte di solo ciglio alzato o solo occhio impupillato, altre di solo labbro smorfiato o anche di sole mani spalmate per aria, occhìando ed apostrofando in un muto ribelloniamento schiumoso.
La qual cosa non era della domenica, ma forzatamente di tutti i santi giorni, non una volta sola, ma di continuo di continuo, volta su volta; un continuo penìo, ci fosse abbaglio di luna o arraggio di sole, o un nero miscuglio di cielo avesse aperto le sue cateratte. Era come se i loro occhi fossero sdoppiati, un occhio reale, col quale vedevano tutta la loro miseria, ed un occhio sognante, volto verso quel miraggio di sigarette, irraggiungibile e indecifrabile, un sogno incuneato in qualche angolo della loro mente.
Dalle loro labbra usciva un rantolo che s'udiva appena, come giocassero piuttosto a fare bolle d'aria col fiato.
Erano conzati [40]per le feste, detto in parole povere.
Un tizio, che tra il rincoglionito e lo sdillaniato[39], s'accaniva da qualche tempo a consumare sonanti monete, di fortuna evidentemente n'aveva avuta assai poca se, dopo l'ennesimo tentativo bilioso andato a vuoto, aveva mollato un pugno di rabbia rabbiosa alla copertura di spesso vetro della macchina, rigandola leggermente in un lato, una fessurina di poco conto, impercettibile ai più, non si vedeva nemmeno, tant'era sottile da sembrare un graffio, anche se in realtà profonda ad un occhio ben attento e indagatore. I mugugni della padrona del bar, più per il fragoroso rumore di botta che per il danno causato, l'avevano costretto a desistere da ulteriori tentativi ed a tornarsene a casa ammammaluccato.
I quattro amici, biliatissimi, si guardavano in faccia con rassegnazione, intanto che i loro occhi si posavano su quei pacchetti di sigarette, ammirando con voluttà ora il loro splendeggiare acciaiato, ora il luccichio da sole al tramonto, intanto che giacevano lì accatastati uno sull'altro in bella mostra ed aspettavano soltanto una mano fortunata per essere prese e fumate. Il fuoco dei loro occhi convergeva su quella macchina, immobile ed insensibile al loro penìo, come un santo di marmo che non suda; era un continuo domandare e rispondere, breve e muto, alle volte di solo ciglio alzato o solo occhio impupillato, altre di solo labbro smorfiato o anche di sole mani spalmate per aria, occhìando ed apostrofando in un muto ribelloniamento schiumoso.
La qual cosa non era della domenica, ma forzatamente di tutti i santi giorni, non una volta sola, ma di continuo di continuo, volta su volta; un continuo penìo, ci fosse abbaglio di luna o arraggio di sole, o un nero miscuglio di cielo avesse aperto le sue cateratte. Era come se i loro occhi fossero sdoppiati, un occhio reale, col quale vedevano tutta la loro miseria, ed un occhio sognante, volto verso quel miraggio di sigarette, irraggiungibile e indecifrabile, un sogno incuneato in qualche angolo della loro mente.
Dalle loro labbra usciva un rantolo che s'udiva appena, come giocassero piuttosto a fare bolle d'aria col fiato.
Erano conzati [40]per le feste, detto in parole povere.
[1]
fumate
[2]
stravolto
[3]
sguardo
[4]
fuoriusciva, gocciolava
[5]
balbettava
[6]
era solito
[7]
annichilita
[8]
risata
[9]
premura
[10]
mette sopra sotto
[11]
freccia
[12]
risate
[13]
dilatava
[14]
sguazzando
[15]
affamato
[16]
pieno di smorfie
[17]
dondolandosi
[18]
vescica
[19]
libellula infilzata
[20]
ridendo ad alta voce
[21]
usato per la prima volta
[22]
incuneati
[23]
succhiata
[24]
fumandola
[25]
a credito
[26]
guardare fisso
[27]
fuorusciva
[28]
accantoniamo
[29]
tetta
[30]
scheggia
[31]
pietraia
[32]
leggera
[33]
fidanzata
[34]
pesante contrappeso in pietra che fa muovere gli orologi a peso
[35]
minima
[36]
ingoiate a quintali
[37]
giuoco d'artificio
[38]
gruppo
[39]
fuori di testa
[40]
conciati
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