Cosa non si fa per captare poesia! Si deve. E fortunatamente si può quando si è poeti con o senza rima.
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domenica 13 marzo 2016
SI È POETI CON RIMA E SENZA RIMA. A proposito di "Petri senza tempu" di Nino Barone
Cosa non si fa per captare poesia! Si deve. E fortunatamente si può quando si è poeti con o senza rima.
domenica 20 dicembre 2015
"LA DIVINA UMANITÀ" DI LEONE SECONDO SCALABRINO. Recensione augurale
Al piacere di parlare di poesia, della poesia
di un maturo poeta che si approssima all’88esimo compleanno, Marco Scalabrino
aggiunge il piacere di notare analogie e corrispondenze con un altro maturo
poeta dialettale, Pietro Tamburello, ma per trarne impressioni e suggestioni che si
possono ricavare dalla vera poesia a prescindere dalle vicende bio-anagrafiche,
senza tuttavia lasciar cadere
l’occasione per intendere le riflessioni come annuncio di una data
augurale che con questo post si vuole ponderatamente e affettuosamente "celebrare". Non si può non notare nella filigrana della recensione la rivendicazione della dignità e ricchezza storico-semantica del dialetto. P. C.
FRANCESCO
LEONE
La Divina Umanità di l’Arti
di
Marco Scalabrino
Per
singolare affinità, il percorso artistico di Francesco Leone evoca in me quello
di un altro uomo e poeta che (come lui) ho amato e ammirato: Pietro Tamburello.
Nato nel 1910 a Palermo e lì spentosi nel 2001, quantunque avesse avuto un ruolo primario fra i protagonisti della poesia siciliana moderna (della quale è stato una delle voci più schiette), Pietro Tamburello diede alle stampe unicamente due raccolte in tarda età: Li me’ palori e, a distanza di sedici anni, Rosi di Ventu.
All’epoca di Li me’ palori, nel 1982, Tamburello aveva 72 anni e al tempo di Rosi di Ventu, nel 1998, di anni ne aveva ben 88.
Analogamente Francesco Leone da Castellammare del Golfo (TP), classe 1928, oggi alla sua seconda prova, di anni ne compirà a giorni 88 e, alla data di questa pubblicazione (2015), quattordici ne sono trascorsi da ’Na scala longa, la sua antologia d’esordio del 2001, quando di anni ne contava già 73.
Nato nel 1910 a Palermo e lì spentosi nel 2001, quantunque avesse avuto un ruolo primario fra i protagonisti della poesia siciliana moderna (della quale è stato una delle voci più schiette), Pietro Tamburello diede alle stampe unicamente due raccolte in tarda età: Li me’ palori e, a distanza di sedici anni, Rosi di Ventu.
All’epoca di Li me’ palori, nel 1982, Tamburello aveva 72 anni e al tempo di Rosi di Ventu, nel 1998, di anni ne aveva ben 88.
Analogamente Francesco Leone da Castellammare del Golfo (TP), classe 1928, oggi alla sua seconda prova, di anni ne compirà a giorni 88 e, alla data di questa pubblicazione (2015), quattordici ne sono trascorsi da ’Na scala longa, la sua antologia d’esordio del 2001, quando di anni ne contava già 73.
Posta in archivio
questa schematica digressione, il primo mio assaggio dell’opera di Francesco
Leone risale alla metà degli anni Novanta.
Sul numero di gennaio-aprile 1996 del MarranzAtomo, una rivista letteraria edita in Catania, Antonino Magrì direttore, il testo d’apertura (che, per tensione drammatica, lucida compartecipazione emotiva, felice realizzazione linguistica, lessi con vivo consenso) era titolato ‘N coma; autore ne era, giusto, Francesco Leone. Lì lì mi balenò l’idea di prendere carta e penna o di alzare la cornetta del telefono e … ma non ne feci nulla. Il mondo, si sa, è piccolo; e, in Sicilia, le strade di chi professa con assiduità il dialetto sono destinate prima o poi a intersecarsi.
E così, difatti, avvenne.
Sul numero di gennaio-aprile 1996 del MarranzAtomo, una rivista letteraria edita in Catania, Antonino Magrì direttore, il testo d’apertura (che, per tensione drammatica, lucida compartecipazione emotiva, felice realizzazione linguistica, lessi con vivo consenso) era titolato ‘N coma; autore ne era, giusto, Francesco Leone. Lì lì mi balenò l’idea di prendere carta e penna o di alzare la cornetta del telefono e … ma non ne feci nulla. Il mondo, si sa, è piccolo; e, in Sicilia, le strade di chi professa con assiduità il dialetto sono destinate prima o poi a intersecarsi.
E così, difatti, avvenne.
Allorché
venni in possesso della silloge di poesie siciliane ’Na scala longa (circa
settanta testi con traduzione “il più possibile letterale” in italiano) buttai
giù, con l’intento in seguito di rielaborarli, degli appunti. Francesco Leone, considerai,
uomo di Lettere, già Preside nella scuola pubblica, estimatore del folclore, è irrefutabilmente
soggetto dotato degli strumenti linguistici e culturali atti ad enunciare in un
ottimo italiano la propria visione del mondo; ebbene, perché il dialetto?
Quasi avesse percepito la mia sommessa eccezione, nel proemio al suo lavoro, ecco lo stesso Leone tiene a rimarcare che le poesie in esso inserite “sono originariamente concepite così e così è necessario che io le esprima nella loro forma e nel loro contenuto”.
Una scelta, pertanto, inequivocabilmente consapevole!
Quasi avesse percepito la mia sommessa eccezione, nel proemio al suo lavoro, ecco lo stesso Leone tiene a rimarcare che le poesie in esso inserite “sono originariamente concepite così e così è necessario che io le esprima nella loro forma e nel loro contenuto”.
Una scelta, pertanto, inequivocabilmente consapevole!
Ambrogio
Donini d’altronde, nel 1954, ebbe a scrivere a Nino Pino:
“Mi pare che voi poeti dialettali siete l’ultima speranza delle nostre Lettere, nazionalmente impoverite se non essiccate”;
e gli studiosi più avvertiti, ormai da tempo, ribadiscono che “il dialetto non è più portatore di cultura subalterna”;
che “si è innalzato alla ricerca di più vasti orizzonti di pensiero”;
che “non costituisce più una ragione di isolamento”.
E non bastasse (sfatata una volta per tutte l’equazione poesia dialettale = poesia minore), ne La dialettalità negata Edizioni Cofine Roma 2009, di recente Pietro Civitareale ha asserito che “lo scrittore dialettale d’oggi è in genere più evoluto sul piano intellettuale, capace di assorbire nella sua ricerca stimoli e motivazioni legati a una cultura meno circoscritta”;
che il fenomeno dialettale “ha assunto un carattere universale, inquadrandosi nella più generale questione della difesa dei patrimoni culturali autoctoni”;
che non è un caso che “la poesia dialettale stia a mano a mano occupando lo spazio di quella in lingua”.
Basilari, per di più, il suo ribadire che “non è lo strumento linguistico che fa la poesia, ma la capacità creativa del poeta e l’uso che egli è in grado di fare della propria lingua” e (a seguire) che solo “difendendo la propria specificità, la poesia in dialetto può competere con quella in lingua e continuare ad affermare una propria ragione di essere”.
Tutte le superiori notazioni mi pare che mirabilmente si attaglino all’odierna esperienza.
“Mi pare che voi poeti dialettali siete l’ultima speranza delle nostre Lettere, nazionalmente impoverite se non essiccate”;
e gli studiosi più avvertiti, ormai da tempo, ribadiscono che “il dialetto non è più portatore di cultura subalterna”;
che “si è innalzato alla ricerca di più vasti orizzonti di pensiero”;
che “non costituisce più una ragione di isolamento”.
E non bastasse (sfatata una volta per tutte l’equazione poesia dialettale = poesia minore), ne La dialettalità negata Edizioni Cofine Roma 2009, di recente Pietro Civitareale ha asserito che “lo scrittore dialettale d’oggi è in genere più evoluto sul piano intellettuale, capace di assorbire nella sua ricerca stimoli e motivazioni legati a una cultura meno circoscritta”;
che il fenomeno dialettale “ha assunto un carattere universale, inquadrandosi nella più generale questione della difesa dei patrimoni culturali autoctoni”;
che non è un caso che “la poesia dialettale stia a mano a mano occupando lo spazio di quella in lingua”.
Basilari, per di più, il suo ribadire che “non è lo strumento linguistico che fa la poesia, ma la capacità creativa del poeta e l’uso che egli è in grado di fare della propria lingua” e (a seguire) che solo “difendendo la propria specificità, la poesia in dialetto può competere con quella in lingua e continuare ad affermare una propria ragione di essere”.
Tutte le superiori notazioni mi pare che mirabilmente si attaglino all’odierna esperienza.
Un altro
frammento del summenzionato proemio: “numerosi raduni, alla cui realizzazione
ho fornito il mio contributo”, mi fece inoltre soppesare che Francesco Leone (non
solo per i presupposti anagrafici) veniva “da lontano”.
E le conferme (semmai ve ne fosse stato bisogno) puntualmente giunsero, di lì a poco, nel corso di un dopocena estivo, allorché (di poesia e di poeti discorrendo) egli accennò ai propri trascorsi letterari e al sostegno, dagli anni Cinquanta in poi, alla organizzazione, in quel di Castellammare del Golfo, dei tanti concorsi di poesia dialettale, festival della canzone siciliana, raduni poetici ai quali prendevano parte (a conferma dei longevi, saldi, cordiali rapporti fra l’occidente e l’oriente dell’Isola) una cospicua schiera di autori e sostenitori del dialetto siciliano proveniente dal versante orientale della regione (e fra loro, almeno in una circostanza, – Francesco Leone ne fu testimone – il grande Giovanni Formisano) e inevitabilmente saltò fuori il bel nome dello zu Pippinu Caleca, che per parecchi decenni e fino agli inizi degli anni Novanta di quei convivi fu l’anima.
E le conferme (semmai ve ne fosse stato bisogno) puntualmente giunsero, di lì a poco, nel corso di un dopocena estivo, allorché (di poesia e di poeti discorrendo) egli accennò ai propri trascorsi letterari e al sostegno, dagli anni Cinquanta in poi, alla organizzazione, in quel di Castellammare del Golfo, dei tanti concorsi di poesia dialettale, festival della canzone siciliana, raduni poetici ai quali prendevano parte (a conferma dei longevi, saldi, cordiali rapporti fra l’occidente e l’oriente dell’Isola) una cospicua schiera di autori e sostenitori del dialetto siciliano proveniente dal versante orientale della regione (e fra loro, almeno in una circostanza, – Francesco Leone ne fu testimone – il grande Giovanni Formisano) e inevitabilmente saltò fuori il bel nome dello zu Pippinu Caleca, che per parecchi decenni e fino agli inizi degli anni Novanta di quei convivi fu l’anima.
Nella
sua prassi di umanista, egli nondimeno non si preclude l’evenienza di estendere
ad altri territori contigui la propria attenzione. In tempi recenti, fra gli
altri, ha introdotto uno studio sulla figura della poetessa di Salemi (TP) Maria
Favuzza (cogliendovi l’occasione per esortare “gli Organismi che sopraintendono
alla valorizzazione e alla diffusione della cultura italiana – a fianco della
quale non può non occupare il posto che le compete la poesia dialettale – a non
limitarsi ai cosiddetti grandi o ai più fortunati, ma a rendersi fautori della
ricerca di realtà sommerse”) e ha caldeggiato, nella ricorrenza del
quarantennale della morte, l’iniziativa di allestire il convegno di studi sul
poeta suo concittadino Castrenze Navarra (del quale ha curato postuma l’ANTOLOGIA delle opere in versi siciliani e
in prosa).
‘N coma, si diceva, è la poesia tramite la quale conobbi
Francesco Leone. In essa l’episodio che suscitò in me intensa emozione e del
quale serbo tuttora memoria.
Riporto
le testuali parole di Francesco Leone, giacché mai ne potrei trovare di più
acconce: “Il mio compianto fratello Bernardo si priva della camicia e la porge
a me, affinché io la indossi e possa andare a scuola (egli sarebbe rimasto
segregato in casa, al mio posto, in attesa che un’altra camicia, che stava ad
asciugarsi, fosse disponibile).
Si
è trattato – si può credere – del banale prestito di un indumento, ma per me è
stato molto di più, prova ne sia che mi ha profondamente commosso e che non
l’ho mai dimenticato: il vero amore non ha bisogno di atti eroici, si alimenta
di semplici gesti”.
Tanto
concisamente esposto del vissuto di Francesco Leone, premesso che le antecedenti
autografe sue notazioni trovano piena cittadinanza in questo nuovo lavoro, vediamo
adesso di esporre, in una rapida rassegna, qualcuna delle principali
formulazioni ortografiche e sintattiche, di rilevare qualche elemento afferente
alla metrica e al ritmo impiegati, di enucleare e di mettere in risalto qualcheduna
delle dinamiche e delle invenzioni liriche alle quali egli è approdato.
Prima
di addentrarci nell’essenza del libro, non possiamo però non soffermarci sul
titolo.
Composto
da un aggettivo a dir poco impegnativo, che introduce un sostantivo collettivo
altrettanto impegnativo, (La) divina umanità, è in apparenza una
incontrovertibile contraddizione, un eclatante ossimoro.
Ad
eccezione di un solo (notorio in saecula
saeculorum) esempio, come può (ci chiediamo) l’umanità essere divina?
Umanità concerne l’essere uomo, la condizione umana, con riferimento ai caratteri, alle qualità e soprattutto ai limiti inerenti a tale condizione: la fragilità, i difetti, l’imperfezione; divina, per contro, afferisce manifestamente alla sfera del sovrumano, dell’ultraterreno, del soprannaturale; è qualcosa che procede da Dio.
Umanità concerne l’essere uomo, la condizione umana, con riferimento ai caratteri, alle qualità e soprattutto ai limiti inerenti a tale condizione: la fragilità, i difetti, l’imperfezione; divina, per contro, afferisce manifestamente alla sfera del sovrumano, dell’ultraterreno, del soprannaturale; è qualcosa che procede da Dio.
Divina
umanità peraltro, constatiamo, è locuzione assolutamente spendibile in italiano.
Ciò nonostante (ne abbiamo diretta contezza), questo titolo è stato deliberatamente, in tutta coscienza, scelto dall’autore e giusto in esso, nella chiave di lettura di esso, nella compenetrazione e nella accettazione del progetto che esso sorveglia e promuove, è da rinvenire il senso autentico dell’intero florilegio.
Ciò nonostante (ne abbiamo diretta contezza), questo titolo è stato deliberatamente, in tutta coscienza, scelto dall’autore e giusto in esso, nella chiave di lettura di esso, nella compenetrazione e nella accettazione del progetto che esso sorveglia e promuove, è da rinvenire il senso autentico dell’intero florilegio.
L’Arte,
e in seno a essa la Poesia, è un dono di Dio agli uomini, all’umanità tutta;
dono del quale l’uomo si avvale per rivelare, per significare, per certificare il
suo esser-ci nella Storia. Oltre a
ciò da sempre, in una sorta di reciprocità, egli volge a sua volta questo
talento (la parola nel nostro caso, quel verbum
che in principio era solo presso Dio) all’esecuzione di nuova arte in gloria
del Creatore.
Ecco
allora la Poesia eleva (quasi) il figlio all’altezza del Padre; ovvero, per
dirla meglio con le parole dei grandi: “La poesia può condurre l’uomo dallo
stato di natura a quello di spiritualità”, Miguel De Unamumo; “La poesia è l’ala che ci porta verso Dio”, Michelangelo
Buonarroti.
Il
testo di apertura, Labirinti, che contempla
il verso dal quale il titolo discende, è in questo senso emblematico:
A lu pueta ’un ci sèrvinu
porti spalancati:
Icaru
arditu,
cu bàttiti d’ali putenti,
sduna a scalari
immensità di celi.
’Un
è làbili cira chi strinci
li pinni di li so’ ali,
ma la divina umanità di l’Arti
(Al
poeta non servono / porte spalancate: / Icaro ardito, / con battiti d’ali
possenti, / balza a scalare immensità di cieli. / Non è labile cera che stringe
/ le penne delle sue ali, / ma la divina umanità dell’Arte).
Icaro
evade dal labirinto (nel quale, a Creta, era “grazioso ospite” di Minosse), eccede
ossia, con successo, la sua limitatezza umana; ma, eccepisce l’autore, non sono
le caduche ali di cera che lo consegneranno alla storia, alla leggenda,
all’eternità, quanto piuttosto la professione dell’arte esercitata dall’uomo,
corroborata dall’indefesso suo impulso a inseguire (come nella famosa “orazion
picciola”) la via della “virtute e canoscenza”, dall’innato suo sprone a misurarsi
di continuo con i propri limiti e a superarli.
Sessantatre
poesie pressoché tutte ragionevolmente brevi, costituiscono questa raccolta: versi
sciolti in maggioranza, decisamente verticalizzati, e versi in rima, perlopiù
endecasillabi. Vi coesistono serenamente, gradevolmente, compiutamente, giacché
Francesco Leone pratica, da lunga pezza, con valentia e con disinvoltura, sia
il metro tradizionale, sia il metro moderno; e così ambedue i canoni vi si
ritagliano vantaggiosa collocazione. I versi stessi, le locuzioni, le voci delle
quali essi consistono, ci suggeriranno per gradi, generosamente, l’itinerario e
gli assunti da illustrare.
Orbene,
succintamente, lasciando al Lettore facoltà di ogni altra utile considerazione,
inoltriamoci!
La luna … mi turnau
echi di picciuttanza …
l’età ncantata di li primi suspiri …
Parramu ncuttu
di anni longhi vulati nta un ciatu,
di gioi ntraminzati di duluri;
di cosi fatti e nun fatti,
circati e ’un truvati,
truvati a jettitu senza circari;
di puisia chi ’un sapi chiù la strata
(La
luna … mi rimandò / echi di adolescenza … l’età incantata dei primi sospiri … Parlammo
fitto / di anni lunghi passati d’un fiato, / di gioie inframmezzate di dolori;
/ di cose fatte e non fatte, / cercate e non trovate, / trovate a iosa senza
cercare; / di poesia che non sa più la strada);
Tu sinfunia,
chi fai di pòviri scàmpuli
ntraminzati di lacrimi
lu megghiu tempu di la vita mia
(Tu
sinfonia, / che fai di poveri scampoli / inframmezzati di lacrime / il migliore
tempo della vita mia);
Sfògghiu
nna l’occhi toi cristallini
ncantisimi d’un libbru
chi nuddu liggìu
(Sfoglio / negli occhi tuoi cristallini / incantesimi d’un libro / che
nessuno lesse mai);
Spaziu e tempu
àutra cosa si fannu
tra tia e mia
(Spazio e tempo / altra cosa si fanno / tra te e me);
Disideri appagati cu stiddi,
comu chiddi
chi ora vulissi nchiùiri pi tia
dintra un velu di fantasia.
(Desideri appagati con stelle, / come quelle / che ora vorrei rinchiudere per te / dentro un velo di fantasia).
Sono solo sparute schegge della diffusa liricità che contrassegna tutta la silloge, nella quale rivestono un ruolo preminente la Natura e il Creato: luna, ventu, àrvuli, nùvuli e timpesti, focu e suli, celu, terra e mari, stiddi, in quanto tali e soprattutto in quanto emanazione, espressione, rivelazione tangibile della esistenza di Dio.
Ragguardevole
il dovizioso nostro repertorio lessicale,
patrimonio linguistico dalle antiche e nobili radici, del quale Francesco Leone
dà riprova di prodigiosa conoscenza e padronanza:
ammàtula (invano), dall’arabo bāṭil, inutile;
cannavazzu (straccio);
strippi (sterili), dal latino exstirpus, senza stirpe;
bùmmulu (brocca), dal greco bombùlē, vaso dal collo stretto;
scattìu (caldo afoso);
lavuri (seminato), dal latino laborem, fatica;
racioppi (racimoli);
rastu (indizio);
carcarìa (gorgoglia);
làriu (brutto);
assammarati (fradice);
trùbbula (torbida), dal latino turbĭdus (torbido);
visitusi (luttuose);
mpustimati (infistolite);
vavareddi (pupille);
squarata (scondita);
cumeta (aquilone);
marredda (gomitolo);
scudduriava (srotolava);
pirciàvanu (bucavano);
scorciadicoddu (scappellotto);
gana (voglia);
balati (lapidi), dall’arabo balāṭh, lastricato;
pinnulara (ciglia), dal
latino pinnŭla, piccola ala;
acquazzina (rugiada), dal latino aquaceus, acquoso;
tannu (allora);
nsiccumata (rinsecchita);
mantaciari (ansimare), dal latino mantĭca (bisaccia);
ntamatu (imbambolato, sbalordito), dal greco thamèō, stupirsi, spaventarsi;
sbòmmica (rigurgita);
ngràscianu (insudiciano), dal latino crassus, grasso;
zurrichii (stridori);
trìvuli (tribolazioni), dal greco trìbolos, cespuglio spinoso;
scrùsciu (fragore);
scaccanìa (sghignazza), dal greco kakhàzó, ridere sgangheratamente.
Iu, iù, èu, iè, ièu, iò,
sono fra le tipologie censite in Sicilia per rendere il pronome personale “io” e
ognuna di esse Giorgio Piccitto, Giovanni Tropea, Salvatore C. Trovato, e il
loro monumentale Vocabolario Siciliano,
hanno attribuito a un determinato distretto geografico.
Leone non cede a tentennamenti; la sua formulazione è la castellammarese eu: eu, tu e l’àutri; eu ni cugghivi; eu ’n silenziu.
Leone non cede a tentennamenti; la sua formulazione è la castellammarese eu: eu, tu e l’àutri; eu ni cugghivi; eu ’n silenziu.
Otto
endecasillabi, i primi sei a rima alternata e gli ultimi due a rima baciata,
con schema strofico abababcc, organizzano
il testo A cu’ si la senti, uno strambotto.
Di
otto endecasillabi, tutti a rima alternata con schema abababab, consta invece l’ottava siciliana, che dà luogo a L’amici e Fratillanza (questo a mo’ di botta e risposta, esercizio assai
comune in passato).
Sonetto
è, viceversa, Casuzza a mari, che
d’impatto, per l’ambientazione, propendiamo ad accostare a Giovanni Formisano,
del quale Leone è stato fervente estimatore. Il “breve e amplissimo carme”, inventato
da Iacopo da Lentini nella prima metà del Duecento e universalmente conosciuto
e adottato, contrariamente a quanto avviene in altri circondari letterari, è tutt’oggi
in voga nel panorama della poesia dialettale siciliana e l’endecasillabo, La Spiranza è na porta sempri aperta, Supra ogni cosa dòmina l’Amuri, E cu la menti ripigghiu a sunnari, ne è il
verso per antonomasia.
In
argomento, registriamo, Amuri a la
vinnigna è una canzuna, genere (alquanto
diffuso nell’ambito della produzione letteraria dialettale siciliana) del quale
Antonio Veneziano incarnò l’interprete più squisito.
Il
corteggiamento durante la vendemmia: Turi
ci fa l’amuri, idda lu sdegnu
(Turi le fa l’amore, lei lo sdegno), motivo caro al costume popolare, vi rimbalza
(fra le martellanti avances di lui,
Turi, e il “sostenuto” sdegno di lei, Rosa), per sfociare, come consuetudine,
nel “fatale” epilogo: la resa di lei per l’abilità di lui di blandirla.
Il
testo si articola in tre segmenti più una chiusura: ognuno di essi si struttura
in due quartine di endecasillabi, per la strofa, seguite da due quartine
composte da due quinari che racchiudono due endecasillabi, per il ritornello;
la voce narrante esegue le due quartine di endecasillabi della strofa mentre
lui e lei si alternano, ciascuno di loro intonando il ritornello.
La
frazione più rimarchevole risulta quella dei ritornelli, i quali denotano di
volta in volta, sulle solide basi dell’ortodossia, la rigogliosa creatività del
poeta.
Eccettuati,
tuttavia, esigui canonici sonetti e ottave (fra queste La notti di li pueti), il verso libero la fa da padrone in
Francesco Leone e in esso (e in tutto il volume invero) l’ortografia palesa
cura, pulizia e coerenza impareggiabili.
Puisia,
dunami palori vecchi e novi
pi cantari oji e sempri.
Poesia
è lemma e assunto frequente in Leone, ti
parru cu la rima e cu lu versu (ti parlo con la rima e con il verso), e ad
essa il poeta direttamente si rivolge, implorandola di concedergli ancora
parole, di rimanere con lui,
ccà dunni tuttu spira puisia
(qua
dove tutto spira poesia),
e devotamente
dedicandole un intero testo: Ti chiamu.
Oramai
picca pozzu chiù dari
picca pozzu chiù dari
supra sta terra
(Ormai
/ poco posso più dare / su questa terra);
Quattru cuti m’arrestanu
a muntata:
e sugnu
juntu
(Quattro
sassi mi restano / in salita: / e sarò giunto);
A la me casa vàiu,
lu jardinu splinnenti di lu Patri
(A
casa mia vado, / il giardino splendente del Padre).
Un atteggiamento
meditativo, un’aura di malinconia, uno stadio nel quale attecchiscono
sintimenti
straviati:
gana di mòriri,
scantu di campari
(sentimenti
stravolti: / voglia di morire, / paura di vivere),
perché
lu tempu marpiuni
si rusicàu la strata
(il
tempo marpione / si rosicchiò la strada).
E nondimeno,
laddove egli solo un attimo si ferma a redigere il rendiconto della sua vita,
malgrado tutto,
la valanza abbucca di stu latu
(la
bilancia pende da questa parte),
egli
ne valuta il saldo soddisfacentemente attivo:
supra sta terra,
appi assai
e nun sacciu picchì
(su
questa terra, / ebbi assai / e non so perché).
Amuri è l’eterna palora (Amore è l’eterna parola);
amuri chi nun speddi (amore che non cessa);
veru amuri è eternità (vero amore è eternità).
È proiezione
eccelsa dell’amore, quella vagheggiata da Francesco Leone.
L’amore vero è quello dei sentimenti, quello che unisce due anime per sempre e si contrappone e ripudia quell’altro, l’amore dei sensi, quello tutto fuochi d’artificio e cenere.
L’Amore, con la “A” maiuscola, non ha altre ricette, prescrizioni o espedienti; esso è alimentato dalla luce radiosa di Dio e da Lui proviene e riconduce.
E, sovente, si accompagna alla pace:
L’amore vero è quello dei sentimenti, quello che unisce due anime per sempre e si contrappone e ripudia quell’altro, l’amore dei sensi, quello tutto fuochi d’artificio e cenere.
L’Amore, con la “A” maiuscola, non ha altre ricette, prescrizioni o espedienti; esso è alimentato dalla luce radiosa di Dio e da Lui proviene e riconduce.
E, sovente, si accompagna alla pace:
disìu di paci e amuri;
pi cantari paci e amuri;
stu munnu
senza paci né amuri.
Tanti
i lodevoli testi ricompresi nel florilegio e fra essi (amiamo ricordare): Lu megghiu tempu, magico scorcio familiare; Tra tia e mia, pregevolissima trama d’amore; Chi po’ sapiri?, delicata elegia a tutti
gli anziani.
Con
Sempri tu siamo al commiato.
Esso porta a compimento un ideale percorso anulare; non a caso Francesco Leone apre la silloge con (l’arte e) la poesia e la chiude (quantunque, in una lettura ugualmente attendibile, potrebbe intendersi riferito a qualcosa di più concreto: l’amore coniugale) con la poesia.
Il nono verso: mai sculurutu ed appassutu mai, offre una ulteriore preziosità: il chiasmo (dal greco chiasmós), figura retorica consistente nell’esporre due o più parole, concetti o elementi sintattici nell’ordine inverso o antitetico a quello in cui sono stati precedentemente esposti; la disposizione così ottenuta dà origine a una struttura incrociata, come suggerisce l’etimologia del termine.
Esso porta a compimento un ideale percorso anulare; non a caso Francesco Leone apre la silloge con (l’arte e) la poesia e la chiude (quantunque, in una lettura ugualmente attendibile, potrebbe intendersi riferito a qualcosa di più concreto: l’amore coniugale) con la poesia.
Il nono verso: mai sculurutu ed appassutu mai, offre una ulteriore preziosità: il chiasmo (dal greco chiasmós), figura retorica consistente nell’esporre due o più parole, concetti o elementi sintattici nell’ordine inverso o antitetico a quello in cui sono stati precedentemente esposti; la disposizione così ottenuta dà origine a una struttura incrociata, come suggerisce l’etimologia del termine.
Ci
sarebbero ancora fondati motivi per attardarci, ma è d’uopo volgere alla
conclusione.
La
poesia di Francesco Leone scaturisce in virtù della personale indole e della
educazione ricevuta, del rigetto incondizionato della guerra e dell’anelito
alla pace, del credo spirituale e della laica professione di fede osservati, nonché
della piena partecipazione ai sentimenti, alle emozioni, alle passioni
dell’uomo: l’amore in primis, nelle
sue dominanti declinazioni, la familiare e la coniugale.
Francesco
Leone dimostra di avere una concezione seria della poesia, un calibrato senso
estetico, una aspirazione ai valori assoluti.
Scenario dei suoi percorsi poetici, nell’individuazione di immagini pregne di efficacia semantica, di essenzialità aggettivale, di limpidezza, è un compendio di coefficienti biografici, affettivi, religiosi, di esperienze esistenziali e vicende sociali, di attenzione agli “ultimi”.
Scenario dei suoi percorsi poetici, nell’individuazione di immagini pregne di efficacia semantica, di essenzialità aggettivale, di limpidezza, è un compendio di coefficienti biografici, affettivi, religiosi, di esperienze esistenziali e vicende sociali, di attenzione agli “ultimi”.
Nell’appagante
abbraccio al dialetto, nel genuino registro musicale, i suoi versi si
amalgamano in guisa congruente alle questioni focalizzate e dispiegano fili di spiranza, firi e amuri p’arrivari a
Diu.
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Recensione e foto di Marco Scalabrino
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Recensione e foto di Marco Scalabrino
sabato 14 novembre 2015
GIOVANNI MELI IL POETA, ANCHE PER GLI AMERICANI. Il libro di Marco Scalabrino per il bicentenario
Marco Scalabrino lo fa meritevolmente a suo modo,
con un libro
edito da una casa editrice che si propone di valorizzare il nostro patrimonio poetico e linguisitico.
Qui, si ripropone il suggestivo capitolo del Meli "americano"
che per molti sarà una piacevole sorpresa.
Per gentile concessione dell'Autore e dell'Editore.
La fortuna americana di Giovanni Meli
di Marco
Scalabrino
Ebbe pronta e larga fama in Sicilia Giovanni Meli e
fu ben conosciuto e apprezzato in Italia e in Europa; la sua fortuna americana,
viceversa, è storia recente.
L’organizzazione culturale statunitense Arba
Sicula, nel corso degli ultimi 35 anni, ha dedicato ogni sua energia alla
promozione della lingua e della cultura siciliane nel mondo; Gaetano Cipolla è
l’anima di Arba Sicula. Già Professore di Lingua e Letteratura Italiana
presso varie università americane (la St. John’s University di New York per
ultima), Presidente dell’Associazione U.S.A. “Casa Sicilia”, della
organizzazione culturale Arba Sicula nonché Direttore della omonima
rivista bilingue (che ospita articoli in inglese e in siciliano) e del
periodico Sicilia Parra, Ambasciatore culturale della Regione Sicilia
nel mondo, vincitore di prestigiosi premi inclusi il “Talamone”, il “Thrinacria
d’argento” e il “Proserpina”, organizzatore di conferenze e convegni su
contenuti siciliani, animatore culturale, organizzatore di tour annuali nella
sua isola d’origine, traduttore in inglese di parecchi poeti siciliani e fra
loro:
Nino Martoglio, Giovanni Meli, Antonio Veneziano, Nino Provenzano, Vincenzo Ancona, Senzio Mazza, Salvatore Di Marco, Nino De Vita e Piero Carbone, malgrado sia nato in Sicilia nel 1937 e sia emigrato negli Stati Uniti d’America nel 1955, prima del 1980 Gaetano Cipolla non aveva scritto una sola parola sulla Sicilia, né si era mai dedicato allo studio della lingua e della cultura siciliane.
Nino Martoglio, Giovanni Meli, Antonio Veneziano, Nino Provenzano, Vincenzo Ancona, Senzio Mazza, Salvatore Di Marco, Nino De Vita e Piero Carbone, malgrado sia nato in Sicilia nel 1937 e sia emigrato negli Stati Uniti d’America nel 1955, prima del 1980 Gaetano Cipolla non aveva scritto una sola parola sulla Sicilia, né si era mai dedicato allo studio della lingua e della cultura siciliane.
Attorno al 1980, gli capitò di conoscere un gruppo
di persone che aveva fondato Arba Sicula, lesse il famoso poema Ucchiuzzi
niuri di Giovanni Meli e avvertì una indescrivibile emozione. Questo
episodio gli fece comprendere lo spessore delle sue radici, il cui richiamo da
allora non poté più ignorare, e da lì iniziò a dedicare sempre più tempo allo
studio della poesia siciliana.
Scandagliò così ambiti che eccedevano il suo ruolo di professore di italiano: non essendo un traduttore, imparò a tradurre; non essendo un linguista, fece degli studi critici sul linguaggio siciliano; non essendo un sociologo o uno storico, esaminò le tradizioni e la storia siciliane.
E cosa ben più rimarchevole, nel cercare di definire i Siciliani e l’essenza del popolo siciliano, dovette interrogarsi su se stesso, dovette fare i conti con la propria identità, riuscendo, alfine, a superare i suoi pregiudizi nei confronti del dialetto.
Scandagliò così ambiti che eccedevano il suo ruolo di professore di italiano: non essendo un traduttore, imparò a tradurre; non essendo un linguista, fece degli studi critici sul linguaggio siciliano; non essendo un sociologo o uno storico, esaminò le tradizioni e la storia siciliane.
E cosa ben più rimarchevole, nel cercare di definire i Siciliani e l’essenza del popolo siciliano, dovette interrogarsi su se stesso, dovette fare i conti con la propria identità, riuscendo, alfine, a superare i suoi pregiudizi nei confronti del dialetto.
Di Giovanni Meli, Gaetano Cipolla ha tradotto in versi inglesi e
pubblicato (oltre a L’origini di lu munnu, The origins of the World,
nel 1985) Moral Fables and other poems, nel 1988 e poi nel 1995, e Don
Chisciotti and Sanciu Panza, nel 1986 e in una versione riveduta nel 2002.
Scritti in inglese (è convinzione di Gaetano Cipolla che molti degli autori siciliani meriterebbero di essere meglio conosciuti sia nella loro terra che nel mondo), questi libri sono l’ennesima lampante prova del suo interesse e della sua passione nei confronti della cultura e della lingua siciliane.
Scritti in inglese (è convinzione di Gaetano Cipolla che molti degli autori siciliani meriterebbero di essere meglio conosciuti sia nella loro terra che nel mondo), questi libri sono l’ennesima lampante prova del suo interesse e della sua passione nei confronti della cultura e della lingua siciliane.
Prima di cimentarsi nella traduzione del Don Chisciotti and Sanciu
Panza e delle Moral Fables, Gaetano Cipolla traccia un essenziale excursus
della figura, della vita e delle opere del Meli.
Giovanni Meli (mutua egli da Agostino Gallo) era umile e affabile e generoso
con i suoi amici e con tutti. Era dotato di una fervida immaginazione e questa
virtù, che egli usava per rifugiarsi nel mondo della poesia, gli permetteva di
accettare le difficoltà della vita; i suoi versi, persino i più amari, gli
sortivano un effetto catartico e la sua musa era un porto sicuro per la sua
vela sballottata dalla tempesta. La stagione più felice della sua vita, un
periodo di grandi successi, onori e amori, ebbe inizio allorché da Cinisi egli
fece ritorno a Palermo.
Già famoso, divenne il favorito della aristocrazia palermitana e la nobiltà e le belle dame gareggiavano per averlo ospite alle loro feste.
La sua consumata arte e la padronanza assoluta del mezzo linguistico contribuirono alla creazione di molte delicate, erotiche odi del suo tempo, nelle quali, in rarefatte atmosfere di sospiri e di trattenuta sensualità, di parole più sussurrate che dette, il poeta celebra varie parti del corpo dell’amata. Esemplare della maestria del Meli, al cui linguaggio l’uso dei diminutivi e dei vezzeggiativi e di un variegato campionario di rime infusero nuovi smalto e delicatezza, fu l’ode Lu labbru:
Già famoso, divenne il favorito della aristocrazia palermitana e la nobiltà e le belle dame gareggiavano per averlo ospite alle loro feste.
La sua consumata arte e la padronanza assoluta del mezzo linguistico contribuirono alla creazione di molte delicate, erotiche odi del suo tempo, nelle quali, in rarefatte atmosfere di sospiri e di trattenuta sensualità, di parole più sussurrate che dette, il poeta celebra varie parti del corpo dell’amata. Esemplare della maestria del Meli, al cui linguaggio l’uso dei diminutivi e dei vezzeggiativi e di un variegato campionario di rime infusero nuovi smalto e delicatezza, fu l’ode Lu labbru:
Dimmi, dimmi, apuzza nica
Unni vai cussì matinu?
Nun c’è cima chi arrussica
Di lu munti a nui vicinu.
Tell me, tell me buzzing bee,
what so early do you
seek?
There’s no redness
yet appearing
on the nearby
mountain peak.
Parimenti famose L’occhi, ispiratagli da Lucia Mogliaccio,
duchessa di Floridia, con la quale probabilmente il Meli ebbe un romantico
interludio:
Ucchiuzzi niuri,
Si taliati,
Faciti cadiri
Casi e citati;
Jeu muru debuli
Di petri e taju,
Cunsidiratilu,
Si allura caju!
Black loving eyes,
if you look coy,
houses and cities
you will destroy.
I’m but a wall
of stone and sand,
if I should crumble
please understand!
e La vucca:
Ssi capiddi e biunni trizzi
Su' jardini di biddizzi,
Cussì vaghi, cussì rari,
Chi li pari nun ci su'.
Ma la vucca cu li fini
Soi dintuzzi alabastrini,
Trizzi d’oru, chi abbagghiati,
Pirdonati, è bedda chiù.
Oh, those braids of golden hair
are a garden sweet
and fair,
they’re so
beauteous and rare
none comparison
will dare.
But the mouth with
eburnine
pearly teeth so
neat, so fine,
golden braids that
all outshine,
please don’t mind, ‘tis more divine.
Poesie come queste, la cui validità risiede nella valentia tecnica del
poeta, nella musicalità del ritmo, nell’allusività del messaggio,
nell’apparente semplicità del linguaggio che porta invece il peso di una lunga
tradizione letteraria, sono una vera sfida per ogni traduttore.
Nel processo di rinnovamento della cultura siciliana del Settecento
(puntualizza Gaetano Cipolla), il nesso più solido tra la cultura siciliana e
quella europea fu il Meli; e questo il traduttore del Don Chisciotti and
Sanciu Panza lo dimostra, con la perizia dello studioso zelante, attraverso
un’analisi accurata di varie opere del Meli, dalla Fata Galanti alle Origini
di lu munnu, dalla Buccolica alle Elegie, dalle Favuli
murali al Don Chisciotti.
“La ricerca di un più vivido mezzo linguistico con il quale dare
espressione al suo mondo interiore culminò – egli rileva – nella Fata
Galanti, un poema bernesco in otto canti, scritto in ottave e ispirato all’Orlando
Furioso di Ludovico Ariosto. Molti dei tratti del Meli sono contenuti in
questo poema: la sua attitudine per la satira filosofica e letteraria, la sua
attenzione verso i problemi sociali, la sua personale aspirazione a una vita di
pace e di tranquillità in seno alla natura, la sua vocazione alle scene
idilliache e bucoliche”.
Il Don Chisciotti and Sanciu Panza di Gaetano Cipolla, Edizioni
Legas, New York 2002, si apre con una estesa e pregevole introduzione dello
stesso traduttore, che mira a inquadrare il Meli e le sue opere nell’ambiente
storico, culturale e sociale del Settecento; segue la traduzione del Don
Chisciotti e Sanciu Panza, opera definita “the meeting point between the
principles of the Enlightenment and the ideals of a deeply conservative
society” (il punto d’incontro fra i principi dell’Illuminismo e gli ideali di
una società profondamente conservatrice).
Oltre ai 12 canti che compongono il poema, Cipolla traduce altresì La Visioni, 56 ottave scritte tra il 1813 e il 1814, aggiunte dal poeta palermitano nell’edizione del 1814, come una sorta di esegesi atta a chiarirne gli scopi e lo spirito.
Oltre ai 12 canti che compongono il poema, Cipolla traduce altresì La Visioni, 56 ottave scritte tra il 1813 e il 1814, aggiunte dal poeta palermitano nell’edizione del 1814, come una sorta di esegesi atta a chiarirne gli scopi e lo spirito.
Nelle pagine introduttive, Gaetano Cipolla entra nel vivo della
cosiddetta polemica gentiliana, nell’ambito della quale si schiera egli
decisamente accanto al Santangelo e al Titone, osservando che “modern research
has proved conclusively that Sicily, especially during the second half of the
18th century, was not the backward island completely cut off from civilization
that thinkers such a Giovanni Gentile had supposed it was” (la moderna ricerca
ha definitivamente provato che la Sicilia, specialmente durante la seconda metà
del 18esimo secolo, non era l’isola arretrata, completamente tagliata fuori
dalla civilizzazione, che taluni pensatori come Giovanni Gentile pensavano che
fosse). Se da una parte (commenta Salvatore Bancheri) “conveniamo con Cipolla
che la Sicilia del secolo diciottesimo non era né arretrata né sequestrata da
ogni relazione col resto del mondo, nemmeno era però una piccola Francia
illuministica; dall’altra ci sentiamo in dovere di fare una apologia del
Gentile e del suo Il tramonto della cultura siciliana, lo scritto in cui
viene usata la tanto bistrattata espressione “Sicilia sequestrata”.
È criticamente non corretto isolare questo giudizio del filosofo
castelvetranese dal contenuto complessivo del libro, in quanto egli stesso, più
avanti nell’opera, riconosce l’apertura dei Siciliani alla cultura europea: la
Sicilia, osserva il Gentile, non era rimasta chiusa, come qualche volta s’è
detto, alle idee che venivano d’oltralpe e sia Rousseau che Voltaire erano a
Palermo, presso l’aristocrazia, letture di moda verso la fine del Settecento.
In tal modo il parere negativo del Gentile viene mitigato tanto da
rendere vana la polemica, giacché entrambe le fazioni, ancorché da angolazioni
diverse, approdano alle medesime conclusioni: i gentiliani fanno delle
concessioni che ne suggeriscono un legame con il resto della cultura europea;
il partito degli oppositori ne ammette la refrattarietà in taluni settori.
La figura del Meli che fuoriesce dall’introduzione del Cipolla è quella
di un Meli europeo, un letterato i cui interessi e intenti culturali non furono
esclusivamente di natura regionale, ma ben rappresentarono il clima
intellettuale europeo.
Risulta interessante il raffronto tra il Don Chisciotti e Sanciu
Panza meliano e il Don Quijote del Cervantes. Le due opere, scrive
il Cipolla, “must not be seen as an original and an imitation, but rather as
two different manifestations of the same archetype” (non devono essere viste
come un originale e una imitazione, ma piuttosto come due differenti
manifestazioni dello stesso archetipo).
Gaetano Cipolla considera la sua traduzione un atto di stima nei
confronti del Meli e in particolare del Don Chisciotti e Sanciu Panza,
un poema che è un microcosmo della produzione meliana, “a poem that reflects,
perhaps more fully than any other of his works, the author’s personality and
the conflict of his time” (un poema che rispecchia, forse più pienamente di
ogni altro suo lavoro, la personalità poliedrica dell’autore e le
contraddizioni del suo tempo).
Esso difatti può essere, ed è stato, esaminato come documento storico
che incarna la relazione dinamica fra le idee dell’Illuminismo e gli ideali
conservatori della società siciliana; come una nota sui costumi e sulle
tradizioni di una società che fino a tempi recenti non era cambiata in maniera
apprezzabile; come un significativo momento nella lotta fra le classi sociali;
e come opera letteraria di considerevole portata nel solco di una tradizione
con salde radici nello spirito italiano, il quale ha prodotto poeti del calibro
di Ludovico Ariosto, Alessandro Tassoni e Francesco Berni (verso i quali lo
stesso Meli riconosce i suoi debiti).
“In a microcosm”, il Don Chisciotti riproduce anche “the
linguistic physiognomy of the poet” (in un microcosmo … la fisionomia
linguistica del poeta): una lingua che sfugge a ogni tentativo di
categorizzazione, ma le cui componenti essenziali sono la lingua letteraria
italiana, mediata attraverso la tradizione arcadica, e il siciliano.
Nella versione inglese, Cipolla riprende le molteplici interrelazioni tra queste due componenti della lingua meliana tramite l’uso accorto di forme arcaiche o gergali e il contrasto fra linguaggio elevato e linguaggio popolare.
Nella versione inglese, Cipolla riprende le molteplici interrelazioni tra queste due componenti della lingua meliana tramite l’uso accorto di forme arcaiche o gergali e il contrasto fra linguaggio elevato e linguaggio popolare.
Con deliziosa illustrazione di copertina (un piano medio di Don
Chisciotti, lancia in resta) ad opera di Giuseppe Vesco, il lavoro di
Gaetano Cipolla, che consta di oltre trecento pagine e presenta uno accanto
all’altra il testo siciliano e la versione inglese, è magistrale e mostra la
grande perizia del traduttore sia nel rendere l’agilità e le sfumature del
verso meliano sia nel volgere il pensiero del poeta palermitano.
La traduzione del Cipolla acquista vieppiù valore grazie al pregevole
saggio introduttivo che correda il volume, nonché all’ampio e intrigante
repertorio di note al testo, a carattere critico ed esplicativo, e alla nutrita
bibliografia che vi sono incorporati. Joseph Tusiani, nel suo commento apparso
su un quotidiano nordamericano, definisce il lavoro del Cipolla una “impresa
non lieve” nella quale il “sensibile e scaltrito traduttore sostituisce
all’endecasillabo dell’ottava siciliana il pentametro giambico inglese e ci
offre una traduzione scorrevole, agile e viva, fedele allo spirito del dialetto
siciliano e all’incantesimo del testo originale”.
L’inventiva del Meli, l’abilità di catturare l’interesse sulle avventure
del suo Don Chisciotti e Sanciu Panza, la freschezza del linguaggio, la
sottile ironia, la vividezza delle descrizioni della natura siciliana, la
saggezza del filosofo naturale e il tipico scetticismo si sono rivelati, invero,
assai consoni all’animo di Gaetano Cipolla.
Perché, nondimeno, si interroga egli, il Meli scelse i due caratteri di Don
Chisciotti and Sanciu Panza? Quando concepì il suo ambizioso progetto
(assevera Cipolla) Meli era conscio dei rischi insiti in quella sua scelta;
sapeva bene che il suo lavoro sarebbe stato giudicato dalla prospettiva del
capolavoro del Cervantes.
Quei critici, però, (insiste Cipolla) che hanno valutato il Don
Chisciotte siciliano attraverso il suo omologo spagnolo, che hanno guardato a
lui come a una mera continuazione del Don Quijote, non hanno affatto
compreso gli intenti del Meli e non gli hanno reso un buon servizio.
Il cavaliere siciliano aveva le medesime fattezze del suo predecessore
spagnolo e tuttavia viveva in un’epoca differente e parlava una lingua
differente; venne inoltre concepito in maniera differente e aveva differenti
propositi da perseguire. Il carattere di Sancho Panza, viceversa, venne
sottoposto a una metamorfosi maggiore, la più evidente manifestazione della quale
fu la sua elevazione al rango del suo principale.
Il poema siciliano è intitolato (annota con perspicacia Cipolla) Don
Chisciotti e Sanciu Panza; il romanzo spagnolo El ingenioso hidalgo Don
Quijote de la Mancha, il nome di Sancho non vi appariva. Questo spostamento
di enfasi (osserva il traduttore) è in realtà ben più importante di quanto, di
primo acchito, possa apparire.
Sicché i due lavori, si è detto, non devono essere visti come un originale e una imitazione, ma piuttosto come due differenti manifestazioni dello stesso archetipo. Don Quijote e Sancho Panza costituiscono, in effetti, una coppia di archetipo, una inseparabile e separata unione di opposti: Don Quijote non può esistere da solo.
Noi siamo stati abituati a pensare a Sancho Panza come a una estensione di Don Quijote, a una appendice, a un personaggio complementare; ma, mentre nel poema del Cervantes Sancho occupa una posizione subordinata, intellettualmente e socialmente, rispetto a Don Quijote, nel poema del Meli Sanciu ne diviene il fulcro, assurge al ruolo di protagonista.
Sicché i due lavori, si è detto, non devono essere visti come un originale e una imitazione, ma piuttosto come due differenti manifestazioni dello stesso archetipo. Don Quijote e Sancho Panza costituiscono, in effetti, una coppia di archetipo, una inseparabile e separata unione di opposti: Don Quijote non può esistere da solo.
Noi siamo stati abituati a pensare a Sancho Panza come a una estensione di Don Quijote, a una appendice, a un personaggio complementare; ma, mentre nel poema del Cervantes Sancho occupa una posizione subordinata, intellettualmente e socialmente, rispetto a Don Quijote, nel poema del Meli Sanciu ne diviene il fulcro, assurge al ruolo di protagonista.
Ma è tempo, adesso, di venire al concreto della traduzione, riservandoci
di integrare la stessa, di volta in volta, con le osservazioni del caso.
In tutto il corso della sua esistenza, e in quest’opera, Meli esalta la
saggezza del senso comune, l’approccio mediano alla vita. Nel Canto III, Ottava
5, egli parla a tale riguardo attraverso Don Chisciotti:
Chiù chi si voli, chiù si pati, amici.
Lu riccu stissu, si la brigghia cedi
A li proprii disii, oh chi
cuntrastu!
Martiriu ci addiventa lu so fastu.
The more you want, the more you suffer, friends.
And if the rich
themselves gave a free rein
to their desires, what conflict there would be!
Their pomp would
soon become sheer agony.
Il sottotitolo, “poema eroi-comicu”, palesa chiaramente le intenzioni
dell’autore, quelle, ovverosia, di scrivere un lavoro che combini le modalità
dell’epico e del comico. Il Don Chisciotti e Sanciu Panza, sottolinea
Cipolla, è umoristico nel senso pirandelliano, come la rappresentazione, cioè,
del “sentimento del contrario”. Meli invera in se stesso la figura di Giano;
ognuno dei due eroi è l’incarnazione di opposte tendenze, contiene in sé il
proprio contrario, mostra l’altra faccia della medaglia. Sanciu descrive
Don Chisciotti nel Canto V, Ottava 28:
Cu tuttu ciò patìa d’un certu mali
Ch’essennu ‘n terra si cridìa a li celi;
Mendicu, si crideva un signurazzu;
Dijunu saziu, ‘nsumma era un gran pazzu.
A certain malady
possessed him, though:
being on earth, he thought he was in heaven;
being a beggar he
believed he was a lord;
non having eaten, full. In short: out of his
gourd!
La componente empirica della personalità del Meli fu impersonata da Sanciu,
l’uomo che si curò solo di quello che era il tempo presente, che credette
unicamente a ciò che vide con i propri occhi e toccò con le proprie mani. Sanciu,
il pragmatico, l’uomo che si atteneva ai fatti piuttosto che ai principi, era
personalità più congeniale al Meli di quanto lo fosse, invece, quella del suo
padrone.
È questa la ragione per la quale il Meli enfatizzò il carattere di Sanciu, facendo di lui un eroe e ascrivendo a lui la saggezza, la sofferenza e l’esperienza più alte che uno scrittore può assegnare a un suo personaggio. Sanciu divenne per Meli la metà dominante della coppia e configurò l’alterazione degli elementi atta ad assecondare il suo atteggiamento psicologico e filosofico nei riguardi del mondo. Sebbene lo scetticismo fosse l’attitudine predominante in lui, non si può dire che fosse del tutto incapace di provare ottimismo. Il poeta, in effetti, venne perennemente dibattuto fra le due divergenti predisposizioni per l’intera sua vita; questa è la caratteristica più evidente di tutta la sua poesia e il Don Chisciotti e Sanciu Panza fu l’emblema di tale conflitto.
È questa la ragione per la quale il Meli enfatizzò il carattere di Sanciu, facendo di lui un eroe e ascrivendo a lui la saggezza, la sofferenza e l’esperienza più alte che uno scrittore può assegnare a un suo personaggio. Sanciu divenne per Meli la metà dominante della coppia e configurò l’alterazione degli elementi atta ad assecondare il suo atteggiamento psicologico e filosofico nei riguardi del mondo. Sebbene lo scetticismo fosse l’attitudine predominante in lui, non si può dire che fosse del tutto incapace di provare ottimismo. Il poeta, in effetti, venne perennemente dibattuto fra le due divergenti predisposizioni per l’intera sua vita; questa è la caratteristica più evidente di tutta la sua poesia e il Don Chisciotti e Sanciu Panza fu l’emblema di tale conflitto.
Creato di una foggia umoristica, Sanciu era un povero, ignorante,
illetterato contadino; la sofferenza e l’esperienza ne fecero uno stimato,
saggio e prudente uomo, un filosofo naturale. Questa metamorfosi può
considerarsi completata nel Canto VIII, Ottava 13:
Dunqui Sanciu,
si à locu tra li saggi,
Lu divi a la penusa sua carvana,
A li
disgraziati soi viaggi,
A na testa sconnessa e ad una sana;
Dunqui li guai, l'affanni e li disaggi
(Misera, ahimè, condizioni umana!)
Su' la strata chiù brevi a la saggizza?
Virità chi ni copri d'amarizza!
If Sanciu has a
place among the wise,
he owes it to his
sore experience,
to his disastrous
journeys, to a brain
that's unconnected
and to one that's sane.
So then, do troubles, sorrows and privations,
the shortest route
to wisdom represent?
(Alas, how bitter is our human fate!)
Come uomo illuminato, che credette nella dignità dell’essere umano, e
come medico, che poté appurare le condizioni di vita in Sicilia delle
differenti classi, Meli deplorò la povertà, la malattia e la malnutrizione
della povera gente e desiderò ardentemente che le sofferenze dei contadini e
dei pastori fossero alleviate.
In tutto il suo Don Chisciotti, il ricco, il potente e il blasonato sono costantemente denigrati, mentre i contadini e i pastori sono esaltati; le sue idee sociali, le idee che egli avallava con tutto se stesso, vi sono chiaramente espresse: la giustizia, il diritto di ogni persona al lavoro, l’istituzione di un tribunale internazionale per dirimere le controversie, l’abolizione delle guerre.
In tutto il suo Don Chisciotti, il ricco, il potente e il blasonato sono costantemente denigrati, mentre i contadini e i pastori sono esaltati; le sue idee sociali, le idee che egli avallava con tutto se stesso, vi sono chiaramente espresse: la giustizia, il diritto di ogni persona al lavoro, l’istituzione di un tribunale internazionale per dirimere le controversie, l’abolizione delle guerre.
Don Chisciotti, l’uomo che vagheggiava di rimettere in
sesto il mondo, morì di ernia, nel mentre che si ostinava a raddrizzare un
vecchio bitorzoluto sorbo selvatico. Canto XII, Ottava 83:
Va ‘nnarreri lu sforzu, e in
vrazza e in rini
Scinni e l’apri, e la ventri ci scunquassa
E fa sotari fora l’intestini,
Chi nàutra ventri formanu chiù bassa,
Chi penni e va criscennu senza fini,
Né spaziu chiù ntra li dui gammi lassa,
Ma l’occupa e dilata in strani formi,
Machina ria, voluminusa, enormi.
His striving
traveled back through arms and kidneys,
splitting them up, and laying waste his guts,
and making his
intestines burst their walls
to form a second
belly lower still,
which sagged and
sagged, unendingly,
until it left no
space all between his legs:
a wild, expanding, changing, wormy mass,
a foul machine, voluminous and crass.
Giuseppe Pipitone Federico legge la morte di Don Chisciotti come
un evento comico; scrive egli: “L’effetto estetico è sorprendente, mirabile la vis
comica che scaturisce dal contrasto fra l’immaginaria grandezza dell’eroe,
che si credeva destinato a memorabili imprese, e la sua ridicola fine”.
Gaetano Cipolla, registriamo, non concorda affatto con tale lettura. Io
credo, ribatte egli, che l’enfasi, qui, non è comica, che le intenzioni del
Meli non fossero tanto quelle di evocare risate, quanto quelle di sottolineare
il senso di derisione per le delusioni dei cavalieri, abbinato alla compassione
e alla comprensione. Quei dettagli grotteschi provocano una reazione mista nel
lettore, il quale tende, sì, al sorriso, ma questo si spegne immediatamente sul
suo volto.
Sulla lapide di Don Chisciotti, il Sanciu di Meli scrisse,
Canto XII, Ottava 97, il seguente epitaffio:
La cinniri ch’è sutta sta balata
Fu spogghia d’un Eroi di desideriu;
Chi mai sappi cunsari na ‘nzalata
Nonostanti pretisi in tonu seriu
Di cunsari lu munnu. All’urtimata,
La Parca esercitannu lo so imperiu,
Don Chisciotti ristau cripatu e mortu,
Sanciu zoppu e lu munnu ancora è tortu.
The dust that lies
beneath this slab of stone
is what remains of
one who would be Hero,
who never knew how
to prepare a salad
and yet presumed in
all sincerity
he could repair the
world. And finally,
as Fate her own
dominion exercised,
Chisciotti died and
thus was laid to rest.
Sanciu was maimed; the world is still oppressed.
Miguel De Unamuno avrebbe detto che Giovanni Meli era reo di
“Sanciopanzismo”; ma la verità è che Meli è sia Don Chisciotti che Sanciu
Panza.
Il Canto XII, l’Ottava 105, chiude il poema:
Pirchì sennu e furtuna su’ dui cosi
Chi uniri mai si ponnu in un murtali;
Cussì lu giustu Giovi li disposi
Pri equilibrari la valanza eguali;
L'onestu e virtuusu avrà na dosi
Di paci, chi ci mitiga li mali;
Beni e ricchizzi nun avrà a catasta,
M'anchi lu pocu all’omu saggiu basta.
For wisdom and good
fortune are two things
that cannot be
united in a mortal.
That’s how they
were arranged by righteous Jove,
to keep the scale
in equilibrium.
The honest and the
worthy man will have
a dose of peace to
mitigate his woes.
Of wealth and
riches he won't have the prize,
but little is
enough for one who's wise.
Giorgio Santangelo asserisce che quest’ultima ottava è l’espressione
dell’essenza del Meli. Essa contiene il “codice della saggezza umana che ispirò
una disposizione fondamentale del suo animo”.
Il linguaggio del Meli è difficile da classificare.
Nel suo studio La lingua del Meli (Palumbo Editore, Palermo
1941), Salvatore Santangelo scrive: “Preso nel suo intero, il linguaggio del
Meli è qualcosa di fluttuante ed eterogeneo, sul quale nessun giudizio può
essere pronunciato”. Il risultato dei suoi sforzi risulta, di fatto, una
mistura fra l’idioma letterario italiano, cioè il toscano, e il siciliano.
L’interrelazione tra queste due componenti rappresenta, statuisce
Gaetano Cipolla, una essenziale caratteristica del linguaggio del Meli. In Don
Chisciotti e Sanciu Panza, egli adotta una gran varietà di stili: vi
ritroviamo bei passaggi lirici descrittivi della natura, che rimandano alla Buccolica;
scene di battaglia di incontenibile energia e umorismo; scene di pathos e
sofferenza; brani nei quali il Meli esibisce il proprio virtuosismo tecnico;
passaggi erotici e galanti che rimandano ai delicati timbri delle Odi, quali la
descrizione della bellezza di Dulcinea, Canto IV, Ottave 43, 44 e 45:
Sia bianca comu lu latti ntra la cisca,
Liscia comu lu rasu di Fiorenza,
Dilicata, gentili e sia manisca,
Ma dritta e longa e bella di prisenza,
Picciotta, culurita, sana e frisca,
Capiddi biunni e di lunghizza immenza;
Occhiu spaccatu, niuru e penetranti,
Stritta di cintu e di pettu abbundanti.
Chi lassassi unni passa na fragranza,
Comu fussi di zàgari e violi;
Chi quannu canta sula ntra na stanza
Vincissi in armunia li rusignoli;
Sia disinvolta 'mmenzu a l’eleganza;
Saggi, duci e galanti li paroli;
Gentili li maneri, onesti e santi;
Sia na tiranna, però sia un’amanti.
Cussì dittu, imitannu in fantasia
Lu gran Pigmaliuni, si
furmau
Na biddizza perfetta, anzi
una Dia
E milli e milli doti ci adattau;
La chiamava pri nomu Dulcinia
Pri la dulcizza granni, chi
pruvau,
Quannu si la supposi; poi
curtisi
Del Tobboso pri titulu ci misi.
Let her be white as
milk inside a pail,
and silken smooth
as satin spun in Florence,
and delicate and
gentle let her be and light,
but straight and
tall and beautiful to see,
and with good color, healthy, young and fresh.
Immeasurably long
her fine blond hair.
With huge, black piercing eyes let her be blessed,
small round the
waist, abundant at the breast.
And let her leave a
fragrance where she passes
of orange blossoms
and of violets;
and when alone she
sings inside her room
let her in
sweetness nightingales surpass.
In elegance let her
be quite at ease;
and let her words
be gallant, wise and sweet.
With honest, kindly ways all full of piety:
a cruel tyrant, but a lover let her be.
Once this he'd said, he formed within his mind
in imitation of the
great Pygmalion,
a perfect beauty, rather a true goddess
endowing her with
countless qualities.
He called her with
the name of Dulcinea,
because of the
great sweetness he had felt
when he imagined
her. As a kind deed
“Toboso”, as her
title, he decreed.
Nella edizione del 1814, Giovanni Meli aggiunse al Don Chisciotti e
Sanciu Panza un epilogo, intitolato La Visioni, nel quale egli
immagina che Sanciu gli sia apparso per raccontargli le sue ultime
avventure. È ragionevole supporre – soppesa Gaetano Cipolla – che gli obiettivi
del Don Chisciotti fossero stati travisati e che il Meli abbia aggiunto
le cinquantasei ottave della Visioni al fine di chiarire gli obiettivi
che aveva in mente quando scrisse il poema: una satira, ovvero, contro i
ciarlatani e gli pseudo scienziati.
Le asserzioni di Meli nondimeno, scritte nel 1813, ventisei anni dopo la
pubblicazione dell’opera, non debbono essere necessariamente prese come la pura
verità. Per un uomo che alla fine dei suoi giorni dovette guardare alla ricerca
della felicità sulla terra come a una trizziata eterna (così egli
scrisse in una lettera all’amico sacerdote don Francesco Paolo Nascè), dovere ammettere
di avere coltivato illusori desideri circa la giustizia terrena deve essere
stato assai penoso.
È sintomatico in ogni caso (oltremodo interessanti le osservazioni di
Gaetano Cipolla!) che Sanciu Panza, e non Don Chisciotti, sia
stato ad apparirgli. È lui l’eroe meliano; nella battaglia tra l’idealismo e il
materialismo, quest’ultimo vince.
Meli, leggiamo l’Ottava 46 della Visioni, credette di essere il
primo ad avere capito la vera lezione morale contenuta nel Don Quijote:
Pirchì ‘un c’è statu nuddu sinu ad ora
Chi ci à saputu fari li commenti
E la moralità cacciarni fora,
Chi sta chiusa in ridiculi accidenti.
Dirremu, per esempiu, chi ’un ristora
Lu bonu vinu e chi nun vali a nenti
Pirchì in locu di un vasu riccu e adornu
Posa o si vivi in ciotula di cornu?
Because there has
been no one until now
who has known how
to write a gloss of it
and draw the moral
lesson that is locked
in comic and
ridiculous adventures.
Shall we then say,
for instance, that good wine
does not refresh,
or that it is just worthless,
if rather than in
goblets made of gold
we drink it from a
horn bowl, plain and old?
In parole povere, il poeta invita il lettore a separare il diamante
dalla montatura che lo incastona, a scorgere il valore delle idee del Don
Chisciotti malgrado esse siano adagiate su ridicole avventure, a ravvisare
la bontà delle sue massime a dispetto dell’insania delle sue azioni.
Nell’Ottava 40 della Visioni, Sanciu esprime un giudizio
su Cervantes che può essere usato per ricostruire la poetica del Meli:
Scervantes, chi pretisi sbarbicari
Lu pregiudiziu dominanti allura
Di l’erranti bravuri militari,
Nun canuscìa di l’omu la natura,
Chi tra lu menzu nun ci sa marciari;
Pigghia sempri un estremu chi l’oscura
E si da chistu si distacca e sposta
Sauta e rumpi a l’estrema parti opposta.
Cervantes, who intended to uproot
the dominant
delusion of his time
- the martial prowess of
the Errant Knights -
man’s very nature
did not understand.
Man cannot take the
middle of the road.
He chooses an
extreme that humbles him.
If from this point
he parts and steps aside,
he jumps completely
on the other side.
Scritte in versi, nelle Favuli murali il Meli espresse il mondo
sapiente e discreto degli animali.
Vi celebra egli la saggezza degli animali i quali vivono, liberi da
colpe, obbedendo alle leggi naturali, prendendosi cura di loro stessi senza
arrecare danno gli altri.
L’edizione di Gaetano Cipolla, Moral Fables, presenta uno accanto
all’altra il testo siciliano e la versione inglese.
Attilio Momigliano non esitò a definire le Favuli murali del Meli
“la più alta collezione di favole della letteratura italiana” e per Giulio
Natali “Meli si piazza molto in alto non solo fra i favolisti dialettali
italiani, ma tra gli antichi e i moderni favolisti del mondo”.
Nel volume Settecento: Storia e Testi, Laterza, Bari 1973, le Favuli murali sono considerate un autentico capolavoro e l’autore del pezzo vi scrive: “Vi si possono rintracciare Esopo, La Fontaine e altri, ma le favole del Meli sono inconfondibili per il loro lirico realismo filtrato attraverso un linguaggio affettuoso e senza asprezza”.
Nel volume Settecento: Storia e Testi, Laterza, Bari 1973, le Favuli murali sono considerate un autentico capolavoro e l’autore del pezzo vi scrive: “Vi si possono rintracciare Esopo, La Fontaine e altri, ma le favole del Meli sono inconfondibili per il loro lirico realismo filtrato attraverso un linguaggio affettuoso e senza asprezza”.
Meli, che ammise il suo debito nei confronti di Esopo e di La Fontaine,
scelse verosimilmente la favola perché tramite essa egli riuscì a dare voce ai
suoi veri sentimenti riguardo alla corruzione che osservava nelle corti, allo
sfruttamento dei poveri, ai soprusi della nobiltà o all’inettitudine dei
governanti. L’ammirazione del Meli per Esopo è esplicitata nel Canto 7, Ottava
48, del Don Chisciotti e Sanciu Panza:
È veru ca su’ zoppu e senza nasu,
Poviru servu e tuttu spiddizzatu;
Ma ci fu Esopu ntra lu stissu casu,
Schiavu, pizzenti e forsi chiù sminnatu.
Cu tuttu chissu ognunu è persuasu
Chi un filosofu eguali nun c’è statu;
L’àutri su’ tutti chiacchiari e palori,
Chistu alletta, 'struisci e va a lu cori.
It's true that I am
lame, without a nose,
a servant, poor, with clothes all torn to shreds,
but Aesop was
himself in this condition,
a wretched slave, more lame than I, perhaps.
Nevertheless, we all are quite convinced
that as philosopher
he had no peer.
The others are all
words and idle chatter
but he attracts, instructs and says what matters.
Francesco Biondolillo, nei suoi Studi su Giovanni Meli, loda la
brevità, l’immaginazione, l’inventiva delle Favuli murali del Meli e conclude
che in esse “egli fu capacissimo di esprimere la sua anima e i suoi pensieri,
colorando l’una e gli altri con la grazia e con lo spirito del suo
temperamento”; e Gisella Padovani, in un pezzo intitolato L’itinerario
culturale di Giovanni Meli, appunta che il Meli, come altri scrittori,
comprese la validità della favola come mezzo di espressione e intese, tramite
le sue, esercitare una influenza sulla società siciliana, offrendo, sulle orme
dello scrittore inglese Joseph Addinson, intrattenimento e saggezza a tutte le
classi sociali, al fine di ottenere un effetto di livellamento delle loro
differenze.
Meli non risparmia nessuno: né nobili, né legislatori, né preti, né
potenti, né governanti; ma le sue Favuli murali non sono il lavoro
mordace di un severo moralista. “Semplicemente” egli sta dalla parte dei poveri
e degli oppressi e non si astiene dal denunciare la verità: stigmatizza
l’ipocrisia (LXII, La taddarita e li surci), la vanità (LIV, La musca),
l’ingratitudine (V, Lu surci e lu rizzu), l’ambizione (XIII, Li cani
e la statua), la testardaggine (LI, Lu sceccu e l’api), la stupidità
(LXXII, La cursa di l’asini), l’intolleranza (LII, Lu corvu biancu e
li corvi nìuri), l’egoismo (VIII, Lu gattu, lu furisteri e
l’abati), l’avidità (XVII, Esopu e l’aceddu lingua-longa), la
codardia (LVIII, Lu cervu, lu cani e lu tauru).
Nella introduzione a Le bestie gli uomini le favole, Tringale
Editore, Catania 1978, Vincenzo Di Maria usò una magnifica immagine per
descrivere l’ingannevole leggero tocco del Meli; egli scrisse:
“La sua penna è come un fioretto che penetra di punta e par che neppure s’avverta per la sottigliezza della lama”.
“La sua penna è come un fioretto che penetra di punta e par che neppure s’avverta per la sottigliezza della lama”.
Proprio a motivo della leggerezza del suo tocco, l’impegno politico del
Meli non è stato compiutamente analizzato; un attento esame delle favole
rivela, infatti, che oltre un terzo di loro è un commento sui problemi politici
e sociali della gente di Sicilia.
La Favula LXXXIV, Lu codici marinu, riferisce delle
difficoltà incontrate da un gruppo di sardine accusate del massacro di un
grosso tonno perché trovate vicino alla sua carcassa. È un lucido resoconto di
quei meccanismi sociali che contribuirono alla creazione di un ingiusto e per
nulla etico sistema basato sul principio che il potente fa la legge. Le sardine
(la gente comune) sono vittime di un triunvirato composto da un vessatorio
sistema di tassazione, dai granchi (giudici e legislatori) e dai pesci grossi
(nobili e politici):
In fundu di lu Balticu e a li spaddi
Di na muntagna in mari sprofundata,
Cuverta di un vuschittu di curaddi,
Vitti na turba grandi radunata
D’insetti molestissimi forensi,
Chi trattava un processu tra sti sensi:
Si truvau divoratu un grossu tunnu
E pri st’accusa foru processati
Pochi sarduzzi ritruvati a funnu
Supra d’un ossu cu li mussi untati.
Lu Fiscu, ch’è un strumentu chi vi frica,
Ci apriu di tunnicidiu la rubrica.
Deep in the Baltic
Sea, against a cliff,
which had sunk deep
into the ocean’s shroud,
and which was
covered by wild coral reef,
he spied the
gathering of a large crowd
of very noxious
insects of the forum,
who were a case
debating with decorum.
A heavy tuna fish
had been devoured
and for this crime, they had accused sardines
who had been seen
as they the bottom scoured
with greasy mouths
from chewing on some bones.
Taxation – vexing tool
in people’s side –
indicted the
sardines for tunacide.
Il tornaconto privato in opposizione al benessere pubblico è tema
ricorrente nelle favole del Meli.
Maturo di anni – rileva Giuseppe Pipitone Federico –, assetata l’anima
di idealità, sogno fulgido e dolcissimo del Poeta è quello di uno stato che
liberamente si regga sulla pace, frutto dell’ossequio delle leggi contrapposto
all’anarchia. Nella Favula LX, Lu cardùbulu e l’apa, un cardùbulu,
che desidera essere libero dalle restrizioni della società, e un’ape, che pensa
che la vera libertà può esistere solo in seno a una società organizzata, sono
in contrasto; alla fine l’ape esclama:
Si di lu beni pubblicu
Si perdi in nui l’idia,
O casa di diavulu,
O chiamala anarchia.
If we lose sight of
the good
of the community,
then either devil’s
home
or call it anarchy.
L’avidità di pochi membri di un branco provoca, ne L’alleanza di li
cani, Favula LXXXI, lo sfaldamento di una società di cani che, ben
organizzata, aveva ottenuto sino ad allora grande successo nell’attaccare le
bestie più forti e più grosse:
Or’avvinni (pri quantu lu Vicchiuni
Ntra lu tarlatu miu libru truvau)
Chi di sti cani ci ni fu un squatruni
In cui la gran catina si smagghiau,
Pri l’abbusu di avirsi postergatu
Lu pubblicu vantaggiu a lu privatu.
Pirchì turnannu cu la preda ogn’unu
Si n'ammucciava deci e vinti parti
E dicchiù si spacciava pri dijunu
Pri dumannari l’autra chi si sparti;
Perciò la preda nun putìa bastari
Pri tutta la gran chiurma saturari.
It happened that
among the dogs, one pack
(as far as the Old
Man could ascertain
in my moth-eaten
book) went off the track,
and managed to
break up the social chain,
through the abuse
of placing private good
above the interests
of the brotherhood.
Thus every dog
returning with its prey,
a tenth or
twentieth part would put aside.
What’s more he’d
claim he’d fasted the whole day,
to get a part of
what they would divide,
and that is why the
daily prey was found
not large enough to
feed that many hounds.
La Favula LXIII è una conversazione tra due lupi. Risentiti per
la reputazione che l’uomo ha affibbiato a loro come bestie fameliche e
predatrici, cominciano ad accusarlo di essere un ingrato, una creatura crudele
e vorace, che uccide gli animali per divertimento e non per necessità e preda ogni
essere che vive nell’aria, nel mare e sulla terra; l’amara conclusione dei lupi
è che l’uomo è “due volte lupo”.
Le è simile la Favula LXXXIII, La tigri tra na gaggia di ferru.
Le due Favuli, atipicamente, sono le sole in terza rima, cosa che suggerisce che sono state ambedue scritte nello stesso periodo, ovvero prima del 1787. Eccone alcuni estratti:
Le è simile la Favula LXXXIII, La tigri tra na gaggia di ferru.
Le due Favuli, atipicamente, sono le sole in terza rima, cosa che suggerisce che sono state ambedue scritte nello stesso periodo, ovvero prima del 1787. Eccone alcuni estratti:
A tempu chi l’armali discurrevanu,
Dui lupi, ntra na grutta ‘ncrafucchiati,
‘Nzemmula sti discursi si facevanu:
“Nui semu veramenti diffamati:
Cui ni voli lu sangu e cui la peddi;
‘Nzumma semu dui testi abbanniati.
Facemu straggi, è veru, di l’agneddi,
Ma ch’avemu a muriri di miciaci?
S’ ‘un manciamu, pri nui lu munnu speddi.
Manciati, ni dirannu, oriu e spinaci;
Chisti ‘un su' nostru pastu, e chi
curpamu?
L’à fattu la Natura, vi
dispiaci?
Dispiacitivi d’Idda, nui
ch’entramu?
Si ccà c’è culpa, è sua; lu nostru coriu
Nui cu fari li latri arrisicamu.
L'omu, chi sempri adùla e duna 'ncensu
Sulu a se stissu, vistu chi nun spunta
Lu pretestu, chi l’autri ‘un ànnu sensu
N’à truvatu unu novu: osserva e cunta
Li denti di l’armali, si su'
fatti
A pala, o puru a chiovu cu la punta:
Decidi chi li denti larghi e chiatti
Su' distinati a manciar’ervi e frutti,
E li puntuti su' a li carni adatti;
Dipoi cunchiudi chi li specii tutti
Di denti immaginabili l’àv’iddu,
Perciò l’onnipossibili s’agghiutti.
….......
Pirchì dunqui ni mancia chiù di nui?
Pirchì arriva a manciarisi li quarti
Di la sua propria specii?” “Passu
passu,
L’autru ripigghia, ‘un smuvemu sti carti:
L’omu è dui voti lupu, e ccà ti lassu.”
In times gone by
when animals conversed,
two wolves were
hidden well inside a cave,
and in these
musings deeply were immersed:
“Our species is to tell
the truth maligned.
Men want our blood, they want our very hide.
We're like the
heads of the most wanted kind.
That we kill lambs
can never be denied,
but what are we
supposed to do? Starve, then?
Not eating is like
saying we had died.
Eat spinach or some
oats, will say some men,
but that is not our
food. Are we to blame?
It's nature willed
it so. If in your ken
someone’s at fault, complain to nature, aim
your blame at her, not us, for when we steal
upon our hides
someone may put his claim.
Failing pretexts
that senses hold no sway
in beasts, man, who is always fawning on
and flattering
himself, will promptly say
that he has found a
new and truer one:
by studying and
counting every tooth,
determining the
teeth’s shape one by one
and seeing if
they’re shovel-like and smooth,
or if they're
pointed and as sharp as nails,
the wide and
flattened teeth – man will conclude –
are destined to eat
fruit and grass in dales,
but pointed teeth
were meant to savor meat.
So man determined
that in all details
every requirement
his teeth would meet
and thus he
swallows everything in sight.
….......
So then why does he
swallow more than us?
And quarters of his
species he presumes
to go on eating?” “Oh, let’s not discuss
that part”, the other said. “Don’t raise the
subject!
Man's twice a wolf
and lots more dangerous!”
Ne La tigri tra na gaggia di ferru, Favula LXXXIII, una
tigre in gabbia si difende dall’accusa di ferocia e di crudeltà ricordando come
gli uomini siano più sanguinari di lei:
Tra na gaggia di ferru carcerata
Una tigri frimìa. Lu so custodi
Ci dissi: “Scatta ddocu, scelerata;
Tu chi tra sangu e straggi trischi e godi
Diri osi chi la vita a sostiniri
Àutri mezzi nun trovi ed àutri modi?
Ma pirchì sazianduti a doviri
La tua ferocia crisci e a varia e a nova
Straggi ti porta sempri a incrudeliri?”
Ci rispusi la tigri: “Rinfacciari
Nun ti vogghiu li straggi e crudiltà
Chi soli l’omu all'àutri specii fari,
Né chiddi chi a la propria specii fa;
Ma ti parru di chiddi sulamenti
Chi teni occulti tra la voluntà,
Pirchì nun pò spiegari apertamenti
Comu mia, stannu chiusa tra firrati,
Tra li liggi cioè ch’avi presenti.”
A tiger was
imprisoned in a cage
of steel and
writhed. Her guardian exclaimed:
“You bloody beast (may
you burst out of rage!)
who live and who
enjoy to kill and maim,
that for your kind
there are no other deeds
through which you
can survive, how can you claim?
So why when you
have satisfied your needs
at will, does your ferocity grow more
and on increasing
cruelties just feeds?”
The tiger answered
him: “I will not deign
to name the
slaughters and the cruelties
that man on other
species can ordain,
nor those against
the species that is his,
I will speak only
of those that are found
well hidden in his
secret strategies
because on them he
clearly can’t expound,
as I can, held inside this iron fence,
Nella Favula XXXII, L’ursu e lu ragnu, il ragno offre i
suoi servizi all’orso per tenerne la caverna libera da fastidiosi piccoli
insetti …
Ma quannu vidi poi chi vespi ed api
Tràsinu franchi, comu fussi apertu,
Dici: “Sta riti d’ingiustizia sapi;
Teni a frenu li picciuli, né vali
Pri li grossi, chi fannu maggiur mali.
Cunchiudu: O tutti o nuddu. A disonuri
Jeu tegnu, ed a viltà, lu dominari
Li deboli e li vili. Tu procuri
Lu sulu to vantaggiu e voi lasciari
La taccia a mia di vili e di tirannu?
Sfunna e vattìnni pri lu to malannu.”
But when he sees
that wasps and bees
fly in unchecked as
through an open door,
he says: “This net smells of inequities.
It does control the
small, but can’t disarm
the larger ones who
cause much greater harm.
So I conclude: All
or no one! I say
it's a dishonor and
a cowardice
upon the weak and
lowly to hold sway.
You’re seeking only
your own benefice,
blotting me as a
tyrannical and base.
Clear out and catch
your death some other place!”
Il gatto è, per Meli, il simbolo per eccellenza dell’inganno. Nella Favula
LXIV, La surcia e li surciteddi, un topo, che sta cercando di
inculcare nei suoi topini la paura della bella ma ferale bestia, dice loro:
Di tutti l’animali chi ci sunnu
Chistu è lu chiù terribili: nun cridi,
Né cridiri lu pò cui nun à munnu!
A sti cudduzzi torti ‘un dari fidi;
Guàrdati di sti aspetti mansueti;
L’occhiu è calatu, però nun ti sbidi.
Chisti su' sanguinarii, inquieti,
Crudi, avari, manciuni, spietati,
Tradituri, latruni ed indiscreti.
Among all beasts
he’s the most troublesome,
the worst on earth.
This truth you can’t believe
unless you’ve
learned of life a minimum.
Don’t trust such
hypocrites! Don’t be naive!
Of such tame looks
and manners be on guard!
Their eyes seem
closed, but all things they
perceive.
They are
bloodthirsty, restless and rock hard,
traitorous, thieving, heartless, indiscreet,
selfish and greedy
and without regard.
Il Meli, ribadisce Cipolla, occupa indubbiamente un posto preminente fra
i poeti siciliani.
Il suo mondo spirituale, ha sostenuto Giorgio Santangelo nella sua
introduzione alle Opere del Meli, Rizzoli, Milano 1965, “non può essere
compreso senza che lo si contestualizzi sullo sfondo della storia delle idee in
Europa”.
In Sicilia un piccolo gruppo di intellettuali aveva iniziato un dialogo non solo con i loro omologhi in Italia, ma anche con quei filosofi in Francia e in Inghilterra i cui lavori avevano creato un nuovo clima intellettuale.
Bacon, Descartes, Leibnitz, Wolff e Rousseau erano letti avidamente a Palermo e parimenti gli scritti di David Hume, Diderot, Voltaire, Condillac, D’Alembert e Helvetius; costoro, i quali esercitarono una forte influenza sul Meli, rappresentarono la sua connessione europea.
Gli eventi parigini del 1789 trovarono, però, scarsi sostenitori fra gli intellettuali siciliani; i più, il Meli incluso, li condannarono.
Il poeta palermitano altro non fu che il prodotto del suo tempo, la perfetta incarnazione delle dicotomie che scossero gli intellettuali siciliani della seconda metà del diciottesimo secolo e l’inizio del diciannovesimo secolo. Il Don Chisciotti and Sanciu Panza è il punto d’incontro fra i principi dell’Illuminismo e le idee di una società profondamente conservatrice.
In Sicilia un piccolo gruppo di intellettuali aveva iniziato un dialogo non solo con i loro omologhi in Italia, ma anche con quei filosofi in Francia e in Inghilterra i cui lavori avevano creato un nuovo clima intellettuale.
Bacon, Descartes, Leibnitz, Wolff e Rousseau erano letti avidamente a Palermo e parimenti gli scritti di David Hume, Diderot, Voltaire, Condillac, D’Alembert e Helvetius; costoro, i quali esercitarono una forte influenza sul Meli, rappresentarono la sua connessione europea.
Gli eventi parigini del 1789 trovarono, però, scarsi sostenitori fra gli intellettuali siciliani; i più, il Meli incluso, li condannarono.
Il poeta palermitano altro non fu che il prodotto del suo tempo, la perfetta incarnazione delle dicotomie che scossero gli intellettuali siciliani della seconda metà del diciottesimo secolo e l’inizio del diciannovesimo secolo. Il Don Chisciotti and Sanciu Panza è il punto d’incontro fra i principi dell’Illuminismo e le idee di una società profondamente conservatrice.
“Se si consultano i registri di dogana e di polizia – apprendiamo da
Leonardo Sciascia e dal suo libro-intervista, La Sicilia come metafora,
Mondadori 1979 – si constata che l’importazione di libri francesi è
sbalorditiva: Rousseau, Voltaire, l’Encyclopédie, Montesquieu. Stendhal
dirà che i libri in francese si vendevano poco in Italia, tranne che in
Sicilia, dove ogni buon libro toccava il centinaio di copie.”
“La cultura illuministica – rimarca Antonino Infranca, in Giovanni
Gentile e la cultura siciliana, Edizioni L’ED 1990 – arrivò in Sicilia, ma
non ne arrivarono gli influssi migliori, cioè le istituzioni giuridiche, che,
laddove giunsero, si radicarono nelle abitudini dei popoli e contribuirono a
mutare i rapporti sociali e politici tra il potere e i cittadini. In Sicilia
giunse un tipo preciso della cultura illuministica, cioè l’illuminismo delle
corti, del potere, quello che è stato definito il despotismo illuminato. Si
trattava, però, di un illuminismo di maniera, direi di facciata, che non
intaccava affatto i rapporti politici e sociali esistenti nell’isola.”
Da Giovanni Meli, La vita e le opere, Edizioni Drepanum, Trapani 2015
Da Giovanni Meli, La vita e le opere, Edizioni Drepanum, Trapani 2015

Quarta di copertina
Foto: statua di Giovanni Meli collocata nell'atrio del Palazzo delle Aquile a Palermo.
ph ©piero carbone
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