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giovedì 2 maggio 2013

U PRINCIPINU SICILIANU





Mario Gallo

u principinu

Edition Tintenfass 2010


di Marco Scalabrino


L’immagine scelta per la copertina è quella del principinu sull’asteroide B 612, il pianeta d’origine del principinu che è stato visto al telescopio, una sola volta, all’incirca nell’anno 1920 da un astronomo turco. Altrove abbiamo rintracciato quella del principinu che “approfittò, per venirsene via, di una migrazione di uccelli selvatici” o quell’altra del principinu nel “miglior ritratto che riuscii a fare di lui più tardi”. Quale comunque che essa sia, sono tutte immagini assai belle, le quali, è risaputo, sono creazioni dell’autore stesso di le petit prince, ovvero dell’aviatore-scrittore francese Antoine De Saint-Exupéry.

Per questa illustrazione e per le successive, la più parte a colori, assodata la felice collocazione rispetto al progredire della narrazione, un primo aspetto che ci colpisce (che c’entri la globalizzazione?!) è che questo volume, pubblicato in settecento copie col patrocinio della Regione Siciliana, dell’Assemblea Regionale Siciliana e della Fondazione Ignazio Buttitta di Palermo, risulta essere stato stampato in … Germania, dalle Edition Tintenfass.

Non i contenuti e le forme de le petit prince, né i contenuti e le forme della versione in lingua italiana a noi più vicina saranno all’attenzione di questa breve testimonianza, quanto piuttosto i temi e soprattutto gli esiti di questa ennesima versione
Come non mai possiamo affermare ennesima versione, giacché le petit prince, che ci risulti, è stato tradotto ad oggi in oltre 220 idiomi, dall’afrikaans allo zulu, dal bengalese allo yiddish, passando per l’armeno, il bielorusso, il croato, il coreano, il lituano, lo swahili, il tahitiano, il tamil, e perfino l’esperanto, il gaelico, il latino, il provenzale, e ciò fa di le petit prince un’opera universale, una tra le più diffuse, conosciute e lette al mondo. 
Tant’è che, soltanto in Italia, essa è stata adattata, oltre che nella lingua nazionale, altresì nei dialetti bergamasco, bolognese, friulano, milanese, napoletano, piemontese, sardo, veneziano e, ora, anche siciliano. Alla edizione in italiano curata da Nini Bompiani Bregoli ci rifaremo, comunque, per quegli accostamenti fra gli esiti in lingua e quelli in siciliano realizzati da Mario Gallo dei quali ci occuperemo.

Conosciamo da parecchi anni Mario Gallo, quale Siciliano autentico (benché abbia trascorso grande fetta della sua esistenza fuori dai confini del Triangolo), quale appassionato direttore del periodico fiorentino lumie di sicilia, quale autore di alcune pubblicazioni tra cui i vespi siciliani, pungente satira di costume; ma in verità egli ci ha sorpreso allorquando, qualche tempo fa, ci partecipò di avere concepito e intrapreso questo progetto e non meno adesso che il progetto vediamo compiuto. 
Ci viene da supporre che, oltre alla predisposizione dell’animo, oltre all’interesse per la Cultura, il frangente di avere dei nipoti in età adolescenziale possa avere favorito questa impresa.

La lettura della traduzione eseguita da Mario Gallo, che per quanto di nostra conoscenza è la prima in siciliano e quindi essa pure da considerarsi un originale, mentre il testo le petit prince di Antoine De Saint-Exupéry è da intendersi quale l’opera prima alla quale la traduzione fa riferimento, ci fornisce il destro per numerose notazioni sul dialetto siciliano, talune delle quali di seguito riporteremo.

Ad iniziare dalla didascalia relativa alla illustrazione che per prima incontriamo all’interno, la quale, a ben leggerla, si mostra come una sorta di identikit del traduttore e ne “tradisce” nettamente la provenienza. La frase in argomento è: “Jò criu chi iddu, pi jirisinni, apprufittau di na migrazioni d’aceddi sarvaggi.” 
[...]


Quella posta in essere da Mario Gallo, apprendiamo, è “traduzioni dû francisi ‘nsicilianu”.

Ecco, notiamo, Mario Gallo utilizza le preposizioni articolate contratte, che egli caratterizza con l’accento circonflesso, per cui troveremo: dû francisi, ê picciriddi, ntô munnu, dâ natura, â storia, pâ virità, nnâ me vita, ô stessu liveddu, pî ranni, nô misteru, cû tiliscopiu, dî cosi, câ so pecura, chî matiti, pû culuri, dî baobab, ntê visciri, eccetera. 
Forme che sono in buona sostanza quelle proprie della parlata e di questa trasmettono l’immediatezza; mentre, per contro, il siciliano letterario lascia separate le due parti morfologiche e preferisce la soluzione preposizione più articolo.

Il dialetto siciliano: i suoi lemmi che tuttora noi adoperiamo con naturalezza, con proprietà di significato, con i quali assolviamo egregiamente l’esigenza sociale della comunicazione, che fanno parte a pieno titolo dell’odierno, nostro, quotidiano conversare. Orbene, quantunque pregni di vitalità, di attualità, essi sono antichi di secoli, quando non addirittura di millenni; ma di ciò non abbiamo consapevolezza, perché, invero, forse mai ci siamo interrogati in tal senso. 
[...]



Tra le notazioni doverose su questo lavoro di Mario Gallo è da rilevare, pertanto, quella afferente alla scelta lessicale; scelta che, estraendo appunto dall’incommensurabile patrimonio del nostro dialetto voci, espressioni, soluzioni assai felici, impreziosisce alquanto la traduzione. 
Ne proponiamo solo pochi eloquenti esempi, con a fianco in parentesi il corrispettivo in lingua italiana: passatera (incidente), ‘nfastiriatu (di malumore), crastu (ariete), prescia (fretta), ‘nfrinzai (tirai fuori), m’abbaggianava (ero molto fiero), tistiannu (scrollò il capo), ntracchiatu (elegante), arrunchianu i spaddi (suggestivo ed efficace persino nella postura che ci sembra proprio di vedere, alzeranno le spalle), na larma chiù ranni (letteralmente una lacrima, poco più grande), pirciannu i cascittini cu l’occhi (per vedere attraverso le casse), scantu (paura), cuddata dû suli (letteralmente tracollo del sole, tramonto), alluccutu (stupefatto), zicchiava (sceglieva), munciuniatu (sgualcito), tampasiari (indugiare), fa attaccari i nervi (è irritante), siddiarsi (letteralmente scocciarsi, annoiarsi), pinnuliannusi (sporgendosi), vavusu (vanitoso), quannu ammicciau (appena scorse), arrusciu (innaffio), astuta (spegne), vecchiu bonentu (vecchio signore), mazzacani (grosse pietre), abbanidduzza (semiaperte), sdirrupatu (in rovina), additta (in piedi).  [...]

Sin dalle battute d’esordio, queste pagine di Mario Gallo sono una vera e propria miniera di suggerimenti, che ci consentono di argomentare su parecchie delle peculiarità del dialetto siciliano. 
Una tra esse, saldamente legata al latino, è costituita dalla perifrastica (da perifrasi: giro di parole, circonlocuzione), che in siciliano non è passiva come nel latino e viene resa mutando il verbo Essiri in Aviri. Il latino mihi faciendum est, difatti, in italiano si volge con la perifrasi io debbo fare, o consimili, mentre il siciliano lo rende con aju a fari. E, nel principinu: aviti a pinzari, dovete pensare, si ci avâ diri, bisogna dire, m’appâ fari vecchiu, devo essere invecchiato, tu m’â discriviri, tu mi devi descrivere …

Come del resto è già avvenuto in altre lingue, nel siciliano il verbo Essiri ha perduto, in favore del verbo Aviri, le funzioni di verbo ausiliare: m’avissi piaciutu, mi sarebbe piaciuto, avissi statu, sarebbe stato. Si è verificato inoltre l’evidente ripiegamento del modo Condizionale a vantaggio del Congiuntivo: truvassiru, troverebbero, fussi, sarebbe,  facissi, farebbe, lassassi, lascerebbe, l’avissivu vui, l’avreste voi, e del tempo Passato Prossimo a beneficio del Passato Remoto: ‘ncuntrai, ho incontrato, campai, ho vissuto, caristi, sei caduto, vi cuntai, vi ho raccontato, vitti, ho visto, accattai, ho comperato …    
  
Nel dialetto siciliano manca il tempo futuro dei verbi. “Come interpretare (quasi filosoficamente) questa anomalia? Ecco lo spunto – asserisce Paolo Messina – per un nesso fra lingua e cultura, modi di essere e di pensare.
[...]

Quello che conta è il presente. Essere e divenire, insomma, nell’ansia metafisica si fondono o si confondono.” Manca il tempo futuro e ogni proposizione riguardante un’azione futura viene costruita al presente e al verbo si associa un avverbio di tempo. Il principinu non deroga a tale precetto: ti pozzu aiutari ‘n jornu, potrò aiutarti un giorno, tu rumani sî luntanu, tu sarai lontano, capisci allura, capirai, ci sugnu stanotti, ci sarò questa notte, aiu chiù scantu stasira, avrò più paura questa sera …  

Largo è, in Mario Gallo, l’uso della desinenza in “a” per il plurale dei sostantivi: jocura, maruna, miliuna, culura, munna, putruna, fuculara, jorna, libra, cunta, spuntuna, diserta, ‘mmriacuna, viaggiatura, lampiuna, liama, cacciatura, labbra, puzza, vrazza, disigna, prugetta, migghia, munzedda. 

Beninteso, anche il numero dei nomi è soggetto alle norme; e allora vediamole: “Il plurale dei nomi, sia maschili che femminili – scrive Salvatore Camilleri sulla sua ortografia siciliana del 1976 e riprende nella sua grammatica siciliana del 2002 – termina in “i”; ad esempio: quaderni, casi, pueti, ciuri
Un certo numero di nomi maschili terminanti al singolare in “u” fanno il plurale in “a” alla latina; sono nomi che di solito si presentano in coppia o al plurale: jita, vrazza, labbra, corna, ossa, vudedda, coccia, gigghia, mura, linzola, dinocchia, cucchiara

Molto più numerosi sono i plurali in “a” dei nomi maschili terminanti al singolare in “aru” (latino arius) significanti, in gran parte, mestieri e professioni.” Tra i più comuni se ne elencano: aciddara, birrittara, carvunara, ciurara, dammusara, furnara, ghirlannara, jardinara, jurnatara, libbrara, marinara, massara, nutara, picurara, pisciara, quadarara, ricuttara, ruluggiara, scarpara, tabbaccara, uvara, vaccara, vitrara, zammatara.
[...]


E caliamo il sipario su queste succinte esplorazioni richiamandoci alle due lettere che caratterizzano l’alfabeto siciliano: la DD, da non confondere con la doppia “d” che è un segno diverso, e la J, una consonante, da non confondere con la “i” che è una vocale. 

La DD, citiamo ancora Salvatore Camilleri, derivante dal tardo-latino (capillus, caballus, nullus, etc.) è talmente fuso nella pronuncia da essere considerato un segno a sé stante e non il raddoppiamento di due “d”; infatti, la suddivisione sillabica di addivintari, ad esempio, è ad-di-vin-ta-ri, mentre quella di cavaddu è ca-va-ddu. Da rimarcare in aggiunta che il suono di “d” è dentale, mentre quello di DD è cacuminale e gli infruttuosi tentativi di sostituire nel tempo il segno DD con DDH o DDR e con i puntini in cima o alla base di DD. 
[...]

Mario Gallo, nel principinu, sfodera fra gli altri: chiddu, capiddi, nuddu, idda, stiddi, beddi, picciriddi, liveddu, coddu … jorna e ghiorna, ‘n ghiornu

Dulcis in fundo, un plauso a Mario Gallo e buon Principinu a tutti.   


giovedì 27 dicembre 2012

OCCHI ANTICHI & SGUARDO MODERNO DI ANTONINO CREMONA



a la sagra di li ménnuli sciuruti

Suli ammatina supra di li mennuli
e cantanu l’oceddri a tutta l’ura.
Lu viddranu, curcatu nô carrettu,
s’annaculìa. Cangia la vintura
pi un sciuri di li mennuli all’oricchia?
Pinniculia, tuttu stinnicchiatu
(la vampa di lu suli ca lu scorcia);
senti li forti strepiti d’Orlannu
câmmazza i saracini e ca Rinallu
suspira e chianci, biancu arrussittatu.
Cu la mula parata a festa granni,
lu carrettu lucenti cu li pinni,
a passu a passu mezzu u pruvulazzu.
E la mula nun senti chiù la via.
Ci penni la cuperta mmezzu i gammi.
Li mennuli e l’olivi, tornu tornu,
ci fannu strata. Sbatti ni un pitruni,
isa la testa, curri; sata, abballa,
“Stoccati u coddru”, a zotta a vastunìa.
Vittivìtti, ca sona u mancarrùni.

Poesia di Antonino Cremona

Nella sagra dei mandorli fioriti. Sole di mattina sopra i mandorli / e cantano gli uccelli a distesa. / Il villano, coricato nel carretto, / dondola. Muta la ventura / per un fiore di mandorlo all’orecchia? / Ondeggia, tutto sdraiato / (la vampa del sole che lo scortica); / sente i forti strepiti di Orlando / che ammazza i saraceni e che Rinaldo / sospira e piange, bianco e imbellettato. / Con la mula parata a festa grande, / il carretto lucente coi pennacchi, / passo passo nel polverone. / E la mula non sente più la via. / Le pende la coperta tra le gambe. / I mandorli e gli olivi, torno torno, / le fanno strada. Sbatte in un macigno, / alza la testa, corre; salta, balla, / “Rompiti il collo”, la frusta la bastona. / Presto, che suona il marranzano.


Anch'io ho conosciuto Antonino Cremona e come tanti, del cosiddetto grande pubblico, l'ho poco letto e poco valorizzato pur apprezzadone occasionali interventi quando apparivano su certa stampa minore e di circoscritta divulgazione.  


Come prosatore vi ritrovavo e riconoscevo nella scrittura verve e intelligenza,  metabolizzata cultura, allusiva ironia; una volta ne ho fatto le spese avendolo provocato con una domanda al Centro Pitrè di Palermo dove ero corso ad ascoltare riflessioni critiche e testimonianze di Salvatore Di Marco ed altri amici studiosi sulla sua poesia, sui suoi Occhi antichi e il suo sguardo moderno.  

Avendo avuto da ridire su non so più quale scelta ortografica del suo  dialetto scritto, dopo avermi chiesto di dov'ero, abbassò gli occhiali, mi squadrò, mi fissò negli occhi quasi con antica confidenza  e dalla fessura sorridente delle labbra sussurrò che i racalmutesi eravamo "tutti filosofi".


Un incontro che purtroppo non coincise  con l'avvio di altri approfondimenti e sistematiche letture.  Le circostanze editoriali congiuravano sfavorevolmente come un complotto: il libro di cui si parlava infatti non era di facile reperibilità. 

A distanza di tanti anni da quell'incontro, la pubblicazione dell'intervento di Marco Scalabrino,  che ringrazio,   vuole essere, nel mio piccolo, risarcitorio di un incombente silenzio, non solo privato, sul poeta agrigentino.  

                                                                                                                      Piero  Carbone


Antonino Cremona




  Antonino Cremona occhi antichi
di Marco Scalabrino

La notizia della scomparsa di Antonino Cremona (Agrigento 1931-2004) si diffuse nell’Autunno tra gli amici e negli ambienti della poesia dialettale siciliana.
Sedato lo sgomento, acquisito il dato della ineluttabilità della morte, la prima autorevole sentita testimonianza è stata la “Lettera per Antonino Cremona” di Salvatore Di Marco, datata 10 Febbraio 2005.

“Lettera”, pubblicata sul numero 78 de la nuova tribuna letteraria, di cui si riportano alcuni estratti: “Il fatto è che questa diceria della tua morte (e ti prego di smentirla) risale al 25 Settembre dell’anno scorso con tanto di necrologio sui giornali. Anch’io lessi a suo tempo, ma vai a fidarti dei giornali! Io penso, infatti, che se tu fossi morto, la città di Agrigento ti avrebbe in qualche modo commemorato. E invece, dal 25 Settembre 2004, ogni mattina Agrigento si sveglia e dice al mondo: “Niente di nuovo, non è successo nulla di rilevante”. Se muore un personaggio come Nino Cremona, poeta di razza e di lunghe stagioni, filologo e scrittore, critico letterario e intellettuale di pregio, Agrigento sicuramente avrebbe versato lacrime sincere. Un Personaggio come te, caro Nino, non può morire nel silenzio generale, soprattutto in quello crudele della tua terra. Perciò dico che se tu fossi veramente morto me l’avresti comunicato.”

Il convegno di studi avente per tema l’opera di antonino cremona e il novecento siciliano si è svolto il 27 Gennaio 2006 ad Agrigento. Relatori: Sergio Spadaro, Giovanni Occhipinti, Antonio Liotta e Salvatore Di Marco. E giusto dalla relazione di quest’ultimo, l’anima girgentana nella poesia dialettale siciliana di antonino cremona, pubblicata nel 2007 dalla associazione culturale “nino martoglio” grotte ag, e dal volume lettere per un poeta, carteggio Salvatore Di Marco – Sergio Spadaro su Antonino Cremona e altre carte, edizioni accademia di studi “cielo d’alcamo” 2006, traiamo gli spunti a fondamento di questo elaborato.

Leonardo Sciascia, avendone apprezzato gli esordi dal 1952 ha cominciato a scrivere poesie nel dialetto agrigentino in cui la vocazione lirica si accompagna ad una costante e acuta vigilanza critica”, curò che Antonino Cremona entrasse a far parte (nel Giugno 1953) della redazione de il belli. E nel Giugno 1954 su il belli, il bimestrale di letteratura dialettale fondato e diretto in Roma da Mario Dell’Arco, apparvero tre liriche di Antonino Cremona, lamentu pi la morti dô me sciatu, li canzuna e lu scantu.



occhi antichi

Resta nall’ortu l’ecu dê canzùna
(comu t’accùpa stu suli, st’arsura
ca conza li canti dê griddi)
li rami di l’àrbuli pénninu nterra.
Cca, fumannu li pinzéra,
sugnu na lampa ca s’astuta.
Cuntu li pidàti ni sta càmmara bianca,
cu i manu nsacchetta.
Ma ti viu lìbbira e nuda.
Muta
tinni isti. E ttu gattìi
a cu ti teni mmrazza e ‘un ti canusci.
Siddu arrìdi. Ca forsi ti spunta
la me facci nguttàta.

Occhi antichi. Resta nell’orto l’eco delle canzoni / (come ti soffoca questo sole, quest’arsura / che orchestra i canti dei grilli) / i rami degli alberi pendono a terra. / Qui, fumando i pensieri, / sono un lume che si spegne. / Conto i passi in questa camera bianca, / con le mani in tasca. / Ma ti vedo libera e nuda. / Muta / te ne sei andata. E tu fai la gattina / a chi ti tiene in braccio e non ti conosce. / Se ridi. Ché forse ti spunta / la mia faccia che trattiene il pianto.



occhi antichi è la prima opera di Antonino Cremona, portata alle stampe quando ancora non aveva compiuto i venticinque anni di età. È la sola silloge dialettale che egli abbia prodotto (dopo infatti non volle più scrivere poesia in dialetto – tranne che per talune traduzioni – sostenendo semplicemente che non ne avvertiva lo stimolo): una raccolta di diciassette liriche, pubblicate nel 1957 per le edizioni Sciascia di Caltanissetta, scritte tra il 1953 e il 1954; alcune “vergate su carta igienica perché me n’era finita ogni altra.”

Tutte e diciassette le liriche di occhi antichi sono state poi riproposte ne L’odore delle poesie (Sciascia, 1980), edizione nella quale è stato aggiunto un diciottesimo testo un mortu, del 1953, inizialmente incluso nella antologia POETI SICILIANI D’OGGI, curata nel 1957 da Aldo Grienti e Carmelo Molino, Reina Editore in Catania, e progettata e realizzata allo scopo di tirare una sorta di bilancio dell’attività intensa di promozione del rinnovamento della poesia dialettale siciliana del dopoguerra di cui erano stati protagonisti un gruppo di poeti palermitani e un gruppo di poeti catanesi.        

      Le liriche di Antonino Cremona presenti nella antologia POETI SICILIANI D’OGGI sono: occhi antichi, la pena, un mortu e li pinzera. Antonio Corsaro, che ne redige introduzione e note critiche, nei suoi riguardi così si pronuncia: “Antonino Cremona possiede una conoscenza critica dei problemi che oggi si dibattono sulla corrente dialettale moderna e si occupa di questioni filologiche con risultati degni d’attenzione. Questa sua base di cultura non frena però l’irruenza dei sentimenti, anzi gli giova benissimo a controllare gli interessi della sua poesia.” Afferma inoltre: “I dialettali non sono mai stati estranei alle vicende della cultura nazionale” poiché coglieva uno dei motivi centrali del movimento.

E a sostenere quasi questa ultima asserzione, Gian Luigi Beccaria, in letteratura e dialetto, editore Zanichelli 1983, ribadisce: “Nel corso dei secoli la letteratura dialettale non conosce eclissi salvo che nel Rinascimento. L’esperienza storica più complessa è negata a quella letteratura. Ciononostante non è affatto letteratura subalterna di interesse locale. Coesiste, con pari diritto, accanto alla nazionale con la quale forma cordiale e ricca unità, feconda di scambi.”





Il poeta e letterato Vittorio Clemente, nel 1957, commenta: “La cultura del poeta, lo studio dei testi, il suo gusto lo hanno portato a scoprire valori e bellezze mai prima sospettati nel dialetto. Poesia vera siciliana e non in siciliano.”
Felicissime altresì le considerazioni di Giuseppe Angelo Peritore: “L’uso del dialetto in questi componimenti è la parlata di ogni giorno, scavata nel vivo della pietra, nel dolore e nella passione amorosa, nella sofferenza della storia e delle idee. Una particolare morfologia assiste Cremona nella creazione dialettale; la pagina gli è nata nel suo dialetto agrigentino non in un siciliano generico e compromesso.”

       Vincenzo Di Maria, nel 1971, segnala alcuni aspetti illuminanti della scrittura dialettale del poeta agrigentino: “La parola subisce certamente la distillazione più oculata e severa, l’empito viene concentrato sino a prosciugarsene d’ogni umore superfluo.” E il volume II di ANTIGRUPPO 73 ideato da Nat Scammacca e Santo Calì e introdotto dallo stesso Di Maria offre due testi di Antonino Cremona: a la sagra di li ménnuli sciuruti e lamentu pi la morti dô me sciatu.

         Pietro Amato inoltre, nel Maggio 1977, riconosce, nel dialetto di occhi antichi, il “girgentano nativo” egregiamente “acculturato nello scrupolo filologico e accresciuto nella invenzione linguistica.”
Il MANIFESTO della nuova poesia siciliana, edizione Arte e Folklore di Sicilia, Catania 1989, a cura di Salvatore Camilleri, pubblica quattro componimenti di Antonino Cremona, s’annivisci garcìa, godot, li pinzera, occhi antichi, e una breve chiosa: “In termini poetici, Antonino Cremona è un anarchico, un irregolare, un cavallo che non soffre freno. È stato uno dei primi a rompere con la tradizione.”  
Antonino Cremona venne antologizzato nel volume il dialetto di poeti, Edizioni Piovan del 1988, a cura di Giacomo Luzzagni, e in seguito nei due volumi poesia dialettale dal rinascimento ad oggi, a cura di Giacinto Spagnoletti e Cesare Vivaldi, Garzanti Editore 1991, in cui venne definito “autentico poeta nel panorama dialettale degli ultimi anni”.
Fu uno dei protagonisti di quel movimento del secondo Novecento denominato Rinnovamento della Poesia Dialettale Siciliana, che, sottolinea Salvatore Di Marco, è storia interessante di idee e di poeti, di mutazioni culturali e inquietudini sociali, di sperimentazioni e di esiti anche importanti però rimasti sconosciuti a chi ha ritenuto che il solo pannello solare capace di dare nuova energia alla letteratura siciliana dialettale fosse quello esclusivo di Ignazio Buttitta, è ciò semplicemente perché lo si trovava già collocato più in alto degli altri.

Antonino Cremona privilegiava le coordinate di un testo poetico, ritenendo che “il testo è il suo stile, mai il suo argomento, giacché il contenuto viene determinato dalle esigenze della scrittura.” E se accadde l’inverso, “non si avverte nemmeno l’odore della poesia.” Soleva dire che come poeta amava “esprimersi più che comunicare”, e ammetteva che la scelta dialettale era motivata dalla “accortezza di esprimere i propri sentimenti e i propri concetti nel modo più acconcio alla sensibilità.” 
Volle scommettere adottando il “girgentano” (un “proprio” girgentano) pur sapendo bene che Alessio Di Giovanni lo aveva stigmatizzato come “la via più spiccia” (“Due vie s’aprono oggi ai degni cultori del nostro dialetto: o scrivere nel vernacolo natio o seguire, rendendola più moderna, più colorita e più mossa, quella nostra vecchia e scaltrita lingua siciliana. 

I nostri poeti e drammaturghi contemporanei ha seguito la via più spiccia scrivendo quasi tutti o in palermitano o in catanese o in agrigentino”, Alessio Di Giovanni nel saggio del 1896 Saru Platania e la Poesia dialettale in Sicilia), e questa fu la ragione – insieme al suo fisiologico rifiuto di associarsi a gruppi e scuole letterarie – per la quale egli non volle mai essere incluso organicamente nel Gruppo Alessio Di Giovanni, al quale tuttavia lo legarono sempre sia comuni e condivisi progetti di rinnovamento letterario, sia forti e duraturi sentimenti di fraternità (specie con Pietro Tamburello e Salvatore Di Marco).

La “lezione” tenuta all’Istituto di italianistica dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, in data 11 Aprile 2003, ci aiuta a intendere più compiutamente il pensiero di Antonino Cremona: “Ai sentimenti sostituisco le sensazioni, ai valori preferisco le virtù, la morale non mi garba perché tendo all’etica. Rinunziando a concetti che hanno del molliccio, dell’appiccicoso, preferisco la limpidezza luminosa di quanto è netto. Oggettivizzo quanto più possibile. Ho fatto un lungo, faticoso, dolorante, percorso dall’io al tu e al noi sino a pervenire magari a una assenza grammaticale del soggetto.”

Componente fondamentale della sua personalità – annota Sergio Spadaro nel saggio l’espressionismo mediterraneo di antonino cremona – era la sua ironia, che egli faceva discendere direttamene dal suo conterraneo Empedocle, del quale aveva tradotto le purificazioni. Antonino Cremona al riguardo riferisce: “Studiandolo, mi sono rafforzato del suo pacifismo, dell’ira laica avversa ai sacrifici, della sua ironia e autoironia, della sua contrarietà assoluta alla pena di morte. L’ironia non è solo un modo di resistere ma pure uno strumento di conoscenza. L’autoironia è una possibilità di autoispezione, per conoscere se stessi e per difendersi da se stessi.”  


 

Occhi antichi è un’opera significativa della poesia dialettale del secondo Novecento siciliano. I temi protagonisti sono la memoria amorosa, le tensioni della nostalgia, il segno dei destini ultimi dell’uomo contemporaneo e delle sue sofferte futilità, la presenza di figure di uomini e di donne il cui richiamo insiste sulla amarezza della loro condizione sociale. 
Se ne riportano, in calce, alcuni componimenti nella traduzione dell’Autore, tra i quali a la sagra di li ménnuli sciuruti che fu il primo (“su commissione di Mario Dell’Arco”, precisa il poeta) e l’omonimo occhi antichi.

La memoria di Nino Cremona, poeta dialettale, autore teatrale, saggista e critico letterario, redattore di riviste italiane ed estere, merita di essere onorata, come convenientemente hanno fatto Salvatore Di Marco e Sergio Spadaro nei saggi l’anima girgentana nella poesia dialettale siciliana di antonino cremona e lettere per un poeta sopra menzionati. E ciò nel tentativo di smentire lo stesso Antonino Cremona che, a proposito del poeta niscemese Mario Gori in una lettera del 21 Aprile 1997, aveva amaramente rilevato che “la Sicilia è un cimitero di dimenticati”. 


un mortu

Ora ch’è mortu si mancia la terra.
La malasorti lu fici piniari
senza lu vinu
e un pugnu di furmentu
e na mnuzza ca coci a minestra.
Morti di longu cu li fasci nivuri
ci fici li banneri nâ la porta.
Finì lu diavuluni e la Madonna,
ca s’arriposa
ad occhi chiusi.
Li figli ca nunn’appi nun li cerca
vermi vermi, ca prima li tantiàva
nê mura dô pagliaru; e nun la canta
la zappa ntra li timpi î malandata.
Li caddi di li manu arripudduti,
e li nasu affilatu. Bona paci.

Un morto. Ora ch’è morto si mangia la terra. / La malasorte lo fece penare / senza il vino / e un pugno di frumento / e una mano che cuoce la minestra. / Morte a lungo con le fasce nere / gli fece le bandiere nella porta. / Finì il Diavolone e la Madonna, / ché riposa / ad occhi chiusi. / I figli che non ebbe non li cerca / fra i vermi, ché prima li annaspava / ai muri del pagliaio; e non la canta / la zappa fra le zolle della malannata. / I calli delle mani / e il naso afflato. Buona pace.      



godot

En attendant Godot sta morti
ca ‘un meni ti dassi vampi di focu,
friddulina; ti calliassi nê manu
l’occhi di vitru. T’arriparassi
nô fazzulettu di sita.
O morti
e bita. Sti manu friddi
longhi, sti taliatùri d’ogliu
ca mi sciddricanu ncoddru
mentri avvampi, stu coddru tisu
cu la testa ô ventu. Tutta
t’arriparassi nê me iunti.
Ti quadiassi cû sciatu.
Tu ’un ci senti.

Godot. En attendant Godot questa morte / che non viene ti darei vampe di fuoco, / freddolosa; ti scalderei nelle mie mani / gli occhi di vetro. Ti riparerei / nel fazzoletto di seta. O morte / e vita. Queste mani fredde / lunghe, questi sguardi d’olio / che mi scivolano addosso / mentre avvampi, questo collo dritto / con la testa al vento. Tutta / ti riparerei nelle mie mani giunte. / Ti scalderei col fiato. / Tu non ci senti.


                                                                                              Marco Scalabrino