C'è chi per fortuna continua a dissodare il terreno fecondo delle nostre patrie lettere, in siciliano.
Alessio
Di Giovanni
o del rinnovamento della poesia dialettale siciliana
di
Marco Scalabrino
Nel
1946, alla scomparsa di Alessio Di Giovanni, “quel primo nucleo di poeti che
comprendeva le voci più impegnate dell’Isola prese il nome del Maestro e si denominò
Gruppo Alessio Di Giovanni”.
Alessio
Di Giovanni nasce a Cianciana (AG) l’11 Ottobre nel 1872. Terminate le scuole
elementari, nel 1884 segue la propria famiglia a Palermo, dove è avviato alla
carriera ecclesiastica. Dopo circa otto “anni dolorosi” trascorsi alla Cappella
Palatina non sentendosi affatto vocato al ministero sacerdotale, abbandona e si
dedica al giornalismo. “Precipitate le sorti della famiglia” il padre, Gaetano (che
fu studioso di storia locale e del folklore nonché collaboratore di Giuseppe
Pitrè), si trasferisce a Noto per intraprendere la professione di notaio; Alessio
Di Giovanni continua gli studi.
A Noto sposa nel 1895 Caterina Leonardi,
comincia a scrivere, a entrare in contatti con riviste, autori ed editori. Dall’autunno
del 1903 e fino al Settembre 1904, Alessio Di Giovanni – già apprezzato in
quell’ambiente culturale perché il settimanale peloritano il marchesino diretto da Alessio Valore
ha pubblicato parecchi suoi lavori – abita a Messina, dove è andato “in cerca
di un tozzo di pane” e insegna Italiano. In proposito, dalla Corrispondenza Silvio Cucinotta – Alessio Di Giovanni, apprendiamo che
solamente in data 31 Dicembre 1903 Alessio
Di Giovanni ottiene l’abilitazione definitiva all’insegnamento della
lingua italiana nelle Scuole Tecniche, con
assegnazione alla “Scinà” di Palermo. Dal 1904 e fino alla morte Alessio Di Giovanni abita, in vari alloggi ed
indirizzi, a Palermo, tranne che per le guerre, per le malattie e, naturalmente,
per le vacanze estive: “Non vedo l’ora che fuggano questi due mesi di scuola – annota
Alessio Di Giovanni nella Corrispondenza – perché io possa volare
di nuovo in Valplatani”.
Il nome Valplatani venne
creato da Alessio Di Giovanni per
indicare con un unico termine “quella grandiosa distesa di latifondi che,
attraversata in parte dal fiume Platani, muove dal Monte delle Rose da un lato
e dall’altro dai picchi di Caltabellotta e va a finire al mare di Sciacca.”
A Palermo pubblica le sue opere e nascono i suoi figli (Caterina Leonardi e Alessio Di
Giovanni ebbero sette figli, malgrado il proposito di lui di mettere punto dopo
il quarto).
Non
bastassero guerra e malattie ci si mettono anche “Il vaiolo [che] è all’ordine
del giorno” e una “terribile epidemia”, rispettivamente da lui registrate l’8 Dicembre
1911 e il 28 Novembre 1918. Quest’ultima fu la devastante pandemia del 1918-19,
nota col nome di “febbre spagnola”, che provocò nel mondo 15 milioni di decessi.
Esordisce nel 1896 con la silloge Maju sicilianu,
cui seguono, tra i lavori più importanti, Lu fattu di Bbissana e Fatuzzi
razziusi, nel 1900 e quindi
A lu passu di Giurgenti, 1902, Cristu, 1905, Lu puvireddu amurusu, 1907, Il poema di
padre Luca, 1935, Voci del feudo, 1938. Scrive anche opere di teatro dialettale siciliano,
tra le quali, Scunciuru, 1908, Gabrieli lu carusu, 1910, e di narrativa
dialettale: La morti di lu Patriarca, 1920; La racina di Sant'Antoni,
1939 e, postumo, Lu saracinu.
Assai noto in vita sia in Italia che all’estero,
collaboratore di numerose riviste e, per inciso, il primo ad avere scritto un
romanzo in dialetto siciliano, da ritenere uno dei maggiori poeti siciliani, Alessio
Di Giovanni morì a Palermo il 6 dicembre 1946.
Aldo Grienti, che una domenica di Gennaio del 1945 andò a
far visita al “venerabile Maestro” e ne pubblicò sul periodico catanese Torcia a vento il resoconto, così lo descrive:
“Di statura piuttosto bassa, indossava una giacca scura e un berretto chiaro.
Sembrava un vecchio turista dalla barbetta bianca che dolcemente si confondeva
con il roseo delicato della sua carnagione, gli occhi profondi assenti ma non
spenti.”
Alla
sua scomparsa, per ricollegarci al passo di apertura fornitoci da Paolo Messina,
“quel primo nucleo di poeti che comprendeva le voci più impegnate dell’Isola
prese il nome del Maestro e si denominò Gruppo Alessio Di Giovanni.
Occorre però dire che non ci fu un manifesto, né l’ausilio di un apparato
critico, né un riscontro adeguato sulla stampa”.
“C’è
un solo modo di scrivere il siciliano – appunta Paolo Messina – ed è quello che
stiamo sperimentando qui, dopo la lezione di Alessio Di Giovanni, di scrupolo
filologico: una scrittura improntata all’etimo e alla consuetudine letteraria”,
e indicò nel romanzo dialettale Alessio Di Giovanni La racina di Sant’Antoni,
del 1939, il modello linguistico da adottare. La racina di Sant’Antoni,
opera con la quale Alessio Di Giovanni, dopo la svolta del 1905 in cui come
egli amò testualmente dire “passa dal vernacolo al diletto”, supera definitivamente
la fase fonografista; fase che pure Di Giovanni praticò soltanto per una breve
stagione giovanile e alla quale mai più fece ritorno.
Il Gruppo si denominò dunque Alessio Di
Giovanni, ma non trattò, come lui, delle “voci del feudo” né dei derelitti di
solfara, non professò alcun francescanesimo o sentimento religioso, non si
rifece al Verismo ormai posto in archivio, né si riconobbe nel Felibrismo (il
movimento promosso da Federico Mistral teso ad impedire l’estinzione del
provenzale e delle parlate occitane e far sorgere una nuova letteratura, ispirata
alla poesia popolare e alla lirica trovadorica) del quale Di Giovanni fu su designazione
dello stesso Mistral “ambasciatore” in Sicilia.
La guerra, con tutto il suo funesto bagaglio di
rovine, aveva stravolto la realtà e, con essa, la letteratura siciliana e la
poesia dialettale. Ecco allora l’esigenza di porsi in maniera nuova al cospetto
di essa e la nascita, nel 1945, su queste basilari premesse, del movimento di
rinnovamento della poesia dialettale siciliana, specie – come vedremo – a
Palermo e a Catania.
Composto,
osserva Salvatore Di Marco, “da poeti di generazioni differenziate, ma tutti animati
tutti dal proposito comune di svecchiare, nel linguaggio, nello stile, nei
contenuti, la poesia dialettale siciliana”, il Gruppo non fu un corpo unico, una orchestra che ha eseguito un
identico spartito, una scuola poetica (Giorgio Santangelo parlò di “nuova
scuola poetica siciliana” con riferimento alla “generazione del ’90”: Saru
Platania, Alessio Di Giovanni, Francesco Trassari, Alessio Valore, Nino Pappalardo
e qualche altro) e le esecuzioni furono, piuttosto che concerti, degli assolo,
dei recital di singoli virtuosi.
La circostanza è peraltro testimoniata dagli stessi
protagonisti. Pietro Tamburello: “sappiamo tutti dove andare, ma non siamo
concordi sulla via da seguire”, e Paolo Messina, che pure attribuisce al Gruppo Alessio Di Giovanni l’adozione di
un “indirizzo generalizzato sul problema dell’unità linguistica siciliana”, considera
che “il Gruppo non si configurò in
chiave di omogeneità”, l’”univocità di intenti” fu pronunciata con “voci
diverse”. Di Alessio Di Giovanni – prosegue – avevamo adottato il rigore
formale della scrittura e per quanto riguarda le poetiche scegliemmo l’onda
della poesia europea più avanzata, specie quella francese, con una certa
propensione per il surrealismo, la poesia pura e il verso libero”.
Il Gruppo
allora incarna, nella formulazione all’epoca attualizzata, quel “poeta nuovo” che
Alessio Di Giovanni agogna nel suo saggio Saru
Platania e la Poesia dialettale in Sicilia del 1896. Ed è questo
pertanto, in sintesi, il filo che annoda Alessio Di Giovanni e gli esponenti
della stagione dell’ultimo dopoguerra appellata rinnovamento
della poesia dialettale siciliana.
Abbiamo la data dell’inizio del movimento
rinnovatore. Ce ne informa Paolo Messina, nel suo pezzo pubblicato nel Febbraio
1988 a Palermo sul numero ZERO del rinato po’
t’ù cuntu: quella del Primo raduno di poesia siciliana svoltosi a
Catania il 27 Ottobre 1945. “L’innovatore – afferma, nel numero di Gennaio-Febbraio
1989 di Arte e Folklore di Sicilia di
Catania, Salvatore Camilleri – fu Paolo Messina.” “Aldo Grienti –
ribadisce il Camilleri nel MANIFESTO della nuova poesia siciliana, edito in Catania
nel 1989 – fu il primo a leggere, nel 1947, le poesie di rottura di Paolo
Messina, avendole pubblicate nella rubrica da lui curata.” E in un articolo
datato 3 Aprile 1986 su LA SICILIA
di Catania, Paolo Messina puntualizza: “Aldo Grienti non esitò a pubblicare sui
fogli letterari catanesi Torcia a ventu e La Sorgiva (1946-1947)
i primissimi esiti artistici che avrebbero rivoluzionato il modo di poetare in
Sicilia.
E non inganni la modestia tipografica di quelle pubblicazioni, poiché
dalle loro pagine provinciali i testi più significativi dovevano confluire, nel
volgere di pochi anni, sulla più qualificata rivista romana Il Belli diretta da Mario Dell’Arco e
curata da Pier Paolo Pasolini.”
Ma cosa è stato il “Rinnovamento”? Chi ne costituì il
movimento? Quale ne fu il programma? In sostanza, di che si tratta?
“Tra la fine del ’43 e l’inizio del ’44 – scrive Paolo
Messina nel saggio la nuova scuola
poetica siciliana, del 1985 – la
guerra continuava, e doveva continuare ancora per un anno. Risaliva la
penisola, e in Sicilia per primi avevamo respirato, l’acre pungente ciauru della libertà, mentre il quadro
prospettico del mondo già mutava radicalmente. Da qui l’esigenza di rifondare
non solo la società civile, ma anche il linguaggio”.
A Palermo, prima che terminasse il 1943, Federico De
Maria venne a trovarsi a capo di un nucleo di giovani poeti dialettali: Ugo
Ammannato, Miano Conti, Paolo Messina, Nino Orsini, Pietro Tamburello, Gianni
Varvaro e, nell’Ottobre 1944, venne fondata la Società degli Scrittori e Artisti di Sicilia, che ebbe sede
nell’Aula Gialla del Politeama e, in primavera, all’aperto, nei giardini della
Palazzina Cinese alla Favorita.
Sul versante ionico peraltro, nella Catania del ’44,
il gruppo di cui Salvatore Camilleri era l’animatore: Mario Biondi (nella cui
sala da toeletta di via Prefettura si tenevano gli incontri diurni, mentre di
sera li attendeva il salotto di Pietro Guido Cesareo in via Vittorio Emanuele
305), Enzo D’Agata, Mario Gori ed altri già appartenenti all’Unione Amici del Dialetto, si ribattezzò
(dietro suggerimento di Mario Biondi) Trinacrismo,
movimento i cui principi vennero illustrati in un articolo di Salvatore
Camilleri apparso su Il Manifesto
di Bari nel Febbraio 1946.
“Il dialetto – dichiara Paolo Messina nel citato saggio la
nuova scuola poetica siciliana – era per noi un modo concreto di
rompere con la tradizione letteraria nazionale. Naturalmente, eravamo
consapevoli dei rischi dell’opzione dialettale, che se da un lato ci portava
alla suggestione della pronunzia, dall’altro restringeva alla Sicilia il
cerchio della diffusione e della attenzione critica. Ma in compenso ponevamo
l’accento sull’ispirazione popolare del nostro fare poesia, che doveva farci
cantare con il popolo che per noi era quello siciliano, come siciliano era il
nostro punto di vista sulla nuova società letteraria nazionale. Ed ecco la
nozione dell’impegno (che non ammette – preciserà in altra occasione – alcuna dipendenza
politica, ma punta direttamente sull’uomo e sulla lotta dell’uomo per uscire da
una condizione disumana), impegno inteso come partecipazione, anche coi
nostri atti di poesia, alla costruzione di una società libera e giusta,
cosciente ormai di potere progredire solo nella pace e nella concordia fra i
popoli”.
“Il dialetto – riprende sul pezzo in memoria di Aldo
Grienti, apparso nel Febbraio 1988 a Palermo sul numero zero di quello che fu l’effimero ritorno del po’ t’ù cuntu – non era più portatore di
“cultura subalterna”, ma si era innalzato alla ricerca di “contenuti” (e quindi
di forme) su più vasti orizzonti di pensiero. Sicché la poesia siciliana
toccava il punto di non ritorno, aboliva ogni pregiudiziale etnografica pur
restando (linguisticamente) siciliana.” “I maestri preferimmo andarceli a
cercare altrove e ricordo che si parlava molto della poesia francese, da
Baudelaire a Valéry, e delle avanguardie europee. Circolava di mano in mano un
vecchissimo volumetto delle Fleurs du
mal, che credo fosse di Pietro Tamburello, il più informato fra noi
sulla poesia straniera”.
“Un poeta, noi pensiamo – aveva
detto tra l’altro in museo etnografico (un pezzo non firmato del 31 Maggio 1954 ma,
sostiene Salvatore Camilleri, sicuramente di) Pietro Tamburello – comunica coi
mezzi che egli crede esteticamente più idonei alla liberazione del canto. Noi
vagheggiamo un ideale museo ove riporre definitivamente i tardi epigoni del
Meli e dello Scimonelli, i rapsodi d’un inverosimile mondo pastorale, i beati
menestrelli di una Sicilia convenzionale e manierata e tante brave persone che
professano critica letteraria e non sanno distinguere fra la melensa faciloneria
dei loro compagni di museo e la consapevolezza di chi affida al linguaggio del
focolare i propri sentimenti, il suo pensiero e le sue fantasie, solo per una
esigenza spirituale che si può discutere ma non ignorare. In questo museo delle
idee sbagliate non può mancare quella di chi considera il poeta siciliano un
complemento del folklore locale, quasi una curiosità paesana da offrire ai
visitatori insieme al carrettino, alla brocchetta e al paladino di Francia
impennacchiato.”
“Io – soppesa Salvatore
Camilleri – intendevo rinnovare la poesia dall’interno, per evoluzione
spontanea del siciliano, attraverso le fasi ineluttabili del processo di
sviluppo linguistico; Paolo Messina pensava di dare subito un taglio netto al
passato, e lo diede. Il motivo dei nostri diversi atteggiamenti sta nel fatto
che io avevo prima letto Croce e poi i simbolisti, Paolo aveva letto prima i
simbolisti, poi Croce.”
Nell’articolo titolato LA CIVILTA’ DEI CAFFE’, proposto
nel Febbraio 1988 a Palermo sul numero ZERO del nuovo Po’ t’ù cuntu, Salvatore Di Marco registra: “Negli anni
Cinquanta c’era a Palermo, in via Roma quasi all’altezza dell’incrocio con il
Corso Vittorio Emanuele, uno dei caffè Caflish. Al piano superiore, una saletta
con sedie e tavolini. Ebbene, in quel luogo e per anni – sicuramente dal 1954
al 1958 – nella mattinata di tutte le domeniche si riunivano i poeti del Gruppo Alessio Di Giovanni.
Frequentatori erano, oltre a chi scrive, Ugo Ammannato, Pietro Tamburello,
Miano Conti, Gianni Varvaro e altri. Vi arrivavano spesso Ignazio Buttitta da
Bagheria, Elvezio Petix da Casteldaccia, Antonino Cremona da Agrigento, e da
Catania Carmelo Molino e Salvatore Di Pietro: insomma, i personaggi più significativi
allora della nuova poesia siciliana. In quegli incontri si leggevano poesie, si
parlava del dialetto siciliano, si discuteva di letteratura e di politica”.
Nel 1957 Aldo Grienti e Carmelo Molino furono i
curatori della Antologia POETI SICILIANI D’OGGI, Reina Editore in
Catania. Con introduzione e note critiche di Antonio Corsaro, essa raccoglie,
in rigoroso ordine alfabetico, una qualificata selezione dei testi di 17
autori: Ugo Ammannato, Saro Bottino,
Ignazio Buttitta, Miano Conti, Antonino Cremona, Salvatore Di Marco, Salvatore
Di Pietro, Girolamo Ferlito, Aldo Grienti, Paolo Messina, Carmelo Molino,
Stefania Montalbano, Nino Orsini, Ildebrando Patamia, Pietro Tamburello,
Francesco Vaccaielli e Gianni
Varvaro. Ma già prima, nel 1955, con la prefazione di Giovanni
Vaccarella, aveva visto la luce a Palermo l’Antologia POESIA DIALETTALE DI
SICILIA. Protagonisti il Gruppo
Alessio Di Giovanni: U. Ammannato,
I. Buttitta, M. Conti, Salvatore Equizzi, A. Grienti, P. Messina, C. Molino, N.
Orsini e P. Tamburello. Le due sillogi, che ebbero al tempo eco nazionale (una recensione a cura
di Paolo Messina apparve in data 21
Maggio 1955 su Il Contemporaneo di
Roma) e tuttora sono ben note agli appassionati, sono state antesignane
del Rinnovamento della Poesia Dialettale
Siciliana.
“Oggi la poesia dialettale – scrive tra l’altro
Giovanni Vaccarella nella prefazione a POESIA DIALETTALE DI SICILIA – è poesia
di cose e non di parole, è poesia universale e non regionalistica, è poesia di
consistenza e non di evanescenza. Lontana dal canto spiegato e dalla rimeria
patetica, guadagna in scavazione interiore quel che perde in effusione. Le
parole mancano di esteriore dolcezza e non sono ricercate né preziose: niente
miele e tutta pietra. Il lettore di questa poesia è pregato di credere che nei
veri poeti la oscurità non è speculazione, ma risultato di un processo di pene
espressive, che porta con sé il segreto peso dello sforzo contro il facile,
contro l’ovvio. Perché la poesia non è fatta soltanto di spontaneità e di
immediatezza, ma di disciplina. La più autentica poesia dei nostri giorni è
scritta in una lingua che parte dallo stato primordiale del dialetto per
scrostarsi degli orpelli e della patina che i secoli hanno accomunato, per
sletteralizzarsi e assumere quella condizione di nudità, che è la sigla dei
grandi.”
“I dialettali – osserva Antonio Corsaro, in
prefazione a POETI SICILIANI D’OGGI – non sono mai stati estranei alle
vicende della cultura nazionale, anche se, disuguale è il loro piano di
risonanza. Nell’ambito di una lingua, per dire, ufficiale, che assorbe e
trasmette tutte le vibrazioni di un’epoca, il dialetto si presenta come una
fuga regionale. Ma in un periodo come il nostro che nella poesia ha versato
l’essenza umbratile e segreta dello spirito attraverso un linguaggio puro da
ogni intenzione oratoria, i poeti dialettali si trovano nella identica
situazione dei loro compagni in lingua, senza che neppure la difficoltà del
mezzo espressivo costituisca ormai una
ragione valida di isolamento. Tanto più che i nostri lirici in dialetto sono
già arrivati a un tal segno di purezza e a una tale esperienza tecnica da non
avere nulla da perdere nel confronto con i lirici in lingua. Anzi, in un certo
senso, i dialettali ne vengono avvantaggiati per l’uso che possono fare di una
lingua meno logora, attingendola alle sorgenti che l’usura letteraria suole
meglio rispettare.”
Nel 1959, nel saggio titolato alla ricerca del linguaggio, Salvatore Camilleri considera: “Si
cerca di restituire alla parola una sua originaria verginità fatta di senso e
di suono, di colore e di segno, ricca di polivalenze. È una continua ricerca di
esperienze formali, in cui l’analogia gioca la parte principale nel creare
situazioni liriche e contatti tra evidenze lontanissime. Qualcosa si è fatto
veramente poesia, poesia siciliana, cioè sentita ed espressa sicilianamente,
con immagini siciliane oltre che con parole. Il fatto strano, fuori dalla
logica progressione delle cose, è che la rivolta è nata di colpo, sulle
esperienze altrui (italiana, francese etc.) e non sull’esperienza siciliana.” E
puntualizza: “La parola, nel contesto poetico, liberata dalle sue
incrostazioni, ha perduto parte del suo significato semantico, acquistandone
uno meno deciso, legato alla sua posizione, logica e fonica: quello analogico,
l’immagine si è liberata dall’oggetto, risolvendosi nel simbolo, senza però mai
sganciare la realtà dall’ordine oggettivo, l’aggettivazione ha subito una
stretta e diviene ricerca e approfondimento del lessico, [si tende] ad
umanizzare gli oggetti, dando ad essi le emozioni degli uomini, a trasfigurare
la realtà e trascenderla sempre.”
POETI SICILIANI D’OGGI “fu il libro –
asserisce in seguito lo stesso Camilleri, in prefazione a POETI SICILIANI
CONTEMPORANEI del 1979 – che mise definitivamente una pietra sul passato.
Le idee si erano fatta strada, avevano raggiunto i poeti in ogni angolo della
Sicilia, anche i più solitari, i meno propensi a mutar pelle, e li avevano
costretti a ragionare. Da questo travaglio, dai più avanzati che volevano
romperla totalmente con il passato, ai moderati che volevano innestare le nuove
idee nell’albero della tradizione, nacque la poesia siciliana moderna, anche
grazie alla conoscenza che i più ebbero del
simbolismo francese e dell’ermetismo italiano.”
Il rinnovamento
della poesia dialettale siciliana, la stagione tra il 1945 e la seconda metà circa degli anni
Cinquanta (l’ultima manifestazione pubblica del Gruppo – asserisce Salvatore Di
Marco – si svolse nell’anno 1958 presso il Circolo di Cultura di Palermo,
diretto da Lucio Lombardo Radice, che promosse un incontro sulle correnti
contemporanee della poesia siciliana) stagione
segnata dal movimento di giovani poeti dialettali palermitani e catanesi,
fu rinnovamento fondato sui testi e non sugli oziosi proclami, sugli esiti
artistici individuali e non su qualche manifesto.
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