"Andare a Parigi era a
quell’epoca, ed è stato sempre, come darsi a un mestiere, a una professione o a
un corso di studi. Vivere in quella gran città voleva dire imparare, capire il
mondo, fiutare il vento. L’avervi passato qualche anno e magari soltanto
qualche mese, poteva dare gloria per tutta la vita anche a un tipo qualunque,
solo che avesse saputo raccontare le sue gesta, immancabili, perché nessuno
poteva vivere a Parigi senza capitare dentro casi e vicende degne di venir
raccontate".
Così scriveva lo scrittore di origini siciliane Piero
Chiara nel romanzo Il cappotto di
astrakan del 1978.
E sappiamo cosa ha rappresentato Parigi per tanti artisti e letterati:
superare il test parigino significava ottenere il lasciapassare per un
probabile accesso alla storia.
Storia di artisti, s’intende, ma del calibro di
Picasso e Modigliani.
E ciò valeva anche per tanti francesi che per
sprovincializzarsi si recavano da est e
da ovest da nord e da sud nella capitale, che non era soltanto una capitale
politica. Era un laboratorio per reinventare il mondo e i rapporti sociali. Era una capitale morale. Estetica. Di pensiero. Di
libertà. Di fantasia. D’azzardo e quindi di fame, ma anche di gloria. La
gloria! Il prestigio del nome conseguito, consacrato, riconosciuto. Il
successo, insomma.
Ma lo è ancora oggi?
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