L'intervista su Siciliaonpress
Terza Pagina
Piero Carbone tra pensamenti, sicilincónie e sicilinconìe
Giuseppe Maurizio Piscopo
PIERO CARBONE è nato nel 1958 a Racalmuto in provincia di Agrigento, vive e opera a Palermo, con la fantasia e altri interessi dove capita. E’ autore di diverse pubblicazioni in lingua e in dialetto siciliano. Diversi suoi testi sono stati musicati ed eseguiti. Ha curato mostre di artisti siciliani e suoi testi figurano in cataloghi ed edizioni d’arte. Cura il blog Archivio e Pensamenti.
Tra le pubblicazioni Sicilia che brucia (1990); Eretici a Regalpetracon Prefazione di Claude Ambroise(1997); Dialogo nel bosco,musicato e rappresentato nel 2002; Il giardino della discordia (2006) con Prefazione di Rosario Lentini; Pensamenti (2008) con Prefazione di Salvatore Di Marco; Venti di sicilinconia (2009) che ha ricevuto Premio Martoglio di Grotte e Ignazio Buttitta di Favara; The PoetSing For All / Lu Pueta canta pi tutti (2014) con traduzione in inglese di Gaetano Cipolla e che ha ricevuto nel 2015 i premi Marineo e Kiwanis Club-Ciccio Carrà Tringali di Lentini.
Quando nasce la tua passione per la scrittura e per la letteratura?
Non c’è una data ma una condizione: la difficoltà di esprimermi in italiano corrente poiché nella mia infanzia, nel mio ambiente, si parlava soltanto il dialetto: mio padre parlava in dialetto, mia madre parlava in dialetto, tutti in casa e per strada, quando la strada era una palestra di socialità, parlavano in dialetto. La voglia di superare questo ostacolo ha finito col farmi amare il suo superamento, il nuovo approdo, scoprendo con gioia che l’altra lingua mi dava libertà per esprimere ed esplorare un mondo sconfinato di idee e impressioni. Non ho mai rinnegato il dialetto anche se aveva rappresentato un ostacolo perché con il dialetto esprimevo il vissuto, con la lingua italiana quello che avrei voluto vivere. Nella nuova lingua mi sono esercitato con piacere tenendo un diario personale, segretissimo, per trent’anni, ne ho scaffali pieni.
Tu hai raccolto delle carte che stavano finendo in discarica, di che si tratta?
A queste carte in verità mi ha condotto il nuovo acquirente della casa signorile dei notai Alaimo, una casa con due altissime palme, a lui ho chiesto di vedere il villino che avevo ammirato soltanto dall’esterno. Quando misi piede nel vialetto che conduceva al portone d’ingresso mi accorsi che era disseminato di carte storiche, addirittura con timbri a secco del Regno delle Due Sicilie, chiestane la ragione mi fu riferito che ne avevano buttato un camioncino pieno in aperta campagna, di quelle carte: mi feci indicare il luogo e cercai di recuperarle. Tra le carte individuai un contratto di Stefano Pirandello con i Buscarino di Racalmuto per la commercializzazione dello zolfo, una fitta corrispondenza dei Whitaker un documento che arretrava di parecchi anni l’esistenza della fillossera in Sicilia, se sene avesse avuta coscienza e si fosse ricorso ai ripari tempestivamente forse la storia e l’economia della Sicilia tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento sarebbero state diverse, in positivo, e lo dico appoggiandomi agli studi di uno storico dell’economia come Rosario Lentini. Sono grato al giornalista Tano Gullo e all’editore Coppola per avermi sostenuto nella valorizzazione dei cospicui documenti ritrovati. Un altro editore era disposto ad acquistare le carte ma a patto che non pubblicassi il manoscritto che avevo elaborato su quei documenti. Rifiutai l’offerta a quelle condizioni.
Come eri da bambino, quali ricordi conservi di Racalmuto tuo paese natio, del Maestro, del tuo primo giorno di scuola, dei compagni dell’atmosfera di allora?
Direi, normale, eppure già trapelavano i segni del futuro carattere: tenevo allo studio spontaneamente perché nelle cose scolastiche non potevano aiutarmi né mio padre né mia madre, facevo i compiti su un ritaglio di tavolo dove mia madre stirava mentre conversava con le vicine che venivano in visita o a chiedere qualcosa in prestito come si soleva fare tra vicini. Il maestro era affettuoso, paterno, per me era anche bello e sapeva tutto, insomma lo idealizzavo. Le parole per esprimere quello che ho provato il primo giorno di scuola me le suggeriscono i miei alunni quando scrivono che si sentono le farfalle nello stomaco. Con i compagni sono rimasti rapporti cordiali ma con alcuni ci siamo persi completamente di vista, più che la distanza fisica ci hanno allontanato le diverse scelte di vita.
Che cos’è per te il Teatro?
Inizialmente le recite parrocchiali e poi quelle scolastiche e poi le rappresentazioni corali di tradizioni popolari laiche e religiose: di contadini, di carrettieri, di lavandaie, di leggende religiose; in paese tentai anche di mettere su un gruppo teatrale senza riuscirvi, a Palermo riuscii invece con altri studenti universitari a mettere su uno spettacolo, Zmaragdos. Arti in coordinamento e ricerche etnografiche, che ha dato la possibilità agli studenti fuori sede di rivendicare con orgoglio la cultura dei paesi di provenienza, una cultura di provincia da non nascondere e sottovalutare proprio nel momento in cui cercavano di vivere la cultura urbana, e di appropriarsene. Eravamo di Racalmuto, Naro, Favara, Realmonte, Delia, Cammarata, Joppolo Giancaxio. Tennero a battesimo lo spettacolo lo scrittore Aurelio Pes, gli etnoantropologi Aurelio Rigoli e Annamaria Savarese, il poeta Ignazio Buttitta.
A scuola il teatro è una strategia didattica per rimotivare gli studenti, a volte una terapia vera e propria.Per me purtroppo non è stato così: alle scuole elementari sono stato scelto per interpretare il principe e a prove inoltrate sono stato sostituito da un altro ragazzo che era figlio di un maestro della stessa scuola. Non accettai il ruolo di ripiego del ciambellano sol perché, dopo tante prove e tanti apprezzamenti, quella sostituzione non la compresi, mi sembrò un’ingiustizia.
Da adulto, ho vissuto l’esaltazione di avere in paese un teatro vero, con un passato prestigiosissimo, ma quasi per contrappasso l’amara delusione di ritrovarlo chiuso dopo blasonati restauri e pompose inaugurazioni. Avrei capito che il vero teatro era fuori il teatro: ho stentato io stesso a crederlo quando da assessore alla cultura ho scoperto che la Fondazione Teatro Regina Margherita con nomi coinvolti di prima e stellare grandezza in realtà non era certificata da nessuna parte, semplicemente non esisteva. Ma questo benedetto Teatro come l’avevano amministrato allora con tanto di Presidente, direttore artistico e consiglio di amministrazione di una Fondazione che non era Fondazione? Boh! Dove sta la finzione? Dentro o fuori il teatro?
Che cos’è per te il cinema?
Non ho la pretesa di spiegare alcunché, ma lo lego ad una precisa esperienza. Nel periodo della mia adolescenza impazzavano i film di Franco Franchi, Maciste, Ercole, Giuliano Gemma, all’uscita di uno di questi film con gli altri amici evitammo il corso principale del paese e seguimmo una vita secondaria e parallela, all’indomani avrei saputo che proprio nello stesso momento in cui attraversavamo la via secondaria era avvenuta una sparatoria che lasciò a terra morti e feriti, alcuni mafiosi, si disse, e altri che con la mafia non c’entravano affatto. La scena del delitto era proprio il tratto di corso che io e i miei amici avevamo evitato. Sembrava un racconto di fantasia, un racconto di finzione. Ho capito in quel momento quale cinema avrei preferito: quello che imbocca la strada della realtà, della strada dove avvengono i fatti, nel tentativo di comprenderli: il cinema infatti lo intendo come possibilità di vedere il non visto ma, quando è arte, sa essere visione dell’invisibile. E a volte nulla è più invisibile ai nostri occhi della realtà che viviamo quotidianamente resa inespressiva, dall’abitudine o indifferente per saturazione di troppe immagini della realtà stessa.
Tu hai conosciuto Leonardo Sciascia, un tuo ricordo…
Ne ho scritto parecchie volte, in prosa e in poesia: Il mio Sciascia, Chi ci farà memoria…Letterariamente, un maestro, ma il suo amore per il paese credo si sia ridotto nel tempo ad un topos letterario. Ricordi? Tanti. Una volta in paese gli offrii un caffè al bar: era d’estate, lui lo volle caldo, bollente, sostenendo che quello freddo non dissetasse. La cosa mi meravigliò ma poi appresi che nel deserto il tè viene bevuto caldo.
Un commento sulle Parocchie di Regalpetra, il libro è ancora attuale secondo te?
Del passato è un indubbio riferimento dialettico, possiamo comprendere meglio i cambiamenti, quello che il paese oggi è diventato. Guai a far coincidere Racalmuto con Regalpetra. Regalpetra è un’icona, Racalmuto carne viva. Ambroise però, da altri punti di vista, nella prefazione al mio Eretici a Regalpetra sostenne perentoriamente che Racalmuto negli Anni Cinquanta era “un’astrazione”. Eppure la letteraria Regalpetra fece comprendere meglio cosa fosse Racalmuto, al contrario di oggi quando si attinge al paese per rappresentarlo con una narrazione letteraria o giornalistica parziale, falsata e strumentale.
Ad appena un anno dalla morte di Leonardo Sciascia, per conto dell’amministrazione organizzai un convegno proprio sulle Parrocchie invitando personalmente Bufalino, Tedesco, Di Grado e Ambroise. Mariella Lo Giudice lesse alcuni brani tratti dalle Parrocchie e anche la mia poesia Ti so della mia terra che dava il titolo ad una cartella d’arte con due incisioni di Nicolò D’Alessandro e Domenico Faro. Dovevo pubblicare gli atti ma vennero carpiti subdolamente e pubblicati da altri.
Come è cambiata oggi Racalmuto che prima alla Noce richiamava intellettuali da tutto il mondo, dopo la morte dello scrittore?
Sembrava che la contrada calamitasse naturalmente il mondo, oggi è una deserta contrada, uno sbiadito ricordo. L’effetto straordinario di un grande uomo non è solo in sé ma nella varia umanità che riesce a far gravitare intorno a sé. C’era una processione di varia umanità, molto varia, è vero, ma comunque interessante: calamitava il mondo. Ora si avverte il vuoto, tanta malinconia.A Sambuca gli eredi di Giambecchina hanno continuato a tenere viva la contrada Adragna trasformando lo studio e la casa di abitazione in Casa Museo, ma non si può costringere gli eredi alle donazioni.
Vero è comunque che politici e sciascianiprofessi o di fede spuria di prima e seconda generazione non hanno saputo rendere attraente post mortem ciò che era attraente quando lo Scrittore muoveva i fili delle relazioni sociali e quelli della polemica civile. Sciascia doveva essere per il territorio una trovatura, invece è stato depotenziato a occasionale trovata per isolati eventi da passerella riservata ai soli adepti.Lo hanno reso estraneo in casa sua. E’ mancata l’apertura, la progettualità. Del resto lo stesso Sciascia era molto selettivo. Se dalla contrada Noce ci spostiamo in paese con il Parco Letterario Regalpetra praticamente svanito ed inesistente, tranne due superstiti labari, e una Fondazione moribonda, la situazione è ancora più desolante.La vicenda dell’elezione, si fa per dire, dell’ultimo consigliere di amministrazione, è eloquente.Qualcuno addirittura si è dimesso dall’incarico a vita a cui lo aveva designato lo stesso Sciascia. Guai a dirlo a voce alta però!
I siciliani e gli inglesi, che rapporto c’è stato? Ho letto un articolo su Repubblica dal titolo: ” Così Racalmuto batté gli inglesi”. Ne vuoi parlare?
Vi ho scritto anche un libro,Il giardino della discordia. Racalmuto nella Sicilia dei Whitaker.Ovunque in Sicilia gli inglesi hanno avuto fortuna e portato a vantaggioso reddito le loro intraprese economico-commerciali, a Racalmuto semplicemente no. La gabella invece di aumentare diminuiva, le motivazioni dei gabelloti erano le più svariate, e con le tasse comunali avvenne chele proprietà andavano in perdita.
Sempre trascinati in annose liti per questioni di confini. L’amministrazione Ingham – Whitaker avrebbe voluto trasformare semplici orti poco vantaggiosi in lucrose miniere, ma dagli stessi gabelloti furono sollevate tante difficoltà e opposizioni da rendere impossibile il solo tentativo delle perspezioni del suolo. Ad un certo punto ritroviamo in affari il procuratore dei Whitaker con i gabelloti. Insomma, gli inglesi ritennero più prudente vendere la proprietà agli stessi gabelloti: la possibilità di estrarre zolfo dalla terra sembrò impossibile come cavare sangue dalle rape.
Com’è il tuo rapporto con Racalmuto e i suoi abitanti?
Il mio rapporto con il paese oltre ad essere dolcissimo per gli affetti e gli innamoramenti, è stato sempre stimolante anche quando a volte non stimolava affatto o forse per questo e per una sorta di reazione, di una scommessa. Ho vissuto la stagione straordinaria della prima Pro Loco quando c’è stata la voglia, quasi con impeto e con pochissimi mezzi, di riappropriarsi delle proprie tradizioni prossime all’estinzione, di riappropriarsi del paese anche negli aspetti meno appariscenti e intenderlo come risorsa da valorizzare: ricordo la ripresa delle novene natalizie, la rinnovata Recita della Festa del Monte con l’introduzione dei personaggi femminili , la cuccia di l’abbunnanza, il premio Pietro D’Asaro, le conferenze al Circolo di Cultura, le mostre, i raduni artistico-musicali, la riapertura simbolica del teatro chiuso da decenni, la ristampa di libri antichi di autori racalmutesi, i rapporti con Castronovo di Sicilia. Me n’è rimasto l’imprinting e ho poi continuato anche con altre iniziative e sempre con il coinvolgimento di giovani e anziani, colti e meno colti, politici e semplici cittadini, laici e religiosi, con vera sinergia popolare insomma. Purtroppo quella Pro Loco, dopo pagine gloriose si è deperita, rischiando di far tramontare quel concetto di cultura popolare e partecipata.
Com’è il tuo rapporto con il denaro nella società in cui viviamo?
Nella società il denaro è indispensabile come l’aria per respirare, solo che l’aria è viziata e a prescindere dalla quantità si annaspa alla ricerca dell’aria pura. Sotto il riguardo personale, il denaro è la cartina al tornasole di ciò che veramente siamo, della nostra libertà interiore, della nostra moralità, delle nostre priorità: basta vedere se siamo disposti a rinunciare al denaro e ai suoi derivati pur di preservare un principio morale. Le cronache son piene di storie di corruzione purtroppo, di svendita di sé e delle amicizie più care, dei compagni di strada, per un piatto di lenticchie.
La bellezza salverà il mondo ha scritto un grande scrittore russo, tu come la pensi in proposito?
Credo che in generale e come italiani e siciliani in particolare se ne debba avere un pensiero pratico, agendo: mettendo a disposizione parte del proprio tempo e delle proprie energie per conservare la bellezza che abbiamo ereditato e scoprire e valorizzare quella nascosta, bistrattata, stravolta. Nulla si deve dare per scontato. La bellezza, alla fine, è una parola astratta, farla diventare concreta e diffusa prassi rivoluzionerebbe il mondo. A volte purtroppo si è peggio dei talebani nel non apprezzare e distruggere ciò che altri, vicini o lontani nel tempo, hanno realizzato.
Qual è il tuo rapporto con la città di Palermo, come ti trovi?
Di progressiva familiarità. All’inizio dicevo per celia che Palermo era la periferia di Racalmuto, affermavo la “forma paese” nella città, ma lo dicevo per esorcizzare la dimensione altra della città, perché la città mi metteva in soggezione e contemporaneamente mi attraeva. Ora, ho un rapporto più sereno, più rilassato, forse perché dopo quarant’anni, in tanti angoli e sotto taluni aspetti, mi suona familiare come il mio paese e ne percepisco perfino fisicamente i ritmi passeggiando dai Quattro Canti alla cattedrale o al Teatro Massimo, lungo i basoli di Ballarò: la pedonalizzazione è una filosofia di vita. E’ avvenuto inavvertitamente di non potere fare a meno di Palermo, della dimensione cittadina o “forma città”, per le esperienze che vi ho fatto, per le relazioni che ho intessuto, per gli incontri interessanti, per la dimensione non provinciale che offre, anche se so che forme di provincialismo possono esistere in città. Come descrivere le sensazioni provate nell’aver recitato assieme ad altri studenti universitari alcuni versi davanti a Borges, per Borges, nell’aula magna gremitissima della facoltà di Ingegneria?! Ti sprovincializzano le opportunità che ti dà la città: dall’Università al Pensionato San Saverio ai mercati storici alla Facoltà di Teologia alla Scuola alle Biblioteche alle amplissime Piazze alle Chiese agli Oratori al Festino alla sede dei giornali ai teatri a Monte Pellegrino ai musei ai cibi ai convegni alla conoscenzae frequentazione di pittori scrittori attori poeti cantanti musicisti editori giornalisti alle amicizie ai sodalizi… e poi il castello di Maredolce che entra nel tuo immaginario e diventa una sorta di impegno civile portato avanti assieme ad altri per riviverlo e farlo rivivere come sogno. E vederlo premiato dalla Fondazione Benetton! Quando arriviamo al Piano della Cattedrale o a Piazza Politeama dico a mia figlia – inspira! inspira! – quasi per introiettarne l’ariosa bellezza e lei, che sa quanto sono attaccato al paese d’origine, si meraviglia ma contemporaneamente si sente maggiormente accettata nel suo essere cittadina palermitana di nascita e di formazione.
Hai ricevuto il premio “Magister Vitae” il 2 settembre a San Vito Lo Capo nel Memorial dedicato a Vito Ruggirello, possiamo trascrivere la motivazione di questo prestigioso premio?
Eccolo: Piero Carbone è poeta! E cosa sa fare, chi po’ fari un poeta se non sventolare banneri di palori? Parole però che, nell’alchimia che egli realizza, acquistano significati che eccedono la loro semplice lettera, che nella loro inusitata cifra assurgono a raffinato strumento espressivo mediante il quale esplicitare la propria visione del mondo. In tale contesto, la dichiarazione di appartenenza alla cultura, alla lingua, alla poesia della Sicilia che in tutta trasparenza emerge dalle sue pagine è senza riserve. A favorire ciò concorre l’aria salubre della contrada della sua Racalmuto, lo Zaccanello, un luogo fisico, un preciso punto di coordinate geografiche: pino maestoso cullato dal vento, orticello irrigato di fiori e frutti, casolare, lustro di luna; ma, altresì, esso configura l’alter ego spirituale del poeta. E in questa combinata dimensione, complice l’ospitalità, lui e lo Zaccanello finiscono con l’identificarsi, divengono un’unica medesima entità: tempio di affetti, oasi rigeneratrice, agorà culturale. Un’agorà siciliana tutta da premiare.
Secondo te le donne siciliane sono prepotenti?
Ce ne sono. Ma come si fa a generalizzare?
Qual è il maggiore difetto dei siciliani?
L’invidia camuffata di buone intenzioni. La cecità nel non saper vedere e valorizzare ciò che invece è diversamente prezioso e valido. L’abitudine alla dimenticanza, alla polvere dell’indifferenza che ricopre tutto e tutti immalinconisce. Chi conosce in Sicilia il tenore Luigi Infantino che pur ha cantato nei teatri più prestigiosi di tutto il mondo? E di Calogero Marrone, eroico per il suo gesto, solo ora si comincia a parlarne, dopo oltre settant’anni di oblio quasi totale.
Ti sei prodigato mi pare per mettere in luce Calogero Marrone.
Sì, è vero, nel mio piccolo, anche se casualmente. Accompagnando mia figlia in palestra, nel quartiere Bonagia, ho scorto la via dedicata al “giusto tra le nazioni”, originaio di Favara, ma nel constatare lo stato di abbandono e degrado in cui versava ho provato un moto di pietà e di rabbia. Non poteva essere questo il modo di ricordare il sacrificio di chi aveva rischiato la vita fino a perderla in un campo di concentramento pur di salvare centinaia di ebrei dalla persecuzione nazifascista. Ne parlai al mio dirigente scolastico Vito Pecoraro e ai colleghi che con grande prontezza e sensibilità sostennero una serie di manifestazioni articolate in tre giornate e culminate nel corteo snodantesi per le strade di Bonagia con centinaia di studenti, genitori, rappresentanti di varie istituzioni tra cui i sindaci di Palermo e Favara, un rappresentante della scuola “Focherini” di Carpi. Anche il sindaco di Varese, dove Marrone fu segretario comunale, ha fatto pervenire un telegramma di adesione. Il corteo si è concluso con canti e messaggi di pace nella via Marrone radicalmente ripulita.
Hai detto dei difetti dei siciliani. Ed il maggiore pregio?
La capacità di avere esplosioni di entusiasmo o di rabbia, pur nell’apparente immobilità del tutto, e di saper trapassare dalle sicilinconìe alle sicilincónie: in politica, nella cultura, nelle relazioni sociali, nella concezione e amministrazione delle nostre città e campagne, nell’archeologia, nell’arte. Un pregio che però per divenire veramente tale dovrebbe trasformarsi in continuità, in metodo. Solo in alcuni siciliani ciò avviene, puntualmente in conflitto con gli altri siciliani che criticano, frenano, cancellano e vanificano. Insomma, dal terremoto nasce il barocco di Noto! Purtroppo in tanti aspetti il terremoto lo creano gli stessi siciliani.
Qual è l’ultimo libro che hai letto?
La lunga rotta di Bernard Moitessier. Si racconta la straordinaria avventura di un navigatore solitario che al ritorno dal giro del mondo invece di approdare a Londra per ricevereil premio messo in palio, successo e onori, proprio dinanzi al porto virò volutamente verso il mare aperto e di lui nessuno seppe più niente finché non lo ritrovarono, anni dopo, felice, in un’isola sperduta del Pacifico con pochissimi abitanti. Dà tanto da pensare.
Qual è l’ultimo libro che hai scritto?
Ultimamente, per accumulo protrattosi nel tempo, hanno assunto la consistenza di libri, una raccolta di racconti e una silloge di poesie, ho trovato anche i titoli, ma l’occupazione che ultimamente mi ha impegnato in modo particolare sono le canzoni e mi riferisco non al solo testo, ma, con mia stessa sorpresa, anche alla musica; finora ho depositato dodici canzoni e sono coautore di altre composizioni con diversi autori tra cui Emanuele Giacopelli ed Ezio Noto. Ultimissima è Deci, cientucitaleni. Pinsannu surfarara e salinara composta con il maestro Mannella, eseguita in anteprima a Racalmuto alla presenza del soprano, sopraggiunto appositamente da Roma, Raina Nicolova vedova del tenore racalmutese Luigi Infantino. La canzone è dedicata al duro mondo del lavoro delle miniere di una volta. Sono stato incoraggiato a continuare dopo l’accoglienza della canzone: Lu mari si l’agliutti, interpretata da diversi cantanti e portata in giro per la Sicilia da Piera Lo Leggio nei suoi spettacoli. A sé sta il Dialogo nel bosco per la sua natura composita: in forma ridotta e con le scenografie di Athos Collura è stato rappresentato anni fa a Milano, nello spazio teatrale della libreria Tikkun. Sarebbe bello poterlo rappresentare al Bosco della Ficuzza dove è stato concepito.
Cosa pensi del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa?
Concordo con Luigi Russo: è un gran libro. Il nobile Tomasi ha saputo rappresentare lo spaccato di un mondo in disfacimento parlando in fondo di sé e ha saputo profetizzare il nuovo mondo, soprattutto degli altri, che stava montando. La riprova è che quelli che al suo apparire lo hanno criticato poi, nel tempo, si son dovuti ricredere. Non è facile digerire il successo altrui, anche se post mortem.
Sei considerato un raffinato uomo di cultura, un blogger di Archivio e Pensamenti. Tu come ti definisci?
A meritare le definizioni che indichi è già tanto. Mi auguro per certi versi di rientrare in quella che mi ha dato l’amica Maria Giulia Enrile osservando il mio modo di guardare all’operato degli altri: “Riesci a mantenere il tuo primo piano mettendo in primo piano chi presenti; non offuschi nessuno, nemmeno chi, in realtà, è una figura piuttosto secondaria”. Non penso ai primi e secondi piani perché sa di staticità, mentre la vita è l’opposto, non amo collocare me e gli altri gerarchicamente, la vita è circolarità, tuttavia trovo l’osservazione molto in sintonia col mio motto: “Promuoversi promuovendo: oltre il proprio naso c’è il mondo”.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Soprattutto completare quelli già in cantiere, alcuni attendono da troppo tempo e rischiano di risultare troppi se non verranno realizzati. Non voglio mettermi ulteriormente in mora citandone qualcuno in particolare. Voglio esorcizzare lo scacco. Spero di comunicarti presto l’avanzamento di qualche pedina.
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