Ieri sera sono stato a Montedoro
ad ascoltare il chitarrista Alirio Diaz, venezuelano, discepolo e successore di
Segovia, il più
grande chitarrista del secolo, come recitava il cartoncino-programma che serviva opportunamente da ventaglio. Ha
eseguito brani rari di Lauro, di compositori napoletani e soprattutto rifacimenti di musiche etniche guaranì, cioè paraguayane antiche. Sciolto,
virtuoso, sinuoso, riusciva a creare tensione emotiva tra il pubblico, insomma
una atmosfera che trascendeva il piccolo comune di Montedoro, tanto che veniva
da chiedersi con meraviglia come mai quel grande artista sudamericano fosse
capitato lì.
Davanti a me,
in linea diagonale, le spalle scoperte, abbronzate, invitanti, di una ragazza:
delicatissimi gli omeri, la linea del collo; il ripiego di carne che si formava
sotto l’ascella sinistra risultava sensualissimo, appena alzava un poco il braccio
per gesticolare si intravvedeva in profondità il bordo del reggiseno bucato che premeva e delimitava una
mezza luna chiara.
“In questo periodo storico
confuso e strano”, diceva tra un
brano e l’altro Diaz, mentre
la gente si sventolava, “rifarsi alla tradizione è importante da un punto di
vista musicale, storico, sociale, artistico”. E giù un effluvio incalzante,
dondolante, di note: la chitarra diveniva percussione, liuto, arpa.
Neanche gli
alberi, che delimitavano il terrazzo, fiatavano: non si muoveva foglia. Neanche
le stelle. La ragazza stava tre file davanti a me, di lato, se qualcuno delle
varie sedie mi liberava la visuale, ne vedevo anche i movimenti: muoveva i
capelli, una piramide di riccioli, si
girava sul lato destro. Qualcuno della seconda fila protese la testa in avanti e io non vidi più niente, si ricompose e
m’accorsi che a fianco della ragazza ci stava seduto uno con la barba e la
giacca sportiva, un anello di cattivo gusto al mignolo.
Scrosciarono gli applausi a rompere la tensione che Alirio,
pur anziano, aveva instaurato con la sua energia e leggiadria insieme. Il
pubblico era soddisfatto, chi seduto, chi in piedi.

5
Calogero, il mio amico, patito di musica, che
aveva trovato posto tra le prime file, al termine del concerto, prima che
iniziasse il tramestio di sedie, corse verso di me per sollecitarmi a
richiedere il preziosissimo autografo.
Dissi di sì, dissi di no. Lui mi sollecitò di nuovo. Io ero distratto,
forse un po’ triste. Alzai lo sguardo. Mi voltai per un attimo. Mi ritrovai in
coda per l’autografo quasi spinto dalla gente che premeva da ogni parte. “Dài,
dài”, mi diceva Calogero.
Quando finalmente arrivo vicino al Maestro, scorgo
davanti a me due bretelline trasparenti che aderivano per il sudore alla pelle
di spalle ben disegnate, finissime. Era lei, la ragazza ammirata durante tutto
il concerto, rispuntata d’incanto. Da vicino, i lineamenti erano ancora più
belli.
“Il suo nome?”, chiese il grande Diaz rivolto
proprio a me; glielo
dissi
e lui mi disegnò con ampia voluta della mano un gigantesco autografo,
personalizzato. Appena sollevò la penna indicando con gli occhi che aveva finito,
venni scalzato da cento mani che spingevano e si facevano largo.
Guadagnai
un angolo più sicuro e tranquillo e alzai gli occhi dal cartoncino geroglificato.
Calogero era fiero del raro reperto. “Che hai?”, mi chiese, vedendomi di colpo
triste.
“Niente”, risposi, mentre cercavo
di scorgere tra la folla
quelle bretelle trasparenti sparite nel nulla. “Niente”.
Il
mio amico voleva ad ogni costo sapere...
Racalmuto
(Contrada Serrone), giovedì 26 agosto 1999. Fa
caldo.
Non riesco a prendere sonno. La stanza è infuocata.
Papà
e mamma, sofferenti, dormono al pianterreno. Sono le 4 e
un
quarto di notte e la campagna è ancora buia.
P.S.
Debbo chiedere a Calogero in che data si terrà il prossimo
concerto.