NON SOLO RAGGIA
Col pugno chiuso della mano destra colpivamo a martello, e ripetutamente, il palmo aperto della mano sinistra e in coro, con complice sintonia, cantilenavamo dispettosamente: Raggia! Raggia! Raggia!
Il malcapitato destinatario, che aveva perso al gioco, che non era riuscito in qualche impresa o semplicemente non aveva sortito un qualche scopo da altri invece conseguito, si cuoceva dalla rabbia e a seconda del carattere sbottava in pianto o reagiva in qualche modo, ma la crudele condanna raggiungeva egualmente il suo scopo: fare cuocere nella rabbia la vittima di turno.
Per il gruppo era una palestra di socialità. Per i singoli una prova per temprare il carattere. Ma le intenzioni non erano sempre "cattive", si ricorreva a questa parola anche per innocente scherzo, semplicemente per ridere, ma il significato evocato dalla raggia, comunque, era sempre lo stesso: rabbia per un desiderio inappagato o per un dispetto subito.
Alla parola raggia e al suo significato non ricorrevano solo i ragazzi ma anche gli adulti e allora le esternazioni erano micidiali, sebbene supportate dalle rime e dal canto.
Il canto (popolare) ad esempio era per gli antichi occasione felice per esprimere eloquentemente la raggia che subivano o quella che auguravano agli altri, tutto ciò insomma che urgeva dentro: idillio o rabbia, tenerezza o disprezzo nelle forme e nelle modulazioni più svariate.
I canti rifrangevano, come il prisma la luce, l'unica realtà nelle sue parti costitutive: lavoro, sudore, gelosia, amore....
C'erano i canti dei contadini, degli zolfatai, dei carcerati, degli innamorati, dei delusi, degli irritati, etc.
Una vera filosofia o fenomenologia del canto è espressa dal seguente proverbio:
Cu' havi dinari assai sempri cunta
e cu' la muglieri bedda sempri canta.
Chi ha molti denari sempre li conta
e chi la mogliera bella sempre canta.
Chi ha molti denari sempre li conta
e chi la mogliera bella sempre canta.
Ai sospirosi e/o velenosi canti dei primi, che camuffavano l'invidia e istraevano col canto il pungente desiderio di una donna, che non potevano avere o che avevano brutta, facevano da controcanto le allegre melodie e le giocose rime dei più fortunati che inneggiavano alla bellezza muliebre e alle gioie dell'amore.
Se questi ultimi cantavano:
Affaccia, bedda, di cantu di cantu,
darrieri la to porta sugnu iuntu
Affaccia, bella, con fare convinto,
dietro la tua porta sono giunto.
Affaccia, bella, con fare convinto,
dietro la tua porta sono giunto.
"
gli altri, malaugurando ai più fortunati un esito negativo del loro corteggiamento, così si sfogavano:
Ammàtula t'allisci e fa' cannola,
lu santu è di marmaru e nun suda.
Invano ti intoletti e imboccoli i capelli
il santo, di marmo, non s'incanta di nulla.
Invano ti intoletti e imboccoli i capelli
il santo, di marmo, non s'incanta di nulla.
Oppure inveivano contro l'uva ancora acerba:
Tu chi mi dasti e iu chi ti detti,
tu mi tincisti e iu t'annuvricàvu.
Tu che mi desti e io che ti diedi
mi impolverasti, tu, e io ti annerii.
TUTTO ATTRAVERSO IL CANTO
Col canto, insomma, i più sfortunati smaltivano l'agrume di ogni residuo desiderio insoddisfatto. O così pareva. Di fatto, restavano semplicemente, insaziabilmente inappagati. Motivo per desiderare di più, con più icuto senso del piacere. E solo questo restava loro, un forte desiderio inappagato, e furioso: restava l'allammìcu, voce araba anche questa, ma nel senso tutto racamultese di struggersi nel desiderio (lo fanno i bambini dietro le vetrine di inarrivabili negozi). Chi vi si struggeva, nel desiderio di una donna ambita, dava adito a questa strofa di raggia:
Li luonghi si cuoglinu li ficu
e a li curti ci tocca l'allammicu
Gli alti raccolgono i fichi
ai bassi non tocca se non il desiderio.
Gli alti raccolgono i fichi
ai bassi non tocca se non il desiderio.
e ad altre strofe ancora e ad altre cattiverie, allusive o esplicite, in proverbio o veicolate da piacevoli canzoni.
Si duellava con strofe e controstrofe, nel gioco amoroso e nelle fasi de corteggiamento, con accesa fantasia:
Si ti vuo' arricampàri, t'arricampi,
si nun ti vuo'
arricampàri a cu' la cunti.
Si muori e ti nni va' a lu campusantu
ti viegnu appriessu pi divirtimientu.
Se vuoi rientrare, rientri
se non vuoi rientrare a chi la conti.
Se muori e vai al camposanto,
ti vengo dietro per divertimento.
Se vuoi rientrare, rientri
se non vuoi rientrare a chi la conti.
Se muori e vai al camposanto,
ti vengo dietro per divertimento.
Ovvia, nel risentimento, la risposta.
Immaginiamola lanciata in una serenata (in vernacolo: attùrnu), magari con accompagnamento di due o tre musici alle prese con strumenti musicali casalinghi tra cui una buzzìca (era formata dalla vescica ripulita ed essiccata di tacchino o di maiale in cui si introduceva una cannuccia o uno stelo di grano con imboccatura ad ancia: il suono si produceva, una volta gonfiata la vescica, con la compressione dell'aria e il passaggio di questa attraverso l'ancia; era un suono lamentose e monocorde: da oboe sfiatato) e la caccamella (strumento molto usato a Napoli, formato da un cilindro che fungeva da cassa di risonanza e da una canna che si armeggiava a mo' di stantuffo: serviva per dare il ritmo agli altri suonatori; il cilindro, ricavato anche da una latta di sarde salate svuotata, veniva chiuso ai lati da pelle di animale e doveva essere immerso costantemente nell'acqua); altri strumenti erano l'immancabile mariarrùni e uno sdentato organetto.
Se i genitori della ragazza ritenevano un buon partito il pretendente canterino o lasciavano correre girandosi nel letto dall'altra parte e facendo finta di non sentire oppure, per ostentare nei confronti dei vicini virtuose ritrosie, lasciavano volare vacili (bacinelle) d'acqua limpidissima o lu rinali (il vaso da notte) appena appena utilizzato.
Mi raccontano i più anziani che nella strada attigua dove abitavo con la mia famiglia da piccolo partì da una finestra un inequivocabile colpo di fucile. Che a niente valse, però, e non fermò il focoso amante che organizzò sotto il naso del balistico genitore una classica fuitìna (una fuga amorosa con intenti matrimoniali.)
Precisazione.
La traduzione, per chi non intende il siciliano, ha un valore semplicemente indicativo, tanto per farsi un'idea, come se leggessimo una traduzione dal cinese: non bisogna rincorrere la peculiarità dei suoni traducendo da una lingua in un'altra.
Grazie Piero,mi hai portato una ventata fresca di "antico".Rileggendo questi vecchi detti popolari,rivedevo passare i muli con "li viertuli e li visazzi",li fimmini cu li sciallini n'testa e li fallara ...li picciliddi appriessu cu li fiondi e li trummetti di erba....che bello ...mi sembra di sentirne i suoni.Sono detti che conoscevo ma che la memoria aveva accantonato,averli riscoperti e' stato come fare un salto nel passato che considerando il nostro presente e' stato salutare dimenticarlo anche solo per qualche minuto. Grazie Piero
RispondiEliminaGrazie Piero,rileggere questi vecchi detti popolari mi ha portato una ventata fresca di antico.E' stato bellissimo veder passare i muli cu li viertuli e li visazzi...i fimmini cu li sciallini n'testa e li fallara luordi...i picciliddi appriessu cu li fiondi e li trummetti fatti cu l'erba...quasi ne sento pure i suoni...bellissimo essere tornata indietro di circa 30 anni considerando il presente credimi e' stato salutare anche se solo per qualche minuto.Mi aspetto da te altre emozioni come queste ...grazie Piero !
RispondiEliminaGrazie a te per la testimonianza.
RispondiEliminaQuesto Post è stato ripubblicato sul profilo facebook "A me mi piace la poesia" di Pietro Ciccarelli, che ringrazio per l'interesse dimostrato.
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