Giovani o meno giovani, poco importa, nubili o sposate, prelevavano la biancheria dalle case dei signori, la riponevano in grosse ceste o cufina (dall’arabo “quffa”) che portavano in perfetto equilibrio sulla testa protetta dalla spara o ciambella di stoffa, e s’avviavano al lavatoio. Sovente sorreggevano, premendola al fianco, una quartara, e porgevano la mano libera al figlioletto piagnucolante. Per consolare quel pianto, distraevano il figlioletto assonnato con indovinelli o dubbii, cunti, filastrocche e tiritere.
Giunte al Raffo, o alla Fontana, o al Saraceno, li lavanneri si disponevano in semicerchio attorno alla giebbia (vasca fatta di muratura contenente acqua, dall’arabo “ğabiya”, riserva d’acqua, in genere di pietra, per i cammelli), ciascuna nel suo spazio riservato, al Raffo non si pagava, al Saraceno invece sì perché era proprietà privata: nel periodo dell’ultimo dopoguerra, la mamma di don Rocco, raccolta nel suo scialle, esigeva le quote.
2.
Quindi, le nostre protagoniste si apprestavano con solerzia al lavoro, senza l’ausilio dei moderni detersivi. Le più attrezzate impiegavano la scebba (dall’arabo “šabb” “šabba”: “cenere di scorze di mandorle, utile per il bucato”), altre una locale pietra calcarea bianca, lu trubbu (forse dall’arabo “turb”: terra, polvere). Oppure, sbattendo energicamente sulla balàţa (dall’arabo “balata” lastra di roccia nuda e liscia leggermente inclinata) le lenzuola attorcigliate, come se stessero spaccando pietre con la mazza, queste progenitrici della lavatrice ricavavano un bucato bianchissimo. Per completare la descrizione: quando l’acqua della gièbbia era troppo sporca, veniva fatta defluire completamente rimuovendo lu mazzu, una sorta di tappo costituito da un piccolo tronco che veniva collocato nella parte più bassa del muretto che recintava la gièbbia.
Costrette a stare sul bagnato, le lavandaie alzavano le gonne per non bagnarle, lasciando intravedere le segrete nudità delle ginocchia. Le più guardinghe, o più ardite, assicuravano con gli spilloni i lembi inferiori della veste molto al di sopra del ginocchio, noncuranti di scoprire le macchie lattee delle cosce bianche “come la carta”. Costituivano, manco a dirlo, esca allettante per sguardi di aitantipicciuòtti.
Qualche lavannera, trascelta nel gruppo, tra le meno giovani, una volta designata, veniva fatta indispettire con filastrocche allusive e maligne, scandite, sillabate dagli immancabili monellacci:
La zza Maria cu li piedi chiatti
va assicutannu li picciuttieddri schietti;
nn’assicutà unu a dicidott’anni:
uocchi cilesti e capiddri biunni.
La rispondiera zza Maria, una di quelle donne che, come tante, le responsabilità della vita aveva mascolinizzato, – avrebbero potuto portare i pantaloni, – che si fumava, come si soleva dire, la sigaretta, e se c’era da santiàri, santiàva fino alla blasfemia, non faceva tardare la risposta: - Eh, galiuòti, figli di mala matri! Nni la vucca v’av’a viniri.
Risposte risentite, lanci di pietre e inseguimenti movimentavano la routine delle lunghe giornate di lavoro. Subito dopo, la richiesta a quei monellacci vastasi di un qualche servizio (il porgere una cesta piena di pesante biancheria o badare a qualche moccioso piagnucolante figlio di questa o quella lavannera, placava la breve, intensa collera della zza Maria.
Dopo la tempesta veniva la quiete. Si riprendeva, quindi, a lavorare tra i canti: con rafforzata lena. Era, quello spettacolo, un carosello di caleidoscopiche passioni, di caparbie sofferenze, di tenace attaccamento alla vita.
Così ogni giorno. Così per tante lavandaie. Di cui restano solo i nomi.
3.
Maria Aquino
Anniddra la Palumma
Filumena
La Savarina
Za Vicenza la Sbirriddra detta anche la Paradisa
Liddra la Marrabbina
Alfonsa Sicurella
Zza Ntò
Maria la Gruttisa
Antonia Rinallo
Genia la Papùra
Pippina la Zzaccaneddra
Minimineddra
La Poli
Rosa Randazzo
La Ciuciù
La Cinnireddra
Zza Caluzza
Maria la Palerma
Zza Ntònia la Capitana
Mariuzza Santangelo
Angilina la Pucinara
La zza Ntonia la Narbuna
Zza Maiuzza Pagliareddra
La Conti
Riservate, sguaiate, pudiche, audaci, castigate, insolenti, dolcissime, indurite, cosa bbona, sciarrièri, laboriose, instancabili, di carattere… erano le lavandaie.
“LAVANDAIA” PER MODO DI DIRE
In un’amichevole conversazione di non molto tempo fa, riandando al tempo delle lavandaie, venivano fuori le seguenti considerazioni, che rimandano purtroppo a costumi attuali:
Certo, adesso le lavandaie non esistono più, ma è rimasto il modo di dire essiri na lavannera, che rimanda ad un modo di essere, specialmente quando si eccede nel linguaggio; purtroppo, troppo spesso, ascoltiamo le colorite esternazioni di qualcuno come se fosse “una lavandaia” intesa nell’accezione popolare ed estremizzata del termine.
Comportamenti che da alcuni vengono tollerati e giustificati come abitudini di determinati individui, sono invece da biasimare specialmente quando investono aspetti della vita sociale e culturale come, in generale, la libertà e la democrazia.
Vorremmo ricordare soltanto le lavandaie, quelle di un tempo, che andavano alle fontane: anche se, cantando, usavano vocaboli eccessivi, avevano però nel cuore sentimenti puliti e mai violenti.
Di quelle ci rimane un nostalgico ricordo; delle "lavandaie" moderne esprimiamo il biasimo, e solo questo resta.
5.
Le foto 1 e 5 si riferiscono alla rievocazione del 1986 realizzata dal gruppo "I cantori di Regalpetra" su mio canovaccio; nel 1988 ne scriverò per esteso il testo, incluse alcune canzoni eseguite dal coro diretto da Peppino Agrò. Nella foto 5, in basso, l'arciprete don Alfonso Puma e il sindaco Calogero Sardo presentano la rievocazione durante i festeggiamenti della festa del Monte.
Nella foto 2 il Raffo oggi.
Nella foto 3 illustrazione della Fontana di novi cannola sulla sponda del carretto di Giuseppe Grimaldi.
Nella foto 4 Volantino della rievocazione del 1986.
L’elenco delle ultime lavandaie è stato pubblicato nel volume A lu Raffu e Saracinu, “La Bottega di Hefesto”, Palermo 1988. Prefazione di Salvatore Pedone. Foto di archivio e di Pietro Tulumello. Disegni di Gaston Vuiller.
Sullo stesso argomento:
- Chiddu chi succidia na vota a lu raffu, in “Malgrado tutto”, agosto 1987;
- Sarà restaurata la Fontana del Settecento, in “L’Amico del popolo”, 9.11.1988;
- “Una rievocazione: lu raffu”, in AA. VV., Racalmuto. Passato e presente, Studio Editoria Sud – Agrigento, senza data, pag.22, (“Conoscere il terrirorio”. Collana diretta da Umberto Trupiano);
http://castrumracalmuto.blogspot.it/2012/07/lavandaia-per-modo-di-dire.html
Complimenti per questi sprizzi di vita dei "Tempi che furono"
RispondiEliminaMolto belli e caratteristici.
Grazie. Condividere i ricordi e le sensazioni legate ad essi arricchisce.
EliminaComplimenti per la cura e l'appassionata ricerca che ci porta a fare un salto nel passato, passato che molti ai nostri giorni sconoscono, specie le nuove generazioni.
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