venerdì 7 dicembre 2012

FORTUNA A PAGAMENTO





Giovanni Verga, nella Cavalleria rusticana, per annunciare l’eleganza vistosa di  Turiddu Macca, il figlio della gnà Nunzia, dice che “come tornò da fare il soldato, ogni domenica si pavoneggiava in piazza coll'uniforme da bersagliere e il berretto rosso, che sembrava quella della buona ventura, quando mette su banco colla gabbia dei canarini.”

Io lo so a cosa si riferisce il Verga perché nella mia infanzia, in paese, ho visto l’uomo  col canarino che vendeva “pianete”:  i bigliettini colorati con su scritta la ventura; lo richiedevano zitelle in attesa di risposte amorose o braccianti che cercavano lavoro o ammalati che volevano guarire; il canarino ammaestrato afferrava col becco i bigliettini da due diverse cassettine a seconda della cifra pagata, le offerte maggiori riservavano un futuro più roseo e promettente.





Quando l’uomo della pianeta srotolava il bigliettino tutti si raccoglievano in un silenzio gravido di timori e speranze. Attorno a lui si creava un’atmosfera festosa che Verga immagina intorno a Turiddu Macca della gnà Nunzia quando indossava l’uniforme da bersagliere e il berretto rosso:  “Le ragazze se lo rubavano cogli occhi, mentre andavano  a messa col naso dentro la mantellina, e i monelli gli ronzavano attorno come le mosche”.

Queste scene sono ormai scomparse, ma qualche venditore di sogni è  stato avvistato ancora nei primi Anni Settanta a ridosso del quartiere di Santa Rosalia a Palermo, come mi riferisce il mio giovane preside Vito Pecoraro. E in una versione un po’ diversa a Caltanissetta, col pappagallo verde al posto dei gialli canarini, come ce lo racconta poeticamente Carlo Lapaglia, le cui raccolte di poesie mi sono venute tra la mani grazie al figlio Antonio: 



Passava un fintu zingaru vinnennu la “furtuna”
Ccu un virdi pappagaddru. Chissu ccu u beccu duna,
tirannilu da un mazzu, culuratu un pizzinu.
E ddocu, paru paru, cc’era lu to distinu.

E ‘n funnu a lu pizzinu un ternu cc’era scrittu
Ca s’aveva a jucari ccussì com’era dittu…
Ma chistu era impossibili nun si puteva fari
Pirchì ppi u jocu i Napuli… nun c’eranu dinari.

Né donna Patrunedda e né lu so maritu
Pottiru mai capiri comu lu “cocoritu”
Du casciuneddu pizzica e nzerta la furtuna
(ca a ranni ed a picciddi tanta spiranza duna).

La nzerta a lu braccianti ed a la vicchiredda
Comu all’omu eleganti ed a la picciuttedda.
Ma certu chissu armali devi essiri fatatu…
Com’è ca lu pizzinu veni sempri azziccatu?

Ma a nuddu ci vinìa ‘n testa d’addumannari
Pirchì dui su i purtedda d’unni si fa tirari
O da manca o da dritta o di ‘n funnu o davanti
Da dd’aceddu fatatu pizzinu mportanti.


Passava un finto zingaro vendendo la fortuna
Con un verde pappagallo. Questi con il becco dà,
estraendolo da un fascio, un biglietto colorato.
E lì, per intero, si trovava (scritto) il destino.

E in fondo al biglietto un terno c’era scritto
Che si doveva giocare così com’era detto…
 Ma questo era impossibile, non si poteva fare
Perché per la ruota di Napoli… non c’erano i denari.

Né donna Petronilla e né suo marito
Poterono mai capire come il pappagallo
Dal cassettino estraesse  e indovinasse la fortuna
(che a grandi e piccini tanta speranza accendeva).

La pronostica al bracciante e alla vecchierella
Così come all’uomo distino e alla giovincella.
Certamente quell’animaletto deve essere ammagato…
Com’è che il biglietto (giusto) viene sempre azzeccato?

Ma a nessuno veniva in mente di chiedere
Perché due erano gli sportellini da dove  si poteva estrarre,
O da sinistra o da destra o dal fondo o dalla superficie,
Da parte dell’uccello presago, quel bigliettino importante?





Potrebbe sembrare ingenuo e fin troppo scontato un tal modo di voler indovinare il futuro, ma da che cosa si discosta lo srotolare bigliettini colorati con la ventura  preconfezionata dal leopardiano venditore di “almanacchi, almanacchi nuovi!”?
O dal richiedere positivi mutamenti dei nostri destini affidandoci a tecnologici oroscopi o a promesse di tesori gratta e vinci? Da cinque, da dieci, da venti euro. E forse più.




Foto e traduzione proprie

mercoledì 5 dicembre 2012

LU CAHÈ

seguito del post precedente "Gli Arabi dalle nostre parti"



Macinacaffè a manovella


Alla ricerca di informatori

Non dissi a mio suocero, che usciva molto presto la mattina, che sarei andato a Racalmuto. Non pensavo che avrei dovuto far tesoro, per le mie inchieste, di sue eventuali conoscenze.
Giunsi nel piccolo centro a un’ora discreta del mattino. Dovevano essere le dieci. Ricordo il sole già alto nel cielo intenso d’azzurro, e il suo riverbero accecante sulla pietra bianca della chiesa madre, la piazza ampia dove avevo parcheggiato la macchina, il torrione smozzicato da un lato e dall’altro la scalinata del Carmine con plaghe d’ombra.
La piazza. Era lì – pensavo –  che avrei dovuto trovare miei informatori.
Tre amici discutevano tra loro nel sole. Mi sembrarono subito le persone giuste. Furono gentilissimi. Volentieri avrebbero partecipato all’inchiesta, ma stavano per andar via. Perché non andare da quei vecchietti seduti al fresco su per i larghi gradini della scalinata della Madonna del Monte?
Il consiglio fu splendido e lo seguii subito.
Di lì a qualche minuto mi trovai di fronte a un’altera figura di zolfataro in pensione. Era seduto al fresco, immerso nei suoi pensieri, teneva in mano un bastone in modo quasi ieratico, mentre un’antica consapevole fierezza gli sprizzava dagli occhi azzurri, ora a me attenti, accentuata dalla sua posizione centrale sul largo gradino.
Chi meglio di lui?


Racalmuto, Via Ferdinando Martino. Quartiere del Carmine


Non sapemu nenti!

Rispose cortesemente al mio saluto, ma non restò convinto dal fatto che qualcuno, il ragazzotto che potevo allora sembrare, spacciandosi per un professore universitario, potesse avere interesse nientemeno che per il dialetto. Furono questi i pensieri che gli frullarono in testa nel baleno che guizzò nei suoi occhi e nella risposta con la quale scoraggiò immediatamente la continuazione del dialogo.
Che mi rivolgessi al vicepresidente del Circolo che era lì a due passi, peraltro incuriosito dalla mia presenza e ormai pure lui sul chivalà.
Lo feci, mi rivolsi a lui, ma mi disse a sua volta di rivolgermi al presidente, anche lui attento all’insolito estraneo, dall’interno del circolo. Il presidente non poté rimandarmi a nessun Erode o Pilato e con un secco Non sapemu nenti! inibì ogni possibilità di conversazione.
Inutile far presente che provenivo da Castrofilippo, che mio suocero era di Castrofilippo e che volevo solo conoscere parole dialettali. La sua risposta non ammetteva replica.
Che fare?
Demordere no!
Mi restava l’alternativa del parroco, la speranza che questi fosse originario del luogo e che fosse disposto ad ascoltarmi.
Tornai in piazza ed entrai nella chiesa che era ancora aperta. Il prete era del luogo. L’Arciprete, padre Alfonso Puma – un intellettuale seppi poi, un raffinato pittore, amico di Sciascia – capì subito quel che volevo e si mise a disposizione.
Ne fui felice.
Ma fu felicità che durò poco. Di lì a mezzora padre Puma mi disse che, suo malgrado, avremmo dovuto interrompere l’inchiesta per un suo impegno. Un funerale, mi sembrò di capire.
Gli dissi che avrei aspettato che finisse la funzione e che, comunque,  sarei potuto tornare nel pomeriggio, l’indomani e poi ancora negli altri giorni della settimana.
Dispiaciuto, mi disse che non gli era possibile incontrarmi prima di una decina di giorni, non ricordo per quale suo impegno in curia, ad Agrigento.





L’incontro risolutore
Ero davvero rammaricato e stavo per salutare ed andare via, quando vidi brillare d’un sorriso il faccione abbronzato del sacerdote per l’ingresso di un signore in sacrestia. Me lo presentò subito. Un avvocato del luogo e anche… l’assessore alla cultura del Comune.
Nessuno meglio di lui per accedere alla simpatia dei racalmutesi, pensai. Ed era quello che aveva già pensato l’Arciprete.
Il passaggio di consegne fu immediato e poco dopo mi ritrovai sulla strada in direzione della scala dei vecchietti e, inspiegabilmente, a braccetto dell’assessore. Mi rifiutai di tornare dai nostri vecchietti, raccontando all’assessore dell’incontro poco felice di qualche ora prima.
E l’assessore affabilmente, ma fermamente:
– Professore, Lei vuole fare l’inchiesta?
Una domanda retorica che mise subito a tacere il mio orgoglio.
Giunti di fronte ai vecchietti – altri se ne erano adunati attorno a quello con gli occhi azzurri –, mi ritrovai con la mano dell’assessore sulla spalla che mi presentò dicendo:
– Questo è amico mio. Parlate pure!
La sua strategia, a braccetto prima e poi con la mano sulla mia spalla, mi fu subito chiara.
Parlammo, parlammo a lungo. Esaurii in più giorni i questionari del Vocabolario Siciliano. E il vecchietto dagli occhi azzurri sostenne con gioia e fino alla fine la conversazione.
Diventammo amici. Mi chiese dove abitassi – forse nella stessa Racalmuto, pensava, visto che tornavo due volte al giorno e per più giorni. Fu felice di sapermi a Castrofilippo, dove conosceva tante persone.




     Castrofilippo, 2009. Da dx: Antonio Patti, Salvatore Trovato,
Piero Carbone, Franco Provenzano


Li favi e la farrubba

Proprio l’ultimo giorno, quando il sole picchiava sulla scalinata del Monte e stavo per andare via, mi accorsi di una domanda non fatta: le fave, come chiamate le fave a Racalmuto?
La domanda la posi per scrupolo. Che risultato avrei potuto aspettarmi?
E il vecchietto mi rispose: – Li favi.
Subito dopo, PERò, mentre un lampo geniale gli guizzava negli occhi:
– Ma lo sa che al quartiere Carmine si dice li havi?
Fortuna che l’ora era ancora buona e potei correre subito al Carmine, dove non incontrai informatori disponibili, ma uno studente dell’università di Palermo, Piero Carbone, ora raffinato poeta in dialetto, che subito e poi anche nel pomeriggio mi accompagnò in giro, a sentire la gente parlare.
Non trovammo subito li havi, ma qualcuno volle però offrirci lu cahè e ascoltammo tutte le persone che potemmo per la via centrale e per i bar con l’impressione che la gente ci mettesse poco forza nell’articolare la f, in qualsiasi posizione.
Poi, prima di rientrare a Castrofilippo, entrai nella farmacia locale, per comprare i pannolini al mio bambino.
Qui, un vecchio rinsecchito dal sole, mostrava nello sguardo la sospensione di un dialogo già avviato con la farmacista. Infatti, quando questa tornò al banco, porgendogli il piccolo involto, gli raccomandò con voce suadente:
– Se le deve fare le iniezioni, se le deve fare, se vuole guarire!
E lui, di rimando, sicuramente convinto dall’esortazione della farmacista:
Mmah!… Ca si mi l’à-hhari mi li hazzu! Mah!… che se me l’ho a fare, me le faccio!
Non disse più nulla, ma fu per me quella risposta la testimonianza più bella, la prova più stringente di quel suono: l’h invece dell’f. Più ancora del cahè degustato qualche ora prima.
Comunicai a Piero Carbone il mio ritorno a Racalmuto per l’indomani e approntai nella notte un questionario specifico.
Incontrammo – l’indomani – una persona di cui serbo grata la memoria, il prof. Nicolò Macaluso, insegnante elementare in pensione, che ci portò a casa e collaborò attivamente all’inchiesta, insieme alla moglie, pure lei maestra in pensione. Conoscevano bene quella pronuncia e ne facevano uso.


Racalmuto, Teatro Regina Margherita, 2008.
Il prof. Trovato è il primo a destra.


Conclusioni dello studioso

Raccolti tutti i materiali possibili, mi era ormai chiaro che a Racalmuto la doppia pronuncia harrubba/farrubba era il diverso modo di di adattare l’ar. h a r r ū b: varianti fonetiche che non escludono, nell’area, il tradizionale e più diffuso carrubba: tre pronunce che in tempi diversi si sono contese la palma della popolarità, salendo e scendendo sul podio dell’uso varie volte. Come avviene ancora a Pantelleria, dove le tre pronunce hanno rilevanza sociolinguistica.
La stessa cosa è avvenuta a Ragusa – da lì eravamo partiti –  dove si sono contese il campo forme con f e forme con k. Da disapprovare le forme con f perché sentite come contadinesche. Al punto che anche fasola con f etimologico poté diventare casola.
Il problema di Ragusa si era  risolto a Racalmuto. E grande fu il merito del vecchietto racalmutese dagli occhi azzurri, che non ebbi più modo di ringraziare.
Dopo qualche anno, a un incontro culturale a Racalmuto, ho potuto raccontare l’intera vicenda. Il caro vecchietto non c’era.
E l’f per k, oltre che h, non è solo la risposta siciliana alle parole dell’arabo che presentano un suono per così dire “aspirato” (ma fricativo velare o postvelare in realtà), ma anche a parole bizantine, del francese antico e dell’inglese d’America con analoghi suoni, come poi ebbi modo di illustrare in un lavoro che vide la luce nel 1995, sul num. 18 del “Bollettino del Centro di Studi filologici e linguistici siciliani” (pp. 279-93): un fenomeno che è molto più di “un’alterazione seriore e meno avvertita” come aveva scritto più di un secolo prima Corrado Avolio, se di esso bisogna tener conto – la letteratura non è avara – nello studiare il contatto delle lingue romanze con altri sistemi linguistici.

Salvatore C. Trovato (Università di Catania)





Il post, riveduto dallo stesso autore e adattato a un pubblico non specialista è pubblicato nella sua redazione originaria nel vol. Per i linguisti del nuovo millennio. Scritti in onore di Giovanni Ruffino a cura del Gruppo di ricerca dell’Atlante Linguistico della Sicilia,  Palermo, Sellerio, 2011, pp. 93-99. Nuova è la titolazione e la stessa paragrafazione.




Foto proprie

Precedentemente ho proposto la pubblicazione di questo post su:













martedì 4 dicembre 2012

GLI ARABI DALLE NOSTRE PARTI



L’esperienza di un dialettologo a Racalmuto agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso 



In arabo due toponimi nostrani, Raff e Sarqi: Raffo e Saraceno


GLI ARABI DALLE NOSTRE PARTI

di

Salvatore C. Trovato (Università di Catania)

Un nodo da sciogliere: perché casola invece di fasola nel Ragusano?

Non avrei mai pensato, quando, studente universitario di primo anno, appresi dal professor Giorgio Piccitto, – alle lezioni di Glottologia – che a fasola, in italiano ‘i fagioli’, si chiamasse a casola a Ragusa, non avrei mai pensato, dicevo, che la soluzione di quel k- per f-, problematico in quella primavera del 1967, l’avrei trovata un giorno a Racalmuto in provincia di Agrigento. Quasi senza cercarla.
Peraltro, avendo avuto modo di conoscere, di lì a poco, una studentessa universitaria della provincia di Agrigento che studiava nella mia stessa Università e che collaborava per la sua area alla raccolta di materiali per il Vocabolario siciliano, grazie a lei venni a conoscenza del fatto che, in area agrigentina, appunto, la carruba si chiamasse farrubba. Il problema del k- per f- si poneva ora, in maniera speculare, accanto al problema dell’f- per k-.
Da dove partire?

I due problemi non potevano non essere interrelati e tutto mi faceva credere che costituissero la doppia faccia della stessa medaglia.
Non potevo aver fretta. Del resto sapevo – me l’avevano frattanto insegnato tanti maestri, Giorgio Piccitto e Giovanni Tropea a Catania, Manlio Cortelazzo e Giovan Battista Pellegrini a Padova – che dietro alla soluzione di un problema si poteva stare anche anni. Pellegrini lo ribadiva particolarmente per la ricerca etimologica. L’importante è porseli, i problemi. Poi, per quel che riguarda l’etimologia – e in genere la linguistica storica – la soluzione arriva quando si viene a scoprire l’anello mancante.
D’altra parte, più volte i miei genitori – pure loro maestri, di vita più che di studi – mi avevano esortato alla costanza col noto proverbio dammi tempu chi ti pèrciu!, che è quanto un topolino avrebbe detto a una noce sana e robusta, sicura di non essere bucata dai dentini del piccolo topo, il quale, invece, per la costanza riuscì nel suo intento.


Fagioli e carrube


La soluzione è lontana: nell’area agrigentina

Fu così che la soluzione di quella strana aporia, k- per f- e f- per k-, mi balenò nitida in un’assolata mattina d’agosto, a Racalmuto, durante un’inchiesta dialettologica che vale la pena ricordare.
Passavo una parte delle vacanze estive a Castrofilippo, dai miei suoceri  – la       ragazza agrigentina era frattanto diventata mia moglie.
Che fare a Castrofilippo, un piccolo paese dove non succede niente, dove in campagna, chi non vi lavora, ci va solo nel tardo pomeriggio per diporto, dove la gente, d’estate soprattutto, è intenta al lavoro nei vigneti e negli orti o ai commerci e non si trova quasi nessuno per le strade assolate?
O studiare o, nella mia condizione, esercitare il mestiere del dialettologo. In giro per i paesi vicini. Peraltro con l’avidità di chi sa di trovarsi in una zona quasi maghrebina, dove gli uomini, taciturni, bassi e scuri sembrano rassegnati alla vita e al sole cocente, e con l’interesse dello studioso a scoprire un’area poco nota e, forse, poco studiata.
Inseguivo l’idea che la presenza dell’arabo in quell’area dovesse essere ancora forte.





Scebba al posto di liscìa e ticchjara: alcuni arabismi di prevalente area agrigentina

Nella famiglia di mia moglie sentivo ancora adoperare – dalla nonna anziana –  due arabismi che mi avevano particolarmente colpito:  scebba ‘un particolare tipo di cenere per il ranno’ a me nota come liscìa, e ticchjara ‘il caprifico’, partic. nel prov. caru amicu - la ticchjara fa li ficu per dire che ‘è dovuta al caprifico la fecondazione dei fichi’ e estens. ‘è la persona adeguata, ad es. l’artigiano specialista, a portare a buon termine un lavoro specifico, e non il praticone che sa fare tutto, ma in maniera assai dozzinale’. In quella zona, infatti, nel periodo adeguato si raccolgono ancora i frutti del caprifico, se ne fa una collana e con questa si inghirlanda l’albero del fico pronto a sbocciare.



Da Castrofilippo al Vocabolario Siciliano

Quante altre parole, locuzioni, proverbi e costrutti particolari avevo frattanto potuto raccogliere nella piccola Castrofilippo, in gran parte finiti nel Vocabolario siciliano fondato da Giorgio Piccitto e allora in fase di realizzazione (i cinque volmi vennero completati poi nel 2002).
Come non ricordare, a questo proposito, la diversa collocazione degli elementi di una frase complessa pronunciata con tono enfatico, cpome, ad esempio, Ti li dugnu! vidi ca (lett. ‘Te le do!, vedi che’) detta come minaccia, ad es. a un bambino, che ha fatto finta di niente del primo non marcato avvertimento Vidi ca ti li dugnu!; o la focalizzazione in chjovi, quasi ca per attirare l’attenzione dell’interlocutore sull’imminenza della pioggia, e ancora la marcatezza del costrutto iu menzu foddhi sugnu, mpazzi ca ti pari ca! per dire che l’apparente calma del soggetto che parla è illusoria e che è il caso di smettere di fare o di dire qc. che urti la sua suscettibilità (lett. ‘io mezzo folle sono, non faccia che ti sembri che [non sia così])!
Come non ricordare queste cose e tante altre ancora?




Su queste basi e sull’onda dell’entusiasmo della conoscenza della Sicilia linguistica che s’allargava sempre più attraverso la redazione di centinaia di pagine del Vocabolario Siciliano, nulla di meglio mi si poteva offrire del conoscere dall’interno un’area nella quale il diffuso bilinguismo arabo-romanzo di quasi un millennio prima continuava a restituire alla ricerca ben più che frustoli sparuti. Triddinari, ad esempio, il nome della cicatricola dell’uovo – spesso presente in Sicilia insieme a farrubbeddra – trovava motivazione proprio in quest’ultima denominazione che muove dal modello arabo h a r r ū b ‘nome d’una piccola moneta di bronzo, di 3 centesimi’, di cui è traduzione. 

E la stessa cosa può dirsi della coppia  (crapa) fartasa/tignusa ‘capra senza corna’. La parola araba, anzi berbera, fartasa, è diffusa in una piccola area nordorientale tra Adrano e Messina, un’area che nel Medioevo fu prevalentemente greca, ma manca ad Agrigento, la capitale dei Berberi di Sicilia, e nella Sicilia centrale, dove è invece presente tignusa
Nella cuspide nordorientale i pastori e i caprai agrigentini avevano esportato la capra maghrebina, senza corna, e il nome, fartasa: oscuro e immotivato per i loro colleghi di lingua greca, che quel nome accolsero come prestito. Ma non per loro che, attori del bilinguismo romanzo-arabo, furono in grado di tradurre fartasa con tignusa.

Nulla di meglio, su queste basi, che esplorare la zona a cavallo tra Caltanissetta ed Agrigento, a cominciare dai piccoli centri, nell’Agrigentino, di Racalmuto, Grotte, Comitini, Favara e, nel Nisseno, di Delia, Milena, Bompensiere, gran parte dei quali con nome arabo, Milena inclusa. La quale, se pur se chiamata così in onore della regina del Montenegro, madre della regina Elena, è ancora popolarmente chiamata Milocca, e Bompensiere, arabo nel nome ufficiale (in documento quattrocentesco è ricordato come Bumanzili) e in quello popolare, che è ancora Naduri.
Racalmuto fu la prima tappa delle mie indagini e il luogo dove avrei trovato la soluzione del vecchio problema.

Salvatore C. Trovato (Università di Catania)



Il post, riveduto dallo stesso autore e adattato a un pubblico non specialista è pubblicato nella sua redazione originaria nel vol. Per i linguisti del nuovo millennio. Scritti in onore di Giovanni Ruffino a cura del Gruppo di ricerca dell’Atlante Linguistico della Sicilia,  Palermo, Sellerio, 2011, pp. 93-99. Nuova è la titolazione e la stessa paragrafazione. P. C.


Precedentemente ho proposto la pubblicazione di questo post su:
http://castrumracalmuto.blogspot.it/2012/06/gli-arabi-dalle-nostre-parti.html

http://www.interromania.com/sites/default/files/lumie_di_sicilia_76_ottobre_2012.pdf

Sull'attività del prof. Sa,vatore C. Trovato:
http://laledi.wordpress.com/persone/salvatore-trovato/


lunedì 3 dicembre 2012

RITMI ANTICHI





Per fede o per tradizione? 
Fatto sta che i racalmutesi aprivano  e chiudevano i secoli con l’inaugurazione di una nuova campana. 
Nel diciassettesimo  secolo, il 1613 e il 1697 le fortunate date. 
Nel trascorso* e ventesimo, unificate sono state le due date ma quadruplicate le concertanti campane.
 Nel montaggio, una cadde da un’altezza di trenta metri sfiorando un passante rimasto incolume per miracolo. Alcuni piccoli frammenti del sacro conio sono stati conservati nei portafogli come reliquie.

Padre Arrigo modernamente impiantò sul campanile del Carmine due altoparlanti e a mane e a sera inondava il quartiere di toccheggianti melodie finché non procurò una solenne campana trasportandola, con atto d'imperio, dalla cadente chiesa di Santa Maria su un carro trainato da buoi. 
E se si restaura Santa Maria? Forse si profila all'orizzonte una nuova querelle, all'ombra dei campanili.



"Popolo in cammino", numero unico, dicembre 1985.
Testimonianza di Angelo Scimè:
"Ho la foto originale. Quello poggiato sulla campana è mio padre Peppi Scimè che ha effettuato l'operazione ( muratore) accanto a lui i manovali , a destra mio cugino Peppi Mattina ( fratello di Don Luigi Mattina) l'uomo con gli occhiali è mio zio Carmelo Mattina , papà di Peppi e Sac. Luigi Mattina . Il Prete è Padre Arrigo."


         Era il toccheggiare prestabilito delle amiche campane, spicciola liturgia delle ore, a regolare le giornate come in un dilatato convento: all’alba, la santa cruci; a mezzogiorno (ciccanninu) l’Angelus; all’imbrunire, l’Ave Maria; la Salve Regina un’ora più tardi.  

         Ad ogni tocco “santa campana…”, una preghiera, il segno della croce, un gesto, la cessazione di un’attività, l’inizio di un’altra, un modo di dire, come ad esempio: “Suona ciccanninu solo per alcuni, suona l’Ave Maria e suona per tutti: per chi si trova in casa e chi per la via”. 

Sona ciccannìnu e sona a parti
sona l'avirmaria e sona pi tutti
pi cu si trova n casa e  pi la via

Come dire che solo alcuni fanno a mezzogiorno la pausa per il pranzo ma all’Ave Maria tutti cessano di lavorare e nell’approssimarsi al paese possono udire le squille, e scoprirsi il capo.






Così una volta. Ritmi antichi. Anche gli aneliti. 





Cfr. Piero Carbone, Eretici a Regalpetra, Prefazione di Claude Ambroise, Ettore Grillo Editore, Enna 1997.


Le campane di Burgio
http://www.profilemagazinetv.it/index.php?option=com_content&view=article&id=224%3Ale-campane-burgio&catid=14&Itemid=118



sabato 1 dicembre 2012

VINCENZO CONSOLO E LE CHORISIE DI PALERMO.






Metafora o presagio?

Mi sovviene un ricordo legato alle corisie, rievocate nel romanzo Lo spasimo di Palermo.

Alla fine di un convegno, Consolo fu incuriosito dagli alberi panciuti e spinosi detti anche alberi bottiglia che costeggiano il Viale delle Scienze di Palermo e mostrò il desiderio di conoscerli meglio. 
Anch’io mi trovai con altri convegnisti a sentire quella richiesta. Gli promisi che avrei fatto delle ricerche in proposito e gliele avrei comunicate. Lui gradì molto e mi ringraziò.





Dopo qualche tempo, in occasione della presentazione di un libro sul restauro della chiesa dello Spasimo, gli consegnai una busta con le notizie sulle chorisie speciose, richieste a mia volta al professore Giovanni Liotta della facoltà di Agraria. 

Quando nel 1998 uscì il romanzo Lo Spasimo di Palermo, provai piacere nel ritrovarvi le corisie o alberi del Kapoc; nella scrittura consoliana, le asettiche notizie della botanica rappresentavano soltanto un pretesto: 

“i tronchi rigonfi delle corisie, la minaccia d’ogni lancia o spina, la meraviglia d’ogni rivolta e attorcimento, l’espansione sinuosa delle ramaglie, il fitto cielo delle foglie, la caduta delle radici e lo strisciare gropposo delle magnolie”.


Insomma, quasi una metafora. O, dilatandola nel tempo, e generalizzandola su storici ed esistenziali attorcimenti, un presagio?











http://regalpetraliberaracalmuto.blogspot.it/2012/01/per-vincenzo-consolo-di-piero-carbone.html