Da tempo me ne parlava, di progetti accantonati, di testi inediti, di cassetti in attesa di essere smagriti, ma dopo l'ultima telefonata di circa un mese fa, non si sa come e non si sa perché, o forse sapendolo benissimo ovvero per l'imponderabile scoccare delle occasioni e delle decisioni, mi trovo sotto gli occhi, quasi sorpreso, la copertina di Un silenzio bianco delle edizioni Drepanum, autrice proprio lei.
L'annuncio dell'imminente pubblicazione è fatto attraverso la copertina ma mi è noto e familiare tutto ciò che ci sta dietro: le poesie di Anna Maria, per averle spigolate in pdf; il pastello sulla copertina di Franco Fasulo, per avere avuto modo di ammirare l'opera pittorica di questo artista agrigentino al Funduk, un fantastico spazio in via Santa Maria dei Greci.
Familiare mi risulta anche la Prefazione, che qui ripropongo come augurale viatico alle poesie di Anna Maria, "scritte", come ha tenuto a precisare lei stessa nel darne l'annuncio sul suo blog, "tanto tempo fa e tirate fuori da un cassetto".
Prefazione
Anna
Maria ha scritto da sempre, ma la sua scrittura finora è stata finalizzata
all’oggettiva comunicazione delle notizie. Una scrittura al servizio della
realtà da raccontare, senza voli pindarici e senza contraddizioni.
Parallelamente
ha coltivato un’altra scrittura, quasi da clandestina, il cui mondo di
riferimento e criterio di verità sono se stessa, esercitata in piena libertà. In quest’altra
dimensione, Anna Maria Scicolone scrive, ma elogia il silenzio. E’ carnale
sensuale sanguigna. Ma si apparta nella
scrittura. Medita. Sogna. Straripano le immagini, i correlati oggettivi, alludenti a pensieri e sentimenti.
E’ antiletteraria, la scrittura di questa esordiente poetessa, “senza rima”, moderna, brutalmente realistica (“La mia rabbia è una vecchia cagna”, “la mia rabbia è appesa a un cappio”, sono versi che prorompono come un urlo), eppure letteratissima, venata di “una sorta di allegrezza”. Risuonano di echi rimbaudiani e di ironia i suoi ortivi colori accesi da un dannunziano tambureggiare di raggi solari: “E’ giallo grano…” / “…è rosso-/pomodoro!” / “E’ viola melanzana…” / “…è rosa / melograno!” / “No, è bianco zagara!” / “adesso è un iris / blu / tra le rocce”.
E’ antiletteraria, la scrittura di questa esordiente poetessa, “senza rima”, moderna, brutalmente realistica (“La mia rabbia è una vecchia cagna”, “la mia rabbia è appesa a un cappio”, sono versi che prorompono come un urlo), eppure letteratissima, venata di “una sorta di allegrezza”. Risuonano di echi rimbaudiani e di ironia i suoi ortivi colori accesi da un dannunziano tambureggiare di raggi solari: “E’ giallo grano…” / “…è rosso-/pomodoro!” / “E’ viola melanzana…” / “…è rosa / melograno!” / “No, è bianco zagara!” / “adesso è un iris / blu / tra le rocce”.
E
l’amore? “Scatenerà un tripudio chimico.”
Sembra tutto risolversi nella dimensione sensoriale, poco
trascendentale, affatto spirituale: “La mia bocca è un approdo / La tua bocca è
/un approdo”. Eppure, spento il tripudio
“saranno ancora parole, / quelle scritte e mai scritte, / quelle mai dette”,
sprizza l’anelito ad andare oltre:
“La
vita, la vita / Il silenzio, il silenzio
/ La morte è il nulla. / Alzo lo sguardo
/ E sei già altrove, / un punto / un mistero”.
Nel gioco o nella necessità dei richiami, delle assonanze, delle preferenze stilistiche, delle esplorazioni semantiche, Anna Maria non tende a perdersi “tra un se e una virgola” come dice di sé un altro poeta moderno, Matteo Cotugno, non lambicca ermetiche sillabe, tira dritto al vissuto per trascinarlo altrove, in un cielo di sapienziale senso del vivere, dell'amare, del morire, il morire dei ricordi, delle passioni, dei sentimenti soprattutto. “Non ricorrerò a virtuosismi sintattici o letterari. / Né a contesti ambientali o dettagli temporali. / Tra queste righe vige la sola regola del dolore.”
Un
dolore disincantato, asciutto direi, non sentimentale, che scaturisce dalla
consapevolezza che sogni e passioni possono rivelarsi fuochi di paglia o venire
travolti da una spoeticizzante quotidianità, quasi dissacrati, ridotti infine a
“spettacolo demodé di Passioni Finite”.
Tutta
la vita viene colta come una ribalta dove compaiono plastiche processioni
parallele, opposte, inconciliabili, da un lato: cani che “si aggirano a
branchi”, “acqua putrida di sterco”, buio, offese, umilazioni, chiamate
anonime, lettere mai spedite, stupidità, ombre deformi, ombre spezzate, fiumi
di carne umana, rantoli, noia, tedio, scorze di limoni… dall’altro: stelle,
anelati silenzi, primavere e cicogne, preghiere, canti dolcissimi, cieli
stellati, frullio d’ali, voli di libertà, ninne nanne, ninne, oh!
Che può
fare un uomo, una donna, dinanzi a queste ineluttabili processioni se non
provare sconcerto, smarrimento? Vi può
trovare rimedio con la fuga, con la fede, con la pazzia. O con la poesia:
“Altrove sarà il buio, / smisurato e impenetrabile, / come una luce accecante.
/ Sarà un silenzio bianco.” La candida
bianchezza che rinfresca e dà riposo alla vista, distensione al vivere, non è
il non colore, è piuttosto dato dalla somma di tutti i colori in mirabile
sintesi purificata e purificatrice. Che sia questo il sotteso messaggio della
poesia di Anna Maria?
Un dato
è certo, la scrittura cronachistica, di servizio, a cui si alludeva
inizialmente, nelle poesie si è completamente metamorfosizzata per ridire e
ricompredere la realtà in tutti i suoi aspetti. Amore in tutte le sue
diramazioni, natura, sentimenti, oggetti, meditazioni sapienziali, ma anche
temi sociali, costituiscono la tavolozza ispiratrice che, per dirla con Verlaine a proposito di un
giovane poeta, “tenta tutte le corde dell’arpa, gratta tutte quelle della
chitarra”.
Anna
Maria con questa silloge ha iniziato a far risuonare strumenti che ci
riserveranno nel futuro -
l’interrogativo valga come ottimistico auspicio – inauditi esiti?
Piero
Carbone
Grazie
Grazie della tua gelida indifferenza.
Della ferocia delle parole,
delle sferzate di verità.
Grazie delle omissioni e delle fughe silenziose,
delle brucianti assenze,
delle umiliazioni, delle terribili offese.
Grazie dei regali che non mi hai fatto,
dei baci che non mi hai dato,
dei tuoi patetici ritorni,
dei “non posso vivere senza di te”,
delle volte che hai detto “non dovevo, ho sbagliato”,
delle volte che hai detto “devo, amore, perché è
giusto”.
Grazie dell’avermi convinto al punto
che ho creduto di poter partecipare
ai tuoi risanamenti,
pazza, ormai, e senza dignità.
Grazie dei “vorrei ma non posso”,
dei “vorrei ma non devo”,
grazie dell’avermi affogato nel mio vomito,
dell’avermi ormai sposato alla tazza del cesso.
Grazie delle illusioni,
sogni così piccoli
che non ci credono neanche i bambini,
di cellulari rubati,
di chiamate anonime,
di lettere che non mi hai mai spedito,
di messaggi che non mi hai mai inviato.
Grazie delle notti insonni,
del dolore di dare dolore
del tormento di dare il tormento,
perché ho usato armi che altri hanno usato.
Grazie della vergogna,
del disprezzo che nutro di me,
del tempo perduto,
delle preghiere che non ho detto,
della solitudine e dei nostri silenzi.
Grazie, amore mio.
Grazie della rabbia e dello sconcerto,
della rassegnazione e del pentimento,
di tutte le cose che avrei dovuto capire
e che non ho capito.
Grazie della paura,
della stanchezza,
dell’angoscia e del buio.
Grazie di questo abisso senza fine.
Grazie delle notti trascorse insieme,
grazie di non aver capito la mia rassegnazione
scambiando il mio prudente silenzio per stupidità.
Grazie delle tue continue partenze:
grazie dei tuoi ritorni:
“avrei voluto viaggiare con te”.
Grazie dei tuoi “ti amo”
scanditi dalle telefonate.
Grazie, amore, grazie, amore,
grazie sul serio,
perché, se è vero tutto questo,
il mio amore è stato grande davvero.
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