Noci
Mi
raccontava mio padre, come fosse una favola, che un tale di nciùria “Beddramatri”,
scampato miracolosamente alla campagna di Russia, una volta ritornato in
paese, volle impiantare un vigneto in contrada Fico, al confine con
Grotte, e per scavare certe conche adatte a collocarvi vitigni americani
ingaggiò cinque braccianti. Scese di mattino presto nella Piazzetta, scelse gli
uomini più robusti, pattuì il prezzo e se li portò in campagna.
Mentre
costoro, con picconi e pali di ferro, scavavano l’ennesima buca, venne fuori
dal terreno concavo un rumore secco, di quartara rotta, quasi
impercettibile. Il rumore fu captato da chi aveva udito fine, acuito in guerra
dalle insidie e dagli agguati.
- Basta, picciotti, - disse di colpo
Beddramatri con voce allarmata, - potete andarvene a casa.
- Perché? non è contento del nostro lavoro!?
- Contentissimo.
- E allora perché dobbiamo smettere? - obiettò un
lavoratore. - Non sono ancora le cinque - fece
notare un altro. – Almeno, completiamo la buca che abbiamo tra le mani – disse
un altro ancora.
- No, non c’è bisogno, - ribatté deciso il padrone, -
per oggi avete scavato abbastanza
-. E li rassicurò: - Non vi preoccupate, vi pagherò la giornata sana.
Patò, ch’era un ingenuo, non capì perché dovesse smettere di lavorare prima che
il sole tramontasse e incominciò a ripetere: - A jurnata rrutta, no. A
jurnata rrutta, no.
Gli altri
giornatari non protestarono, rassicurati che la giornata sarebbe stata pagata
per intero, però si
insospettirono della inconsueta magnanimità del tirchio Beddamatri, fecero
finta di avviarsi a casa, sotto lo sguardo vigile del padrone, e appena
poterono si nascosero dietro un macchione.
Il proprietario
del terreno, vistosi solo, finalmente, si mise a scavare di lena la buca
lasciata a metà, fino a quando estrasse dalla buca una quartara terrosa
con la pancia bucata da un colpo di piccone, l’alzò al cielo quasi fosse
l’ostia consacrata, la capovolse e tintinnarono sul terreno monete
luccicanti.
- Marègni! –
esclamò Beddramatrri.
- Marègni d’oru! -
esclamarono, da dietro il macchione, i giornatari che avevano assistito furtivamente
alla scena. Con un balzo uscirono allo scoperto e, come fosse un loro diritto,
reclamarono la loro parte.
Colto di sorpresa, Beddramatri reagì male perché si sentì tradito e
disobbedito. Di spartire il tesoro, manco a parlarne! Era suo, perché suo era
il terreno in cui era stato trovato.
Dopo un estenuante battibecco, per
tacitare la cosa, si mise d’accordo con i testimoni, avrebbe ceduto alcune
monete in cambio del silenzio. Cercò, a
parte, di prendere in giro Patò, ritenuto universalmente babbeo,
regalandogli pochi spiccioli delle lire correnti, invece dei marègni ritrovati
che marenghi in realtà non erano anche se come l’oro luccicanti. Patò nella sua
dabbenaggine abbozzò, ma una volta arrivato in paese corse difilato in caserma
dove spifferò tutto ai carabinieri.
- Ma quanti erano, questi marègni? – chiese il
maresciallo.
- Assai assai – fu la risposta, e siccome Patò non
sapeva i numeri in astratto, disse : -Prendi le fave.
Il
maresciallo si procurò le fave e ne rovesciò quattro pugni sul tavolo.
Patò, con l’indice teso, fece scivolare in un angolo tante fave quante
erano le monete ritrovate e suddivise tra il proprietario e i suoi compagni di
lavoro.
– Bravo!
– esclamò compiaciuto e un po’ divertito il maresciallo, battendogli la mano
sulla spalla, e sottrasse una fava tra quelle accantonate. Patò se ne accorse e
credendo che anche quella fava fosse preziosa come i marègni della quartara, si
mise a strepitare finché non fu rimessa al suo posto.
– Bravo! – ripeté
il maresciallo, questa volta poco compiaciuto e per niente divertito. Tante
fave quanti i marègni! Né una di più né una di meno. E lasciò andare
Patò.
Non molto
tempo dopo, a Beddramatri, proprio per la sua ingordigia, venne
requisito il tesoro rinvenuto, dopo averlo fatto cantare in caserma, come si
disse in paese, a suon di bastonate. Venne recuperata anche la parte data
ai braccianti.
Le monete
racalmutesi, di epoca bizantina, risalenti ad Heracleone,
storicissimo imperatore d’Oriente (641-645) a cui venne tagliato il naso,
furono trasferite al Museo archeologico della Valle dei Templi dove andarono ad
arricchire il monetario che ha ricevuto e riceve tutt’ora visitatori da
tutto il mondo.
Va detto.
Grazie alle fave di Patò.
Antiquarium di Milena (CL)
POST SCRIPTUM
Nel 2007 giaceva presso la Sovrintendenza di Agrigento un Protocollo d’intesa con il comune di Racalmuto; l’assessore di turno, recatovisi per riprendere le fila dell’intesa, constatò che il Protocollo era rimasto lettera morta; la Sovrintendente in persona s’incaricò di modificarlo e rinnovarlo; l’assessore prese l’impegno di individuare locali idonei per un Antiquarium ma non ebbe il tempo di segnalarli perché fu soppiantato dal successore.
Se il successore e i successori del successore non hanno rinnovato il Protocollo d’intesa e non hanno segnalato i locali per l’istituendo Antiquarium, come avrebbero dovuto fare in un ideale staffetta, sarebbe sempre bello e opportuno farlo.
A proposito di staffetta, va detto che antecedentemente a quel Protocollo anche Carmelo Mulè, in qualità di assessore, e poi di responsabile della locale sezione di Archeoclub, si era interessato per valorizzare il nostro patrimonio archeologico subito dopo una proficua campagna di scavi a Racalmuto. Anche per lui, come ha scritto recentemente, "forse è il caso di ricominciare a pensare ad un museo tutto racalmutese e secondo me con un certo garbo i racalmutesi tirerebbero fuori tanti oggetti dai loro cassetti".
E lo auspicano sicuramente anche Giovanni Salvo, Calogero Taverna, Carmelo Falco, il gruppo dei giovani archeologi di Racalmuto nonché Angelo Cutaia, presidente della locale sezione di Sicilia Antica. Tutti, per incominciare, apporterebbero il loro valido contributo. La vicina Milena ha realizzato egregiamente il suo Antiquarium, perché Racalmuto no?
Mi ero già occupato dell'argomento nel libro Il giardino della discordia, Coppola editore, Trapani 2006; paragrafo "Come Mozia" pagg. 40-43.
Sullo stesso argomento si possono consultare inoltre:
[PDF]
Quanto a bibliografia avrei aggiunto un testo del 1999, La Signoria racalmutese dei del Carretto, pag 11 o il successivo Racalmuto nei millenni, pagg. 40-41. Quanto ad altra più approfondita trattazione, mi riservo di reperire carte sparse risalenti ad un quarto di secolo fa e pubblicarne (o ripubblicarne) le più significative in quel che mi rimane, un profilo FB.
RispondiEliminaL'autore del commento e delle pubblicazioni è Calogero Taverna con cui mi scuso per non averne citato prima i lavori e che ringrazio per l'integrazione.
RispondiEliminaScrivo qui come potrei scrivere in altre tue brillanti finestre della vera cultura racalmutese. Credo che tanto ci divide, ma aver respirato tanta aria racalmutese satura di sale e di zolfo per vari anni ci fa molto simili ed io dico che i simili si respingono. Di diverso però qualcosa abbiamo: tu sù al Carmine, io giù a la FUNTANA (in via Fontis, dicono le mie carte). Si dà però anche il caso che mia madre era carmilitana puro sangue. di l'Armi Santi per essere precisi. Così le diversità che si attraggono tra di loro come opposti si afflosciano sino a diventare nulle. Ci tocca litigare, caro Piero. E credo che sia un bene per il bene del paese, che troppo si sta facendo addomesticare per domini grotteschi, meneghini, nisseni etc. Grazie però delle belle parole.
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