giovedì 16 maggio 2019

OGGI SI MANGIA... CULTURA. Con l'Istituto "Maredolce", la "Piccola Accademia dei Talenti" e l'Istituto Alberghiero "Giovanni Gentile" per la Settimana delle Culture a Palermo






PROGRAMMA PARTICOLARE DELLA RETE 
"BRANCACCIO/MAREDOLCE... AL CENTRO"



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Intervento dell'ICS "Maredolce"



Lettura tratta da "Il Gattopardo"

IL PRANZO A DONNAFUGATA
La porta centrale del salotto si apri e “Prann’ pronn’“ declamò il maestro di casa; suoni misteriosi mediante i quali si annunziava che il pranzo era pronto; e il gruppo eterogeneo si avviò verso la stanza da pranzo.

Il Principe aveva troppa esperienza per offrire a degli invitati siciliani in un paese dell’interno, un pranzo che si iniziasse con un potage, e infrangeva tanto più facilmente le regole dell’alta cucina in quanto ciò corrispondeva ai propri gusti. 
Ma le informazioni sulla barbarica usanza forestiera di servire una brodagliacome primo piatto erano giunte con troppa insistenza ai maggiorenti di Donnafugata perché un residuo timore non palpitasse in loro all’inizio di ognuno di quei pranzi solenni. 

Perciò quando tre servitori in verde, oro e cipria entrarono recando ciascuno uno smisurato piatto d’argento che conteneva un torreggiante timballo di maccheroni, soltanto quattro su venti persone si astennero dal manifestare una lieta sorpresa: il Principe e la Principessa perché se l’aspettavano, Angelica per affettazione e Concetta per mancanza di appetito. 
Tutti gli altri (Tancredi compreso, rincresce dirlo) manifestarono il loro sollievo in 
modi diversi, che andavano dai flautati grugniti estatici del notaio allo strilletto
acuto di Francesco Paolo. 
Lo sguardo circolare minaccioso del padrone di casa troncò del resto subito queste manifestazioni indecorose.

Buone creanze a parte, però, l’aspetto di quei babelici pasticciera ben degno di evocare fremiti di ammirazione. L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zuccheroe di cannellache ne emanava non erano che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un vapore carico di aromi, si scorgevano poi i fegatini di pollo, gli ovettiduri, le sfilettature di prosciutto, di polloe di tartufiimpigliate nella massa untuosa, caldissima dei maccheroncinicorti cui l’estratto di carneconferiva un prezioso color camoscio. 

L’inizio del pasto fu, come sempre avviene in provincia, raccolto. 

L’Arciprete si fece il segno della croce e si lanciò a capofitto senza dir parola;

 l’organista assorbiva la succolenza del cibo ad occhi chiusi: era grato al Creatore che la propria abilità nel fulminare lepri e beccacce gli procurasse talvolta simili estasi, e pensava che col solo prezzo di uno di quei timballi lui e Teresina avrebbero campato un mese; 

Angelica, la bella Angelica, dimenticò i migliaccini toscanie parte delle proprie buone maniere e divorava con l’appetito dei suoi diciassette anni e col vigore che la forchetta tenuta a metà dell’impugnatura le conferiva. 

Tancredi, tentando di unire la galanteria alla gola, si provava a vagheggiare il sapore dei baci di Angelica, sua vicina, nel gusto delle forchettate aromatiche, ma si accorse che l’esperimento era disgustoso e lo sospese, riservandosi di risuscitare queste fantasie al momento del dolce; 

Don Fabrizio, benché rapito nella contemplazione di Angelica che gli stava di fronte, ebbe modo di notare, unico a tavola che la demi-glacéera troppo carica e si ripromise di dirlo al cuoco l’indomani; 

gli altri mangiavano senza pensare a nulla e non sapevano che il cibo sembrava loro tanto squisito anche perché un’aura sensuale era penetrata nella casa.

IL BUFFET A PALAZZO PONTELEONE

Finito il valzer, Angelica propose a Don Fabrizio di cenare alla tavola sua e di Tancredi; lui ne sarebbe stato molto contento ma proprio in quel momento i ricordi della sua gioventù erano troppo vivaci perché non si rendesse conto di quanto una cena con un vecchio zio gli sarebbe riuscita ostica, allora, mentre Stella era li a due passi. 

“Soli vogliono stare gli innamorati o magari con estranei; con anziani e, peggio che peggio, con parenti, mai.” 
“Grazie, Angelica, non ho appetito. Prenderò qualcosa all’impiedi. Vai con Tancredi, non pensate a me.” 

Aspettò un momento che i ragazzi si allontanassero, poi entrò anche lui nella sala del buffet. 
Una lunghissima stretta tavola stava nel fondo, illuminata dai famosi dodici candelabri di vermeil che il nonno di Diego aveva ricevuto in dono dalla Corte di Spagna al termine della sua ambasciata a Madrid: ritte sugli alti piedestalli di metallo rilucente, sei figure di atleti e sei di donne, alternate, reggevano al disopra delle loro teste il fusto d’argento dorato, coronato in cima dalle fiammelle di dodici candele: la perizia dell’orefice aveva maliziosamente espresso la facilità serena degli uomini, la fatica aggraziata delle giovinette nel reggere lo spropositato peso.
Dodici pezzi di prim’ordine. “Chissà a quante ‘salme’ di terra equivarranno” avrebbe detto l’infelice Sedàra. 
Don Fabrizio ricordò come Diego gli avesse un giorno mostrato gli astucci di ognuno di quei candelabri, montagnole di marocchino verde recanti impresso sui fianchi l’oro dello scudo tripartito dei Ponteleone e quello delle cifre intrecciate dei donatori. 
Al disotto dei candelabri, al disotto delle alzate a cinque ripiani che elevavano verso il soffitto lontano le piramidi di “dolci di riposto” mai consumati, si stendeva la monotona opulenza delle tables a thèdei grandi balli: coralline le aragoste lessate vive, cerei e gommosi gli chaud-froids di vitello, di tinta acciaio le spigoleimmerse nelle soffici salse, i tacchiniche il calore dei forni aveva dorato, le beccaccedisossate recline su tumuli di crostoni ambratidecorati delle loro stesse viscere triturate, i pasticci di fegato grassorosei sotto la corazza di gelatina; le galantine color d’aurora, dieci altre crudeli colorate delizie; all’estremità della tavola due monumentali zuppiere d’argento contenevano il consommé, ambra bruciata e limpido.

I cuochi delle vaste cucine avevano dovuto sudare fin dalla notte precedente per preparare questa cena. 
“Caspita quanta roba! Donna Margherita sa far bene le cose. Ma ci vogliono altri stornaci del mio per tutto questo. 

Disprezzò la tavola delle bibite che stava sulla destra luccicante di cristalli ed argenti, si diresse a sinistra verso quella dei dolci. Li immani babàsauri come il manto dei cavalli, Monte-Bianconevosi di panna; beignets Dauphineche le mandorle screziavano di bianco ed i pistacchidi verdino; collinette di profiteroles alla cioccolata, marroni e grasse come l’humus della piana di Catania dalla quale, di fatto, attraverso lunghi rigiri esse provenivano, parfaits rosei, parfaits sciampagna, parfaits bigi che si sfaldavano scricchiolando quando la spatola li divideva, sviolinature in maggiore delle amarene candite, timbri aciduli degli ananas gialli, e “trionfi dellaGola”col verde opaco dei loro pistacchi macinati, impudiche “paste delle Vergini.”Di queste Don Fabrizio si fece dare due e tenendole nel piatto sembrava una profana caricatura di Sant’Agata esibente i propri seni recisi. 
“Come mai il Santo Uffizio, quando lo poteva, non pensò a proibire questi dolci? I ‘trionfi della Gola’ (la gola, peccato mortale!), le mammelle di S. Agata (dette anche minni di virgini, ndr) vendute dai monasteri, divorate dai festaioli! Mah!” 

Nella sala odorosa di vaniglia, di vino, di cipria, Don Fabrizio si aggirava alla ricerca di un posto. Da un tavolo Tancredi lo vide, batté la mano su una sedia per mostrargli che vi era da sedersi; accanto a lui Angelica cercava di vedere nel rovescio di un piatto d’argento se la pettinatura era a posto. Don Fabrizio scosse la testa sorridendo per rifiutare. Continuò a cercare. 

Da un tavolo si udiva la voce sodisfatta di Pallavicino: “La più alta emozione della mia vita...” Vicino a lui vi era un posto vuoto. Ma che gran seccatore! Non era meglio dopo tutto ascoltare la cordialità forse voluta ma rinfrescante di Angelica, la lepidezza asciutta di Tancredi? No; meglio annoiarsi che annoiare gli altri. Chiese scusa, sedette vicino al colonnello che si alzò al suo giungere il che gli riconciliò un poco delle simpatie gattopardesche. Mentre degustava la raffinata mescolanza di bianco mangiare,pistacchiocannellaracchiusa nei dolci che aveva scelti, Don Fabrizio conversava con Pallavicino e si accorgeva che questi, al di là delle frasi zuccherose riservate forse alle signore, era tutt’altro che un imbecille; era un “signore” anche lui e il fondamentale scetticismo della sua classe, soffocato abitualmente dalle impetuose fiamme bersaglieresche del bavero, faceva di nuovo capolino adesso che si trovava in un ambiente eguale a quello suo natio, fuori dell’inevitabile retorica delle caserme e delle ammiratrici.


CANTO TRADIZIONALE

A CUGGHIUTA DE LUMEI 
(La raccolta dei Limoni) 
Testo originale 
O pedi di lumia ca ti rivesti di pampini odurusi e di pinnenti, si lu tò fruttu abbunna cci su festi e li travagghi sù divirtimenti. Quanta ricchizza cc'è 'ntra sti cuntrati quantu ci fu binigna la natura, la zagra odura di 'nvernu e di stati lu fruttu tuttu l'annu si matura. Ricoti li lumii di primu ciuri, cugghemu li jancuzzi e li virdeddi e travagghiannu cantamu d'amuri, sù ccà 'nsicilia li picciotti beddi.La sicilianedda ch'è massara, non cura li strapazzi di campagna, brucia lu suli sta sutta la fara e di l'acqua e lu ventu non si lagna
 Traduzione Letterale
O albero di limone che ti rivesti di foglie odorose e di frutti pendenti, se i tuoi frutti abbondano c'è festa ed il lavoro è un divertimento. Quanta ricchezza c'è in queste contrade quanto è stata benevola la natura, la zagara odora d'inverno e d'estate il frutto matura tutto l'anno. Raccolta di limoni di prima fioritura, raccogliamo i bianchetti e i verdelli e lavorando cantiamo d'amore, sono quà in Sicilia le belle ragazze. La siciliana che è massaia, non si cura delle fatiche di campagna, brucia il sole e sta sotto l'afa e dell'acqua e del vento non si lamenta


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