Lucia
Grassiccia
ELEVATOR
Prospero
Editore 2013
di Marco Scalabrino
Sei qui da due
settimane. A parte il nome e il piano in cui abiti, so poco di te. Ho imparato
a distinguere il tuo passo. Due settimane possono bastare. Mi sento felice. Per
la prima volta qualcuno è lì dove sono anch’io. Prendi corpo nei miei sogni. E
comincio a sapere di essere innamorato. Irrimediabilmente. Ora so che forma ha
un desiderio, ragazza dolce cui tutte fanno un baffo.
Una coppia di bambine, forse sorelle, si somigliano.
Una ha circa dieci anni, l’altra ne avrà sei o sette. Vestono colori chiari,
che ne esaltano i capelli biondi. La più piccola dice: “Ma perché, signore,
stai nell’ascensore?”
Il suo corpo sembra una pasta piatta che attenda
di lievitare.
Ogni piano sta tra altri due, ma nessuno sta con
un altro. Si stanno accanto senza vedersi, paralleli. E così tutti quelli che
lo popolano, soli, lontani. Ma come fa un piano, solo perché è sopra o sotto a
un altro, a costruire qualcosa di verticale? Come fa un piano a darsi delle
arie, solo perché bucato da porte e finestre? Come fa un piano a riprendere
fiato, quando tutti lo calpestano?
Sette sono questi piani. La sua casa li
attraversa tutti.
Se la solitudine avesse un nome, non si
chiamerebbe solitudine, perché neanche un nome potrebbe tenerle compagnia.
Per alcuni giorni l’ascensore quasi non viene
usato; qualche crisantemo, dei gladioli e delle calle vengono depositati dentro
la cabina.
Piuttosto che una
recensione, la quale, a parer nostro, mal si attaglierebbe alla portata di
questo romanzo finendo col risultare riduttiva rispetto al fitto reticolato che
lo costituisce, preferiamo proporre una lettura, una presentazione, una sorta
di racconto di quest’opera, che ne possa cogliere le molteplici dimensioni
della struttura, ne possa circostanziare quante più sapide e argute circostanze
che vi sono disseminate, i cui nuclei salienti, in estrema sintesi, abbiamo esposto
nei precedenti stralci introduttivi.
Romanzo non di genere, mordace,
spigliato, articolato, al livello fondamentale del quale si sovrappongono, dal
quale si diramano, nel quale agiscono, nel tempo e nello spazio, numerose altre
superfici e pertinenze.
L’Amante ha smarrito il piacere della musica, il
piacere del cibo, il piacere del vino. Colui che l’Amante ama non solo è il problema
ma anche la soluzione al problema. L’Amante è un viaggiatore; un ascensore lo
conduce in cima e poi di colpo lo affossa.
L’Amante introduce quasi
tutti i livelli, pardon, capitoli di
questo romanzo. L’insistita reiterazione (una decina di frame) fa d’emblée pensare
che questa sia l’ennesima odissea di passioni, di sentimenti, d’amore e che l’Amante,
appunto, ne sia l’eroe. E in buona misura, vedremo, lo è; bensì non nei termini
che di primo acchito quegli stralci sembrerebbero suggerire.
In quel palazzo lì, ci ragguaglia
l’Autrice quasi avesse percepito la nostra sommessa sollecitazione, ha luogo
l’azione.
Quel palazzo lì ha sette piani. All’interno,
sulla destra del cortile, c’è il vecchio ascensore di ferro. Un ascensore anonimo
di un vecchio condominio di un vecchio quartiere, di una città che non si sa
bene se vecchia o nuova. Si apre, si chiude, sale, scende; la ruggine
s’intreccia a residui di vernice strappata dal tempo. Un ascensore di quelli
che ci si può vedere la gente attraverso. Non si dice mai che si viaggia,
quando si va in ascensore, solo perché ci si sposta in verticale invece che in
orizzontale.
Ci colpiscono favorevolmente,
sin dalle primissime battute, le immagini che l’Autrice sa creare, gli esiti di
tutto rispetto ai quali riesce a pervenire, efficaci quanto alla coerenza
tematica, alla icasticità, alla pregnanza lirica. Abbiamo d’altronde contezza
che lei sia dotata di un variegato e qualificato bagaglio di studi e di letture,
che vanno da Dostoevskij a Pirandello, da Shakespeare
a Ionesco, da Kafka a
Sciascia, e che altresì ha dimestichezza col repertorio di cantautori impegnati
quali Gaber e Brassens; letture, studi, ascolti che ne suffragano e accreditano
il talento, la fresca vena e la verve affabulatoria. Ne discende, in un registro
amaro, sferzante, grottesco, un’apprezzabile scorrevolezza di penna, una rodata
perizia nel fare susseguire le pagine, una scrittura concreta intrisa della
lingua parlata, la cui sintassi e punteggiatura si appoggiano talora alle trame
meno formali proprie del timbro colloquiale.
Di tali realizzazioni,
oltre a quel paio delle quali ci siamo già avvalsi (Come fa un piano a darsi
delle arie, solo perché bucato da porte e finestre?;
Non si dice mai che si viaggia, quando si va in ascensore, solo perché ci si sposta in verticale invece che in orizzontale), riportiamo alcuni suadenti esempi: La polvere fa tanta paura perché rende visibile il tempo che passa;
Un grido svergina l’ingresso della finestra aperta;
Il retro dell’orecchio esercita un certo magnetismo per le manifestazioni di titubanza;
La notte è il luogo delle voci che si allungano in eco lontane;
La coscienza è un modo di raccogliere la colpa che sarebbe caduta per terra;
Cosa succederebbe se la vergogna fosse solo un pigmento per le guance?
Non si dice mai che si viaggia, quando si va in ascensore, solo perché ci si sposta in verticale invece che in orizzontale), riportiamo alcuni suadenti esempi: La polvere fa tanta paura perché rende visibile il tempo che passa;
Un grido svergina l’ingresso della finestra aperta;
Il retro dell’orecchio esercita un certo magnetismo per le manifestazioni di titubanza;
La notte è il luogo delle voci che si allungano in eco lontane;
La coscienza è un modo di raccogliere la colpa che sarebbe caduta per terra;
Cosa succederebbe se la vergogna fosse solo un pigmento per le guance?
I locali della casa sono stretti. La luce che
filtra dalla grata sembra rispondere a una preghiera. Il marmo della cucina è graffiato.
L’acqua genera più umido che pulizia. Il caffè versato sul piano cottura sembra
un test di Rorscharch. L’uomo coi baffi tagliati male lancia un’occhiata
all’ascensore, che non usa pressoché mai, abitando al pianterreno.
L’uomo coi baffi
tagliati male è il primo dei protagonisti a calcare la ribalta; ne segue una rapida
descrizione del modesto appartamento e se ne precisa la collocazione rispetto ai
piani dello stabile: al pianterreno, tanto che egli l’ascensore non lo usa mai.
Non ha un nome, come del
resto constateremo ogni altro protagonista di quest’opera, ma un peccu (una ingiuria, come nella
tradizione popolare siciliana) che lo definisce, una locuzione che lo
contraddistingue.
Ha, ovvero, la sua “maschera”, quella, appunto, dell’“uomo coi baffi tagliati male”.
Ciò peraltro, quantunque non sviscerandone la psicologia, delinea un tratto emblematico dei personaggi, ribadisce l’impianto manifestamente teatrale di questo testo. Il richiamo all’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht, della quale in seno a questo lavoro è in corso l’allestimento, ne è lampante testimonianza.
Ha, ovvero, la sua “maschera”, quella, appunto, dell’“uomo coi baffi tagliati male”.
Ciò peraltro, quantunque non sviscerandone la psicologia, delinea un tratto emblematico dei personaggi, ribadisce l’impianto manifestamente teatrale di questo testo. Il richiamo all’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht, della quale in seno a questo lavoro è in corso l’allestimento, ne è lampante testimonianza.
Le macchie di Rorschach, alle quali si è appena
fatto cenno (così chiamate dal nome
del loro creatore Hermann Rorschach), sono la
base di uno strumento per l’indagine della
personalità che si compone di dieci tavole, su ciascuna delle quali è riportata
una macchia d’inchiostro simmetrica. Le tavole, cinque monocromatiche, due
bicolori e tre colorate, vengono sottoposte all’attenzione del soggetto una
alla volta e, per ciascuna e senza limiti di tempo imposto, gli viene chiesto
di esprimere tutto ciò cui secondo lui la tavola somiglia.
Ma non è la sola citazione colta alla quale l’Autrice fa ricorso. Delle
altre, infatti, vi si affiancano e fra esse quella relativa al numero sette, fin
troppo nota e ciò malgrado nel nostro caso pertinente, e quell’altra, ben più avvincente,
che concerne il musicista russo Dmitrij Šostakovič.
Ricco di significati
simbolici, il sette è il
numero delle virtù, dei peccati capitali, delle vite di un gatto. Le meraviglie
del mondo antico e moderno sono sette, come i re e i colli di Roma, le note e
le chiavi musicali. Il Corano dice che il mondo poggia su sette colonne; l’Apocalisse
sostiene l’esistenza di sette sigilli la cui rottura annuncerà la fine del mondo.
Biancaneve riparò dai sette nani e, quel che per noi più vale, sette sono i
piani di quel palazzo lì.
Quanto a Dmitrij Šostakovič,
secondo un neurologo cinese, egli sentiva delle musiche grazie a un frammento mobile
di granata ficcato nel cervello. Quando la scheggia tamponava la zona musicale
del lobo temporale produceva delle melodie che chiunque altro probabilmente
avrebbe sentito, magari non identiche, se avesse avuto in quel punto esatto del
cervello un frammento di granata. E Šostakovič non voleva che gli estraessero
quel cosino a disposizione del suo genio musicale.
Dei personaggi nei quali man mano ci imbatteremo, dei principali
quantomeno, appronteremo una misurata scansione: l’ubicazione nel palazzo, l’attività,
qualche prerogativa.
Uno strato di cemento più su dell’uomo coi baffi
tagliati male, al primo piano di quel palazzo lì, è adagiato su un tavolo un
libro di ricette di cucina mediterranea dalla copertina rigida e splendente. La
studentessa coi baffi tagliati bene, dal biancore lentigginoso, le trecce che
le incorniciano il viso, i brufoli che le forano le guance, ha estratto dalla
credenza il volume, dato che intende preparare dei biscotti con pasta di mandorle.
Sono le tavolette di
cioccolata a ricordarle le origini dell’epiteto che tiene cucito addosso sin
dagli anni del liceo. Una sua compagna di classe festeggiava il compleanno …
“Ma cosa ci fai con quel pezzo di cioccolata sui baffi?!”, aveva esclamato il
compagno alto, bello e antipatico. Da quella volta lì, la studentessa coi baffi
tagliati bene, non aveva più mangiato cioccolata in pubblico e aveva deciso di
tagliare i baffi regolarmente.
Guarda un po’ la
cioccolata! Ma non è in quel di Modica, in provincia di Ragusa, che fanno una
cioccolata fra le più gustose e speciali d’Italia? E non è in quel di Modica, in
Sicilia, che affondano le radici della nostra autrice?
Il giovane uomo coi baffi tagliati (un business manager) lascia entrare la
ragazza col caschetto. Siede accanto a lei e accende il televisore ultrapiatto.
Sul primo canale danno il Gran Premio di Formula Uno di Montecarlo.
Acquisiamo, così, un dato
rilevante (e magari un interesse sportivo dell’Autrice): corre il mese di
Maggio, giacché per consuetudine, da calendario, in primavera e in quel mese si
tiene a Montecarlo il Gran Premio di Formula Uno di Monaco.
Ci risiamo! Daccapo un individuo
con “baffi”. E sono tre; tre su tre. Ebbene, non la tiriamo più per le lunghe, pressoché
tutti i soggetti di questa vicenda, di sicuro i preminenti, siano essi uomini o
donne, giovani o maturi, hanno a che spartire con i baffi (è la
caratterizzazione più accentuata di questo lavoro). Non per nulla poc’anzi il
rimando alla maschera, che ci fa sovvenire il teatro della classicità greca e
latina, nonché, più prossima a noi, la commedia dell’arte della tradizione
italiana. Una maschera simile per tutti e, al contempo, per ciascuno di loro
personalizzata, contrassegnata da una puntuale esclusiva definizione.
Il giovane uomo coi
baffi tagliati abita al sesto piano, il penultimo del condominio; per lui, per
sua stessa ammissione, non è un problema fare sei piani di scale.
Sarà pure un giovane
uomo, è da presumere che sia in ottima forma, con l’elettrocardiogramma sotto
sforzo ripiegato nel portafogli, ma sei piani in salita non sono propriamente
una passeggiata per nessuno. E allora, perché?
È la seconda volta che la ragazza col caschetto va
a trovare il giovane uomo coi baffi tagliati. Anche la prima volta aveva subito
la compagnia del tipo dell’ascensore, le pupille ancorate a un punto
indistinto, avvolto nella sua piccola coperta, che però non le aveva rivolto la
parola. Il giovane uomo coi baffi tagliati le ha detto poco di lui. Da tre
settimane a questa parte detesta il fatto che il suo appartamento si trovi al
penultimo piano del condominio; per fortuna nel suo caso non è un problema fare
sei piani di scale.
In sordina, ecco fa
l’ingresso in scena il tipo dell’ascensore, lo strano signore in ascensore,
l’uomo dell’ascensore. Apprendiamo che egli staziona (dire vive è un azzardo)
in ascensore da tre settimane.
La posizione dell’uomo è invariata rispetto alla
giornata di ieri e anche dell’altro ieri. Riesce a stare con braccia, gambe e
capo nella medesima posizione per interminabili ore, come se il fastidio e la
volontà non facessero parte del suo mondo.
La coperta, dallo stesso colore dei
sacchi di juta usati per trasportare le patate, lo fa somigliare a un vulcano. L’uomo
coi baffi più buffi del mondo, che abita al quarto piano di quel palazzo lì, quando
fa i turni di notte all’ospedale, qualche volta tornando a casa lo trova
sveglio, raggomitolato nel suo angolo, arrotolato nella coperta.
E
chiacchierano per un pezzo, a bassa voce per non disturbare il palazzo che
dorme.
In apparenza il più
impresentabile di quella assemblea, l’uomo dell’ascensore risulta, viceversa, essere
il pezzo imprescindibile, il perno, il cardine, benché non il protagonista, di
questa pièce. Protagonista ne è, di fatto,
quel vecchio palazzo lì, metafora, nel suo agglomerato di materia inerte e vivente,
della nostra società disgregata, dell’umanità scriteriata che vi gravita, che
vi brulica sopra, sotto, di lato, di passaggio, di proposito, per sgarro, e non
già quel singolo uomo.
L’intera vicenda, nondimeno,
ruota attorno a quell’uomo: al suo compito distacco, al suo volontario confino,
alle origini sfocate di quell’ambaradan. I suoi pensieri, formulati ormai a
fatica, fluttuano flebili.
Non so più distinguere un giorno dall’altro. Non
saprei chiamare il venerdì o la domenica per nome. Anche stamattina ricevo
visite. Chiamano l’ascensore. Sentirmi sollevare è così immenso. È il mio
viaggio perpetuo verso lei, senza arrivo.
Ma chi è? Cosa ci fa lì
dentro? E perché ci sta? Dove abitava? Cosa faceva prima? E che vuole intendere
con la frase: “È il mio viaggio perpetuo verso lei, senza arrivo”. E questa lei,
chi è?
Please, be patient!
La donna senza baffi (ma
se li avesse sarebbero impeccabili), dalle caviglie sottili, abita al quinto
piano di quel palazzo lì. Le prove de L’opera
da tre soldi sono riprese; manca una settimana allo spettacolo. Dovrà
interpretare Jenny delle Spelonche, la prostituta che ebbe il coraggio di
tradire la fiducia del temibile Mackie Messer, ma deve ancora farne una
profonda conoscenza.
La donna senza baffi (ma se li avesse sarebbero
impeccabili) scende le scale, Jenny delle Spelonche in testa. Corre; non può
permettersi di arrivare in ritardo al teatro. Il palco è pronto, gli altri sono
su a provare le battute. Sbircia sul copione che tiene in mano.
Taluni personaggi, fra
loro la vedova dai baffetti biondi che abita al terzo piano, hanno un profilo
più marcato di altri e su essi l’Autrice insiste.
Riguardo alla vedova dai
baffetti biondi, con un atto di complicità, ci mette al corrente del suo penoso
segreto.
Il capo di suo marito la chiama al telefono. Le riferisce
che il marito è appena stato raccolto dal marciapiedi e che vi è arrivato
dall’impalcatura dell’ottavo piano.
Dopo quelle parole non ricorda cosa sia successo.
Le viene in mente che sta per esaurirsi la scorta dei pannolini. Esce da quel
palazzo lì per le scale. In ascensore lei e il passeggino insieme non ci
stanno, da quando quell’uomo ne ha fatto la sua dimora. Per strada, alcune
persone dopo aver sbirciato all’interno del passeggino, nei pochi secondi che
permettono a due passanti di scambiare uno sguardo, la guardano con più
attenzione. Forse è solo una sua sensazione, pensa, che sgranino gli occhi.
Al
ritorno non se la sente di fare le scale. Entra nel quadrato dell’ascensore che
è al pianterreno.
Lascia il passeggino nel pianerottolo; prende solo il
bambino. Salgono.
“Si è calmato”, bisbiglia mentre guarda all’interno delle
proprie braccia. Così calmo ora, il suo bambino, che sembra quasi non esserci. Sì,
il suo piccolo si è calmato. Sì, c’è qualcosa di più dell’aria, dentro le sue
braccia.
Lei ci crede, è tutto quello che conta.
Il terzo piano li accoglie.
L’uomo
coi baffi tagliati male si chiede se sua cognata scoprirà mai che non ha
partorito nessun bambino, né un anno fa, come crede, né prima e né dopo. Era un
grosso desiderio, che questo bambino esistesse, prima che suo fratello morisse,
ma non avevano fatto in tempo. Nella credenza ci sono cartoni su cartoni di
latte in polvere e la polvere sui cartoni di latte in polvere. Anche se non li
consuma, lei è certa di consumarli, di preparare il latte per suo figlio, di
cambiargli i pannolini, di fargli il bagno e quindi compra tutto regolarmente.
Un ordito, fin qui, intrigante,
per la singolarità della situazione e dei personaggi, irrigiditi, questi, nelle
loro solitudini, ingabbiati nei loro egoismi, soverchiati dal loro rituale sopravvivere,
che paiono avere escluso, schiantato, azzerato, qualsivoglia pratica
relazionale.
La signora con i baffi
approssimativi, il consulente coi baffi un po’ da gay, il belloccio coi baffi
sottili, eccetera, ne allungano l’elenco e stratificano una situazione che, nel
suo sinuoso dipanarsi, rasenta il paradosso.
Ma, i condomini e i non del
palazzo quale atteggiamento tengono rispetto ad essa?
L’uomo coi baffi più buffi del mondo vorrebbe
aiutare quell’uomo. Il giovane uomo coi baffi tagliati, se la decisione
dipendesse da lui, chiamerebbe le forze dell’ordine. L’uomo coi baffi tagliati
male non nutre simpatia per l’imbacuccato, non si sente entusiasta nel
rischiare di calpestare le sue feci né di sentirne il fetido odore.
La vedova
coi baffetti biondi comprende l’agonia dell’incompletezza che deve portarsi
addosso, prova compassione per il pover’uomo. La studentessa coi baffi tagliati
bene non si è data il tempo di ragionarci; quell’uomo la incuriosisce, ma
vederlo le fa percepire una cronica idea di sporcizia, cosa che capita anche al
giovane uomo coi baffi tagliati. La donna senza baffi (ma se li avesse
sarebbero impeccabili) ha lo sguardo malinconico quando si parla dell’uomo
dell’ascensore; ogni tanto si ferma a conversare con lui.
Il ragazzino senza
baffi, abitando al secondo piano, usa l’ascensore solo per salire, mentre per scendere
salta giù i gradini a tre a tre; da quando quell’uomo ha deciso di farne la sua
casa, i suoi genitori gli hanno proibito di usarlo.
Gli stessi, inoltre,
l’Autrice s’ingegna a classificare in diverse distinte categorie, di ognuna delle
quali fornisce altresì l’indicazione di massima della consistenza numerica.
Ci sono, ad esempio, gli irritati. Gli irritati
di quel palazzo lì sono coloro che vedono nell’uomo dell’ascensore un sacco
ingombrante per chi deve spostarsi tra i piani. Costretti a contorcersi, a
cacciare i piedi in qualche interstizio per non calpestare i centimetri
appartenenti all’uomo dell’ascensore, mantengono alto il mento per ridurre al
minimo le possibilità di incrociarne lo sguardo.
È la categoria che conta il
maggior numero di adesioni: il giovane uomo coi baffi tagliati, i genitori
della studentessa dai baffi tagliati bene e quelli del ragazzino senza baffi,
un tale turista dalla barba nascente. Ci sono i disponibili a usare l’ascensore
nonostante tutto: aderiscono alla parete più sgombra e tengono gli occhi fissi
sull’uomo dell’ascensore, a verificare che tutto sia sotto controllo. Nel loro petto
guizza un primordiale senso di repulsione per quell’uomo e tuttavia la sua
presenza non costituisce un motivo valido per affaticarsi per le scale.
Disponibili a usare l’ascensore nonostante tutto sono la vedova coi baffetti
biondi e alcuni ospiti dei condomini ai piani medio-alti e alti. Ci sono poi i
falsi indifferenti: si tengono a debita distanza dall’ascensore come se non si
fossero mai accorti che un uomo lo occupa.
È il caso della studentessa dai
baffi tagliati bene, del ragazzino senza baffi, dell’uomo coi baffi tagliati
male. E infine gli aiutanti timidi, i quali vorrebbero fare qualcosa di concreto
per quell’uomo.
L’uomo coi baffi più buffi del mondo e la donna senza baffi (ma
se li avesse sarebbero impeccabili) fanno parte della schiera degli aiutanti
timidi, che conta poche anime.
Dopo questo ampio, necessario
preambolo, ci aspettiamo, si impone, il colpo di scena, lo sbocco, la svolta
che ci prepari, ci orienti verso la conclusione. In regia, lo si avverte.
E dunque accade che, rientrando
alle 4.00 del mattino, l’uomo coi baffi più buffi del mondo noti che per la
prima volta dopo diversi giorni l’uomo dell’ascensore ha cambiato radicalmente
posizione.
Sta a pancia in giù, piegato sulle ginocchia e
con la testa china fino a terra, come se stesse pregando. Cosa sia successo non
sa, ma al cospetto dei suoi occhi qualcuno sta male. Scende al suo piano. La
sua professione di infermiere gli ha fatto sollevare tante persone sulle
braccia. Solleva l’uomo fino al suo soggiorno. Apre la porta e lo adagia sul divano.
Lo separa dalla coperta per manovrare gli arti e il busto, a cercare per lui
una postura comoda e corretta, ma fa in fretta e lo ricopre, come se non si
sentisse autorizzato a vederlo scoperto. Si affaccenda per medicare l’uomo.
Avendolo trovato al sesto piano, ha un’idea su chi possa essere il responsabile
di quel che si trova sul suo divano.
Secondo il ragazzino
senza baffi, l’uomo dell’ascensore è un affare strano, ma niente affatto cattivo.
Stabilisce che andrà a parlare con l’uomo coi baffi più buffi del mondo, della
manovra del quale si è accorto dalla sua finestra.
“È qui che lo tieni …?”,
punta il pollice in direzione dell’ascensore. “Vuoi dire … sì, è sul mio
divano. Entra, se vuoi vederlo, ma non sta molto bene”.
Finora non ci si è interrogati
in che tempo è ambientata la narrazione. Qualche indizio, sì, ma non una data
precisa è trapelata. Opportuno, un passaggio sopraggiunge a soddisfare la
nostra lecita curiosità e la colloca nella attualità, ai nostri tempi, con espliciti
riferimenti alla musica house e all’i-phone e prima, non ci è sfuggito, al
televisore ultrapiatto.
Essa quindi,
riflettiamo, sta accadendo giusto oggi, da qualche parte in un isolato attiguo
al nostro. Non lontana da noi; non estranea a noi.
L’Old Scottish Pub accoglie la donna senza baffi (ma se li avesse
sarebbero impeccabili) e il suo collega. Due boccali di birra scivolano sul
tavolo.
Un gruppo di amiche in fondo al locale, dove una
musica house tiene compagnia, ridono guardando
delle foto da un i-phone. Qualcuno
entra. La donna senza baffi (ma se li avesse sarebbero impeccabili) riconosce
l’uomo coi baffi più buffi del mondo. Trova curioso che abiti sopra la sua
testa e sappia così poco sul suo conto: il nome, il cognome, il lavoro, il
paraurti ammaccato dell’auto, il pianoforte che suona di tanto in tanto. Ma, si
dice, sarà colpa sua: è sempre così indaffarata. “Sai qualcosa dell’uomo
dell’ascensore?”, chiede. “Non so cosa gli sia successo, ma adesso è a casa
mia. Stamattina verso le 4.00, quando sono rientrato, l’ascensore era bloccato
al sesto piano. Sono andato a controllare e l’ho trovato lì, quasi privo di
sensi. Temo che qualcuno lo abbia picchiato”. “Santoddio...”, fa la donna senza
baffi (ma se li avesse sarebbero impeccabili). “Hai detto che era al sesto?” Si
guardano. Forse formulano la stessa ipotesi.
Il mattino successivo
l’uomo dell’ascensore non si è spostato di un centimetro. Non parla, non ride,
non risponde allo stato delle cose. Occupa lo spazio del divano. Quest’uomo,
che da ultimo appuriamo essere stato il portiere di quel palazzo lì, per delle
cause ancora ignote, ha vissuto per qualche tempo accasciato su sé stesso
dentro l’ascensore. Di giorno e di notte.
Quella era la sua nuova casa, quell’ascensore
che conosceva come il palmo della sua mano, così come conosceva il resto del
condominio. Nessuno degli attuali condomini era arrivato prima di lui in quel
palazzo lì. Aveva iniziato lavorando in portineria. Lo considerava un lavoro
provvisorio all’inizio; ma qualcosa poi gli fece cambiare idea. Decise di
rimanervi, abbandonò le sue ambizioni, tutti i suoi sogni nei cassetti li
chiuse a chiave per sempre.
L’ascensore ora è desolatamente
vuoto; è tornato solo l’anonimo ascensore che era prima.
Per un mese era stato
famoso, era stato sugli scudi, oggetto di asfissiante ingerenza, meta ininterrotta
di pellegrinaggio, grigio simulacro di parossistico culto; era stato elevato a ombelico
di quel circoscritto universo, era stato il set di riflettori morbosi, schifati,
pietosi, tolleranti, l’agorà di una community
(polimorfo assembramento di figure che di norma già vi insistevano e di una nuova
mutevole moltitudine) ammaliata dal reality
che insperatamente, miracolosamente vi si trovava ad essere girato e che proiettava
tutti, vecchi e nuovi, abituali e fortuiti convenuti, trucco e parrucco, a
favore di telecamera, nell’olimpo dello star
system, anche loro finalmente divi.
Dopo un mese passato in
ascensore, senza ascoltare nessuno, senza rispondere a tutti quelli che gli
hanno domandato cosa stesse a fare lì tutto il giorno, cosa stesse a fare lì anche
tutta la notte, cosa accidenti insomma stesse a fare, adesso quell’uomo è svanito
e tutti si chiedono dove sia finito.
Solo a noi, dal nostro
privilegiato osservatorio, è dato sapere che tre di loro sono a conoscenza che egli
continua a sopravvivere sdraiato su un divano del quarto piano: l’uomo coi
baffi più buffi del mondo, che lo ospita, il ragazzino senza baffi e la donna
senza baffi (ma se li avesse sarebbero impeccabili), che se ne sono informati.
Una ipotesi si è fatta
strada, per tutto ciò, fra i condomini. In cuor loro sanno perché quell’uomo, che abitava al settimo piano di quel palazzo
lì, ha cambiato vita improvvisamente. Sanno che da quando la signora che stava
al sesto piano è morta, prima che vi si trasferisse il giovane uomo coi baffi
tagliati, tutto è cambiato. Sanno che la morte di lei sta portando via anche
lui.
Il romanzo, s’è detto, è
ambientato nella piena attualità, ai nostri giorni, ma non abbiamo difficoltà
alcuna ad intuire che esso, come appena
sopra ribadito e come ventilato in apertura, ha però scaturigini remote
e che ha a che fare col nostro uomo,
con quel qualcosa che gli fece drasticamente cambiare idea sulla propria
vita: un amore, la ragazza dolce cui
tutte fanno un baffo, che ne segnò l’esistenza.
In silenzio l’ha sorvegliata per quarant’anni. Doveva
stare al suo fianco, pronto se lei ne avesse avuto bisogno. Ha assistito al suo
matrimonio, alla nascita dei suoi figli, alla sua malattia; ha conosciuto i
suoi salti di gioia, i pugni sull’inferriata del balcone quand’era inviperita. Ma
intanto la guardava e sentiva che non ci fosse cosa più bella.
Si arrabbiava se
lei si arrabbiava, era triste se lei lo era, sorrideva se lei sorrideva. Ha sofferto
con lei, ha pianto per lei, ha inventato qualche preghiera rivolto a un Dio cui
non aveva mai rivolto un pensiero prima. Ha osservato il suo volere: l’ha
toccata da lontano, solo col pensiero, l’ha seguita con lo sguardo. Quando lei
aveva cominciato a morire, anche lui ha cominciato a morire.
Senza ulteriori indugi,
scivoliamo così verso l’epilogo. Epilogo che verosimilmente, tutti noi che ci
stavamo affezionando a quell’uomo, che decisamente parteggiavamo per lui, immaginiamo;
che temiamo. Epilogo, in un improbabile giorno di pioggia di tarda primavera, che
per quanto finora illustrato, si profila, con nostro sommo rincrescimento, annunciato,
tragico, ineludibile.
L’uomo coi baffi più buffi del mondo accende la luce
e poggia la sacca sul divano. Poi torna con gli occhi sul divano. È vuoto. Controlla
in cucina, controlla in tutte le stanze, si agita, si scompiglia i capelli.
Dopo aver guardato in tutti i locali della casa, sul pianerottolo, prima che
giunga all’ascensore, nota nei balconi di fronte la vedova coi baffetti biondi,
ma anche la studentessa dai baffi tagliati bene, in pigiama insieme a sua
madre. A tutti i piani c’è gente affacciata e non è comune in quel palazzo lì.
Altra gente è giù in cortile. La pioggia cade. Sentono in lontananza una sirena.
L’uomo coi baffi più buffi del mondo e la donna senza baffi (ma se li avesse sarebbero
impeccabili) scendono in cortile. Scorgono un angolo di coperta marrone e là,
al centro, il corpo privo di vita dell’uomo dell’ascensore. Qualcuno decide di
coprirgli il volto.
L’ambulanza arriva. La morte
viene confermata. Lo portano via sulla barella. La coperta rimane al centro del
cortile.
E qui si compie la
parabola terrena del nostro uomo; ma non ancora può calare il sipario.
Giacché, come nella
migliore tradizione epico-drammatica, l’eroe non si è immolato invano!
Il suo sacrificio
(termine al presente in auge, come pure è in voga: a 360 gradi) ha ottenuto la
sua (ancorché misera) mercede: come travolti da un improvviso, furibondo
tsunami, per la prima volta, i condomini di quel palazzo lì hanno avuto un
trasalimento, una (effimera) avvisaglia di riscatto.
Tutti i condomini si accorgono di non essere mai
stati così vicini. Non ne hanno avuto il tempo o non ne hanno sentito la
necessità. Eppure abitano di fronte, sopra, sotto, di fianco. Ma ognuno si tiene
ben stretta la propria solitudine; quando non avverte più la propria solitudine
è perché si sente disturbato dai vicini, non perché li senta vicini. E ora per
la prima volta non avvertono gli altri come disturbanti, sono lì tutti per la
stessa ragione. Annusano il profumo dei capelli di qualcuno, si accertano della
statura di un altro, scoprono da vicino uno sguardo timido che da lontano era
sempre apparso diverso.
Una memoria, che passa per le viscere, comincia a farsi
strada in ognuno di loro. Memoria della vicinanza, del contatto. In quel
momento hanno bisogno di essere in tanti, di essere vicini, di guardare negli
altri una reazione e consolarsi davanti a un corpo inerme. L’uomo coi baffi
tagliati male impugna per il collo una bottiglia di amaro e dei bicchierini di
plastica, lo offre a tutti e dice di mandarne giù un goccio. La studentessa coi
baffi tagliati bene va a prendere un vassoio con i suoi biscotti.
Ma il cordoglio, si sa, il
riacquisito senso di solidarietà, il festival della prima volta (Qualcuno è lì
dove sono anch’io; L’uomo dell’ascensore ha cambiato radicalmente posizione; I
condomini di quel palazzo si accorgono di non essere mai stati così vicini) durano
lo spazio di un baleno e … Amen!
Lucia Grassiccia,
modicana, nata nel 1986, è al suo primo libro, del quale ovviamente abbiamo percorso
il solco principale, destinando a un lettore attento quant’altro, parimenti stimolante,
questo e-book può offrire.
Lei ha creduto in questo
lavoro; nelle sue 247 facciate, ha profuso ogni sua migliore energia e ha
confezionato, puntando su due stati di alterazione sempiterni nell’animo umano:
l’amore e la solitudine, un esordio, non convenzionale, a nostro avviso assai convincente,
rivelatore, la lettura del quale ci ha coinvolti. L’autentica vocazione, lo
stile che con prepotenza oggi si sono palesati, viepiù da assecondare, da
consolidare, da perfezionare, unitamente alla giovane età, fanno plausibilmente
supporre che nuove entusiasmanti prove potranno giungere.
E allora, buon lavoro e
a presto rileggerla.
Nessun commento:
Posta un commento