sabato 29 settembre 2012

IL DIALETTO PER DILETTO




Il Dialetto per Legge

Il dialetto siciliano, in quanto dialetto, dopo l’Unità d’Italia non ha avuto vita facile. Allo scopo di valorizzarlo la regione Sicilia con  Legge Regionale del 31 maggio 2011, n.9 ha varato alcune “Norme sulla promozione, valorizzazione ed insegnamento della storia, della letteratura e del patrimonio linguistico siciliano nelle scuole”.
Speriamo che anche questa volta non finisca come nel 2000 quando fu previsto l’insegnamento del dialetto nelle scuole,  ma il finanziamento non andò oltre il secondo anno e tutto finì lì.
Anche la scuola dove insegnavo ha aderito al progetto regionale. Il preside Pierfranco Rizzo mi chiese di scrivere un intervento per “Scuola e Cultura Antimafia” che ripropongo come testimonianza di un antico entusiasmo:




Passione a colpi di sedia!

Sostenere le proprie ragioni a colpi di sedia, sulle teste altrui, a seguito di questioni filologiche, anzi, fonetico-ortografiche, può sembrare esagerazione, ma gli appassionati studiosi siciliani dell’Ottocento, per amore del dialetto, affrontavano connonchalance simili eventualità.
Nel 1870, si doveva scrivere Xiuri o Sciuri? Xiacca o Ssciacca? O Ciuri e Ciacca? Questo era il problema.
Fior di studiosi sostennero appassionatamente or l’una or l’altra risoluzione senza addivenire per la verità ad un risultato pacificamente condiviso. Non che il dilemma sia stato risolto, a distanza di un secolo, anzi, si è aggravato, quando dai fatti concernenti l’ortografia si è passati alle stesse parole da scrivere e da pronunciare. Basti pensare all’infinita varietà del pronome più egoisticamente pronunciato: ìu, iù, eu, ia, iè, iò, i...

Varianti

Altri esempi: a Casteltermini il coltello si dice cutìddu, a Canicattì l’uovo si dice uèvu, a Nicosia le dita si dicono didi. In uno stesso paese i buoi si possono chiamare vo oppure vua. Il grembiule cambia nome di pari passo ai piatti tipici preparati in varie parti della Sicilia da chi l’indossa: fallaru, fasdali, fadali... 
Dal lessico alla sintassi: ad Alì si dice ai ragiuni mi ti lagniper "hai ragione di lagnarti", a Frassanò dicci mi trasi per "digli di entrare", a Roccella Valdemone dàtimi mi bbìu per "datemi da bere" e a Milazzo mi a vitti spugghiàri si curca per "la vidi spogliare per coricarsi". Un poeta di San Fratello può scrivere: Cam na zzita chi ghj passea / u schient di la prima vauta / s’abbanauna e si dèscia aner, /Accuscì, suparari li ndecisiuoi, / misg a nu i miei pinsier... (Come una sposa cui è passato / il timore della prima volta / s’abbandona e si lascia andare, / così, superate le titubanze, / ho messo a nudo le mie preoccupazioni...
E la trottola? Furrìa con un nome nel palermitano e firría sotto altro nome nell’agrigentino. L’Università di Palermo vi ha dedicato uno studio.

Dal caos alla grammatica

Non si pensi che a questo caos i grammatici e gli studiosi non abbiano tentato di mettere ordine, l’hanno fatto scrivendo grammatiche, caldeggiando ortografie anche bizzarre, ipotizzando koiné, soprattutto ad uso dei poeti, i veri e pressoché unici artefici a quanto pare del dialetto siciliano scritto; ma proprio loro non ne hanno mai voluto sapere di seguire regole e regolette ritenendole un attentato alla libera creatività: ognuno ha scritto e scrive come gli pare e piace. 
La difformità tra l’italianizzante Giovanni Meli e Alessio Di Giovanni fonografista, Santo Calì di Schisò e Ignazio Buttitta di Bagheria, per non parlare dei galloitalici, suona come chiara smentita contro coloro che vorrebbero conferire al siciliano status e spessore di lingua, aeterna quaestio che volentieri tralasciamo: teniamo alla nostra incolumità.

 Unica tassa e unica lingua

Per fortuna, o per sfortuna: da un punto strettamente linguistico, si capisce, è intervenuta l’unità d’Italia, che ha unificato oltre che le tasse e il servizio di leva anche i vari dialetti nel senso che li ha saltati a piè pari, relegando in secondo piano le accalorate questioni dialettali. Si è avuto così un popolo di italofoni che scriveva in italiano e parlava, abusivamente, in dialetto. Nei Seminari, i clerici venivano puniti con l’accipe se incocciati a pronunciare frasi o semplici interiezioni paesane, cioè dialettali; nelle scuole il dialetto era unicamente elemento "inquinante", spia di degradata origine sociale, di rozzezza e maleducazione, non solo linguistica: da segnare con la matita blu nei distillatissimi temi.

La lingua del potere

L’italiano era la lingua del potere. Per la borghesia era segno di distinzione o schermo per non far trapelare "meccaniche" origini. Uno Sciascia arrabbiatissimo ha bollato "l’amorfa borghesia siciliana" per avere addolcito e italianizzato il cacuminale "ddu" del lacerante grido "Hanno ammazzato compare Turiddu", nella Cavalleria rusticana.
Poi Pasolini lanciò l’allarme: con la scomparsa delle lucciole si rischiava la scomparsa di tante altre cose, compreso il dialetto e il mondo di cui esso era corpo e voce. Cambiò l’atteggiamento, nella società, nella cultura, in parte nell’editoria, si riscoprì come un valore quello che prima era stato bistrattato e bandito.

Ai giorni nostri

E siamo ai giorni nostri. Dopo tanti appelli provenienti da linguisti, antropologi, poeti, uomini di cultura e semplici cittadini, in favore del dialetto siciliano, e qui si citano solo Giovanni Ruffino e Salvatore Di Marco in rappresentanza del mondo accademico e dei liberi cultori del dialetto, la Regione siciliana ha emanato la circolare n. 11, prot. 535 del 7 luglio 2000 con cui si rendono efficaci ed operative le precedenti leggi intese "a favorire lo studio del dialetto siciliano e delle lingue delle minoranze etniche delle scuole dell’Isola". Per accedere ai finanziamenti, le scuole hanno presentato appositi progetti.

Nel declinare il proprio, la scuola media "Quasimodo" di Palermo, ad esempio, con la benevola approvazione del Centro di studi filologici e linguistici siciliani, si è prefissa l’obiettivo di fare scoprire le regole ortografiche e i nessi logico-sintattici attraverso l’analisi della produzione dialettale sia colta che popolare; avviare un confronto tra la struttura grammaticale della lingua ufficiale e la produzione dialettale; porre la problematicità delle trascrizioni dialettali e delle possibili soluzioni secondo le diverse scuole; studiare il lessico dal punto di vista etimologico; studiare l’evoluzione storica della lingua dal punto di vista del lessico e grammaticale. 
Per non parlare dei contenuti ovvero dello studio della società nei suoi diversi aspetti: lavoro, amore, mondo dell’infanzia, feste dell’anno secondo il calendario religioso e il ciclo delle stagioni, etc.

Sono cadute insomma le cateratte che impedivano alle istituzioni scolastiche statali siciliane di guardare con maggiore consapevolezza e senza pregiudizi ciò che intorno ad esse si muoveva, specialmente sotto l’aspetto linguistico.







venerdì 28 settembre 2012

LE PUTÌE DI VINO (E LE PAROLE SPENTE)






Nelle città si chiamano “enoteche”, frequentarle, come si dice, fa tendenza, e i giovani che sono “tendenziosi” - guai a non seguire le mode! pena l’emarginazione e l’isolamento - le frequentano assiduamente. “Teca”, dal sanscrito thèke che vuol dire “contenitore”, per tanto tempo ha indicato la piccola custodia in cui il sacerdote poneva l’ostia consacrata per recarla a un infermo, prima di morire, con tanto di processione. Era sostantivo. Nel mondo laico, “teca” è un suffisso, più vitale, che ha avuto fortuna, come gustosamente e con vero divertimento si apprende dalle insegne di panino-teche, crèpes-teche, disco-teche, etc.

A Palermo
Quando a Palermo, dove vivo, vedo modernissimi giovani punk bivaccare in gruppi davanti alle enoteche mentre discorrono di musica rock, si scambiano le e-mail e si mostrano i piercing, a me, che sono di paese, vengono in mente quelle che nella civiltà contadina erano le putìe di vino, dimenticata genesi delle cittadine enoteche. Una buona ragione, questa, per evocare la trasformazione di un mondo assieme alle parole che lo designavano.

Putìa
Putìa deriva, presumibilmente, dal francese boutique, ed era una vera e propria bottega per la vendita del vino al dettaglio o taverna sui generis. Le putìe si suddividevano in stagionali ed annuali. Non c’erano insegne, ma si capiva che la putìa era aperta dal mazzo di alloro, dalla bottiglia piena di vino e dalla lampadina accesa penzolanti dall’architrave.

Putìe
Ogni quartiere aveva la sua putìa stagionale, ogni putìa un vino diverso e qualcuna anche delle specialità. Piscialièttu volle aggiungere alle tradizionali insegne una grattuggia arrugginita infìochettata con svolazzanti nastri rossi e puntute corna di bue: secondo una sua personalissima simbologia, voleva dare ad intendere che nella sua putìa si beveva solamente e la Michilina che si era messa in casa era diventata una morigerata signora, ormai.
Le putìe più importanti, aperte tutto l’anno, si trovavano nelle immediate adiacenze della Piazza principale, nel tratto di corso dove aprivano i migliori negozi, avveniva il passeggio e si combinavano gli affari.
Era costume che le comitive di amici andassero a prendere “un bicchiere”. Carrettieri, zolfatai e salinari andavano alla putìa della zza (sta per zia) Narduzza e dello zzi Narduzzu; i rigattieri, cioè i commercianti di muli e asini, da Ancilinu, da don Nenè o alla “Conca d’oro” che fungeva anche da osteria; i contadinii, i muratori, i calzolai, i fabbri, i falegnami i mezzani, i disoccupati, i viziosi del gioco e la categoria degli sfaccendati e mangiapane a tradimento (chiazzalòra) non ne frequentavano una in particolare ma ne “visitavano” diverse fra pomeriggio e sera. “Girare le chiese” o “visitare i sepolcri” si diceva un tale pellegrinaggio, mutuando il detto dall’usanza di entrare in tre chiese diverse il Giovedì Santo per lucrare le sacre indulgenze. I peccatori incalliti più bisognosi di indulgenze se le giravano tutte.



Schitìcchiu
Ci si procurava del lardo di porco, sarde salate comprate da Ticcbitì, provolone da Zammìtu, passulùna (olive nere stagionate) da Marrabbina, un po’ di pane e si andava a fare schitìcchiu. Un dizionario lo spiega così: “Sollazzevole cibarsi in più persone di buon umore, con bibita sia di giorno, sia di sera, o in città o in villa, o per rata o a spesa di uno solo”.
I rigattieri solevano ripartire il conto in quote uguali, i carrettieri invece pagavano alla romana. La bibita era ovviamente vino, qualcuno vi aggiungeva acqua di selz o gazzosa per stemperarlo, chi era “offeso di stomaco” lo “battezzava” con innocente acqua.

La scaglìddra
Oltre ai succitati cibi che costituivano la scaglìddra (letteralmente: scaglietta, qualsiasi cibo rustico senza pretese e in modica quantità, un pretesto per bere), le cibarie che stuzzicavano il palato e l’esofago delle sollazzevoli compagnie erano la quintessenza della cucina siciliana antica, perfino i nomi di quelle pietanze risultano esotici: robba cotta (interiora e lingua di bue, piedi, coda e altre parti di maiale bolliti); ceci neri con giri, molto pepati e conditi con olio d’oliva; sangunazzu (sanguinaccio, vivanda di sangue di porco condito d’aromi, aglio, uva passa e imbudellato con altri ingredienti ancora in grossi rocchi, quasi “boteriani”); ficatu e purmùni (fegato e polmone spezzettati e ben fritti); bbabbalùci (chiocciole, Helis pomatia), iudìsca o scataddrìzzi (lumache, Limax) e muntùna o crastùna (martinacci, Coclea terrestris maxima) preparati con il sughetto, cipolle e patate; bbabbalucièddri (chioccioline, chiocciolette) insaporiti con olio, aglio e prezzemolo; cardùna (cardi, Cynara cardunculus) bolliti o fritti con pastetta. e via prelibando.

Vino, brindisi e schermaglie
I “quartini” o bicchieri di vino, così detti poiché ciascuno misurava un quarto di litro, si susseguivano con incredibile celerità allo scopo di “ammazzare” nello stomaco tutta la roba ingollata. Alla putìa della zza Narduzza voi trovavate patate lesse, uova sode, marsala, vèrmut e petrolio per i lumi domestici: tutti allineati con femminile cura sullo stesso bancone. La Putiàra non mancava di una certa eleganza.
Altri tempi, altra igiene. Altra Allegria.
Si motteggiava. I viddràna ovvero i contadini ai carrettieri:

Quantu va un viddranu ccu na mula 
Cièntu cci nni vuònnu carrittera.
(Quanto vale un contadino con una mula / ce ne vogliono cento di carrettieri.)

I carrettieri in risposta:

E lu viddranu ccu la so grannizza
Si mancia pani ccu la cipuddrazza.
(E il contadino con la sua grandezza / si mangia il pane con la cipollaccia)

Si cantava. Erano strofe di otto, quattro, due versi, inventati lì per lì o tramandati. Passerini gorgheggiava:

A sta picciultèddra cu’ la mungi?
Pensa a lu primu amuri e sempri chianci.
(A questa picciottella chi la munge? / Pensa al primo amore e sempre piange.)

Si brindava. Il vino assurgeva a simbolo di valori sociali condivisi e imponeva regole; quello dei brindisi lo si doveva tracannare fino in fondo scolando i bicchieri fino all’ultima goccia, non lo si poteva rifiutare: lo rifiutò compare Alfio nella Cavalleria rusticana e ne seguì mortale duello.
Il vino nei brindisi era o rosso o bianco e sempre fino. Dopo la rima si tracannava. Un altro brindisi, un’altra bevuta, allegramente. Di frequente il bicchiere troppo colmo, prima di alzarlo con il pollice, l’indice, il medio, l’anulare, addirizzando l’arzillo mignolo a coda di gatto contento, veniva un poco svuotato chinandosi verso di esso, accostando le labbra e sorbendo dall’orlo con risucchio. In tempi di irripetibile e acceso agone politico, fra il dopoguerra e gli Anni Cinquanta, andarono a brindare pittoreschi trascinatori di folle. Capipopolo e codazzi di popolo assommavano alle intemperanzc del vino l’intemperanza della foga politica:

           Ammèci d’acqua acìtu haiu vivutu,         
sugnu sicuru ch‘è vinu guastatu.
Ammèci di biancu, russu vutàmmu
  quantu jàmmu n-culu a lu Cuvernu.
(Invece d’acqua, vino ho bevuto,/ almeno so ch’è vino guastato. / Invece di bianco, rosso votiamo / così in culo al Governo andiamo.)

E giù vino rosso, naturalmente, senza astio o pregiudizio però per il vinello bianco, anticipando di molto le commistioni partiticopolitiche del tempo a venire.
Nel San Giuvanni decullatu di Nino Martoglio, atto secondo, scena quarta, Mastru Austinu spara a raffica “sbrindesi” a rima baciata senza sbagliare un colpo, rivelando abilità e nostrale sense of humor. I Mastri Austini, gli improvvisatori, abbondavano negli schitìcchi di una volta; forse l’alloro posto come insegna davanti alle putìe di vino conferiva, complice l’alcol, scioltezze poetiche e rimaiole.
Così una volta.

Ora
Ora che le putìe di vino sono scomparse e le loro discendenti si chiamano in altro modo, ci si diverte, ci si sfoga, ci si annoia diversamente. Pazienza! se non vengono fuori, quasi come un dono di natura, spumeggianti “sbrindesi” né in rima sciolta né in rima baciata.
Ma perché brindare? Sono subentrati altri linguaggi. Altri convivi. Altri silenzi.
Né per riaccendere antiche allegrie varrebbe porre gli antichi mazzi d’alloro accanto le moderne insegne in plexigas: rischierebbero, quest’ultime, di illuminare parole spente.

Antiquarium di Salemi (TP)

Il testo qui riproposto  è stato già pubblicato, senza la suddivisione in sequenze e con qualche lieve variazione, su:
-       Scuola e Cultura Antimafia”, settembre-Dicembre 2001, a.18, n.3:
http://digilander.libero.it/scuolaxantimafia/index.htm cliccare su EDUCAZIONE ALL'IDENTITÀ;
-       “L’Apollo buongustaio. Almanacco gastronomico per l’anno 2002  ideato da Mario dell’Arco. Nuova Serie”, Roma, novembre 2001, pagg. 28-31;
-       “Lumìe di Sicilia”, n. 45, giugno 2002, pagg. 4-5:
-       Blog “Catrum Racalmuto Domani” dove in coda al post sono riportati alcuni commenti dei lettoria: