Da quando Sellerio ha
pubblicato Kermesse, Museo d’ombre e L’incominciamento, rispettivamente di Sciascia, Bufalino e
Bonaviri, i modi di dire in dialetto siciliano commentati sono diventati uno
sfruttato filone editoriale e direi una moda o la scelta formula per esprimere
impegnativamente, secondo Umberto Domina, “voce e pensiero dei siciliani nel tempo”,
per descrivere e caratterizzare una
città attraverso i suoi “proverbi, modi di dire e di fare, tiritere, nonsensi”.
Da questa gran messe di pubblicazioni se ne riporta uno molto curioso di area
catanese; il secondo modo di dire, invece, è racalmutese, tratto dalla nostra tradizione
orale.
I proverbi e i modi di dire
sono senza tempo e per certi versi senza luogo, applicabili perciò in tutti i
tempi e in tutti i luoghi se se ne estrapola l’insegnamento; tuttavia, speriamo
e scongiuriamo che, fuor di metafora, cinici e spirtuna non siano
riferibili all’ambito sociale in cui viviamo e a cui siamo radicatamente legati
perché il nostro natìo loco (ma solo quello natìo?), in questo particolarissimo momento storico, ha
bisogno di tutt’altri modelli
antropologici.
‘U spertu arriva a’ tavula cunzata
L’approfittatore giunge
quando tutto è pronto a tavola.
Spertu
significa esperto ma nella maggioranza dei casi viene ironizzato perché si
tratta di classificare persona adusa notoriamente a alzate d’ingegno abbastanza
scoperte. Per gratificare di pronta intelligenza e intraprendenza, il siciliano
sposta d’un grado maggiorativo il termine, dice spirtuni e stavolta, quasi sempre senza ironie come non c’è ironia
nel dire sautafossi (saltafossi) per
tornare sul concetto di prima, sulla intelligenza, su certa scaltrezza che
siamo soliti definire levantina nel
settore mercantile dei saltimbanchi. Ecco l’esempio di un sautafossi, che con dialettiche, abilità e inventiva, contratta
fino a strappare all’interlocutore un prezzo convenientissimo, ‘u spertu che, piovuto dal cielo, fiuta
l’affare e se lo porta via con faccia di piombo.
Mario Grasso, Lingua
delle madri. Voce e pensiero dei siciliani nel tempo, Prova d’Autore,
Catania 1994.
La spina n capu di l’antri è moddra comu
la sita
Il cicnico detto racalmutese
La spina n capu di l’antri è moddra comu
la sita non viene riportato da Michele Castagnola nel suo Dizionario fraseologico siciliano-italiano
né dal Mortillaro né dal Traina: riportano, costoro, altri pungenti esempi ma
non quello racalmutese. Due sono i motivi: o lo ignorano perché poco comune o
lo ritengono antisociale.
Spina,
infatti, equivale nel detto a: pena, dolore acuto, difficoltà, angustia,
cruccio, cosa che reca dolore. Ebbene, il detto racalmutese è di una disperante
violenza antievangelica. Altro che piangere con chi piange (e gioire con chi
gioisce)!
Tutto
il contrario: soffrire per chi gioisce e gioire per chi soffre. E peggio
ancora: si nega alla spina di essere spina. Non c’è indifferenza, ma sarcasmo,
trista ironia: le spine, e quindi le sofferenze, addosso agli altri non vengono
ritenute acute e dolorose come quelle dei pruni e delle rose o come le
scheggine di legno che si conficcano sotto la pelle o sotto le unghia. Macché!
Molli, seriche addirittura. E cosa c’è più carezzevole della seta che struscia
sulla pelle con la leggerezza di un battito di farfalla?!
Se
così fosse nessuno vorrebbe togliersi le proprie spine, invalidando l’altro
detto, racalmutese o no poco importa: Cu
avi la spina si la leva. Troverebbero in tal caso giustificazione tutte
le cattive coscienze di questo mondo.
Già da me pubblicato su "La Voce dei Giovani. Racalmuto", luglio 1996, numero unico.
Già da me pubblicato su "La Voce dei Giovani. Racalmuto", luglio 1996, numero unico.
Sulla copertina del libro di Sandro Attanasio: "Contadina con melone" di Giuseppe Migneco; le foto dei due rapaci (Aquila del Bonelli in volo e Nibbio bruno su un ceppo) sono di Giovanni Salvo; la vignetta è di Giovanni Lauricella.
Post già pubblicato, con commenti, in versione più estesa su
castrumracalmuto.blogspot.com/.../ne-cinici-ne-spirtuna.ht...
Sulla copertina del libro di Sandro Attanasio: "Contadina con melone" di Giuseppe Migneco; le foto dei due rapaci (Aquila del Bonelli in volo e Nibbio bruno su un ceppo) sono di Giovanni Salvo; la vignetta è di Giovanni Lauricella.
Post già pubblicato, con commenti, in versione più estesa su
castrumracalmuto.blogspot.com/.../ne-cinici-ne-spirtuna.ht...
Il problema del dialetto siciliano è - come tu ben sai - antico è controverso. Si tratta di dialetto, poi, o di lingua vera e propria. Certo autori sommi vi sono stati el a codifica linguistica è di alto livello. Mi sembra di ricordare che un Li Gotti abbia attinto livelli altissimi. Nel cercare di capire quale spessore scientifico abbia davvero avuto il nostro conclamato M.A. Alajmo, trovo in un suo medico libro questa perla che ti trascrivo:
RispondiEliminaPer la quartana, ch'è sua malatia
si cuverna di signi lu Liuni,
e per lu mal suttili, ed Ethicia
cimici vivi s'agghiuttinu alcuni;
Lu mentri lu bisognu mi primia
per longu spatiu di tridici Luni
contra l'humuri miu gustai di tia
cimicia in modi e Signa alli fazzuni.
L'autore? VENEZIANO, di cui parla Sciascia, magari perché morto asfissiato nelle carceri del Sant'ufficio di Palermo e perché compagno di disavventure del Cervantes.
Non in quelle del Sant'Uffizio ma "nelle prigioni di Castellammare, in Palermo, a causa di una esplosione di polvere da sparo dell'artiglieria, posta nel magazzino delle carceri", come precisa, e questo ti farà piacere, un altro racalmutese, il poeta-notaio Giuseppe Pedalino, in un libretto che contiene i proverbi dialettali del Veneziano e, a conferma della considerazione del suo poetare in siciliano, i versi del Cervantes a lui dedicati: "El cielo que el ingegno vuestro mira...". "Il ciel, che tanto ingegno in te rimira...".
RispondiElimina