Il Dialetto per Legge
Il dialetto siciliano, in quanto dialetto, dopo l’Unità
d’Italia non ha avuto vita facile. Allo scopo di valorizzarlo la regione
Sicilia con Legge Regionale del 31
maggio 2011, n.9 ha varato alcune “Norme sulla promozione, valorizzazione ed
insegnamento della storia, della letteratura e del patrimonio linguistico
siciliano nelle scuole”.
Speriamo che anche questa volta non finisca come nel 2000
quando fu previsto l’insegnamento del dialetto nelle scuole, ma il finanziamento non andò oltre il secondo
anno e tutto finì lì.
Anche la scuola dove insegnavo ha aderito al progetto
regionale. Il preside Pierfranco Rizzo mi chiese di scrivere un intervento per
“Scuola e Cultura Antimafia” che ripropongo come testimonianza di un antico
entusiasmo:
Passione a colpi di
sedia!
Sostenere le proprie ragioni a colpi di sedia, sulle
teste altrui, a seguito di questioni filologiche, anzi, fonetico-ortografiche,
può sembrare esagerazione, ma gli appassionati studiosi siciliani
dell’Ottocento, per amore del dialetto, affrontavano connonchalance simili
eventualità.
Nel 1870, si doveva scrivere Xiuri o Sciuri?
Xiacca o Ssciacca? O Ciuri e Ciacca? Questo era il problema.
Fior di studiosi sostennero appassionatamente or l’una
or l’altra risoluzione senza addivenire per la verità ad un risultato
pacificamente condiviso. Non che il dilemma sia stato risolto, a distanza di un
secolo, anzi, si è aggravato, quando dai fatti concernenti l’ortografia si è
passati alle stesse parole da scrivere e da pronunciare. Basti pensare
all’infinita varietà del pronome più egoisticamente pronunciato: ìu,
iù, eu, ia, iè, iò, i...
Varianti
Altri esempi: a Casteltermini il coltello si
dice cutìddu, a Canicattì l’uovo si dice uèvu, a
Nicosia le dita si dicono didi. In uno stesso paese i buoi si
possono chiamare vo oppure vua. Il grembiule
cambia nome di pari passo ai piatti tipici preparati in varie parti della
Sicilia da chi l’indossa: fallaru, fasdali, fadali...
Dal lessico alla sintassi: ad Alì si dice ai ragiuni mi ti lagniper "hai ragione di lagnarti", a Frassanò dicci mi trasi per "digli di entrare", a Roccella Valdemone dàtimi mi bbìu per "datemi da bere" e a Milazzo mi a vitti spugghiàri si curca per "la vidi spogliare per coricarsi". Un poeta di San Fratello può scrivere: Cam na zzita chi ghj passea / u schient di la prima vauta / s’abbanauna e si dèscia aner, /Accuscì, suparari li ndecisiuoi, / misg a nu i miei pinsier... (Come una sposa cui è passato / il timore della prima volta / s’abbandona e si lascia andare, / così, superate le titubanze, / ho messo a nudo le mie preoccupazioni...
Dal lessico alla sintassi: ad Alì si dice ai ragiuni mi ti lagniper "hai ragione di lagnarti", a Frassanò dicci mi trasi per "digli di entrare", a Roccella Valdemone dàtimi mi bbìu per "datemi da bere" e a Milazzo mi a vitti spugghiàri si curca per "la vidi spogliare per coricarsi". Un poeta di San Fratello può scrivere: Cam na zzita chi ghj passea / u schient di la prima vauta / s’abbanauna e si dèscia aner, /Accuscì, suparari li ndecisiuoi, / misg a nu i miei pinsier... (Come una sposa cui è passato / il timore della prima volta / s’abbandona e si lascia andare, / così, superate le titubanze, / ho messo a nudo le mie preoccupazioni...
E la trottola? Furrìa con un nome nel
palermitano e firría sotto altro nome nell’agrigentino.
L’Università di Palermo vi ha dedicato uno studio.
Dal caos alla
grammatica
Non si pensi che a questo caos i grammatici e gli
studiosi non abbiano tentato di mettere ordine, l’hanno fatto scrivendo
grammatiche, caldeggiando ortografie anche bizzarre, ipotizzando koiné,
soprattutto ad uso dei poeti, i veri e pressoché unici artefici a quanto pare
del dialetto siciliano scritto; ma proprio loro non ne hanno mai voluto sapere
di seguire regole e regolette ritenendole un attentato alla libera creatività:
ognuno ha scritto e scrive come gli pare e piace.
La difformità tra l’italianizzante Giovanni Meli e Alessio Di Giovanni fonografista, Santo Calì di Schisò e Ignazio Buttitta di Bagheria, per non parlare dei galloitalici, suona come chiara smentita contro coloro che vorrebbero conferire al siciliano status e spessore di lingua, aeterna quaestio che volentieri tralasciamo: teniamo alla nostra incolumità.
La difformità tra l’italianizzante Giovanni Meli e Alessio Di Giovanni fonografista, Santo Calì di Schisò e Ignazio Buttitta di Bagheria, per non parlare dei galloitalici, suona come chiara smentita contro coloro che vorrebbero conferire al siciliano status e spessore di lingua, aeterna quaestio che volentieri tralasciamo: teniamo alla nostra incolumità.
Unica tassa e unica lingua
Per fortuna, o per sfortuna: da un punto strettamente
linguistico, si capisce, è intervenuta l’unità d’Italia, che ha unificato oltre
che le tasse e il servizio di leva anche i vari dialetti nel senso che li ha
saltati a piè pari, relegando in secondo piano le accalorate questioni
dialettali. Si è avuto così un popolo di italofoni che scriveva in italiano e
parlava, abusivamente, in dialetto. Nei Seminari, i clerici venivano puniti
con l’accipe se incocciati a pronunciare frasi o semplici
interiezioni paesane, cioè dialettali; nelle scuole il dialetto era unicamente
elemento "inquinante", spia di degradata origine sociale, di rozzezza
e maleducazione, non solo linguistica: da segnare con la matita blu nei
distillatissimi temi.
La lingua del potere
L’italiano era la lingua del potere. Per la borghesia
era segno di distinzione o schermo per non far trapelare "meccaniche"
origini. Uno Sciascia arrabbiatissimo ha bollato "l’amorfa borghesia
siciliana" per avere addolcito e italianizzato il cacuminale
"ddu" del lacerante grido "Hanno ammazzato compare
Turiddu", nella Cavalleria rusticana.
Poi Pasolini lanciò l’allarme: con la scomparsa delle
lucciole si rischiava la scomparsa di tante altre cose, compreso il dialetto e
il mondo di cui esso era corpo e voce. Cambiò l’atteggiamento, nella società,
nella cultura, in parte nell’editoria, si riscoprì come un valore quello che
prima era stato bistrattato e bandito.
Ai giorni nostri
E siamo ai giorni nostri. Dopo tanti appelli
provenienti da linguisti, antropologi, poeti, uomini di cultura e semplici
cittadini, in favore del dialetto siciliano, e qui si citano solo Giovanni
Ruffino e Salvatore Di Marco in rappresentanza del mondo accademico e dei
liberi cultori del dialetto, la Regione siciliana ha emanato la circolare n.
11, prot. 535 del 7 luglio 2000 con cui si rendono efficaci ed operative le
precedenti leggi intese "a favorire lo studio del dialetto siciliano e
delle lingue delle minoranze etniche delle scuole dell’Isola". Per
accedere ai finanziamenti, le scuole hanno presentato appositi progetti.
Nel declinare il proprio, la scuola media
"Quasimodo" di Palermo, ad esempio, con la benevola approvazione del
Centro di studi filologici e linguistici siciliani, si è prefissa l’obiettivo
di fare scoprire le regole ortografiche e i nessi logico-sintattici attraverso
l’analisi della produzione dialettale sia colta che popolare; avviare un
confronto tra la struttura grammaticale della lingua ufficiale e la produzione
dialettale; porre la problematicità delle trascrizioni dialettali e delle
possibili soluzioni secondo le diverse scuole; studiare il lessico dal punto di
vista etimologico; studiare l’evoluzione storica della lingua dal punto di
vista del lessico e grammaticale.
Per non parlare dei contenuti ovvero dello studio della società nei suoi diversi aspetti: lavoro, amore, mondo dell’infanzia, feste dell’anno secondo il calendario religioso e il ciclo delle stagioni, etc.
Per non parlare dei contenuti ovvero dello studio della società nei suoi diversi aspetti: lavoro, amore, mondo dell’infanzia, feste dell’anno secondo il calendario religioso e il ciclo delle stagioni, etc.
Sono cadute insomma le cateratte che impedivano alle
istituzioni scolastiche statali siciliane di guardare con maggiore
consapevolezza e senza pregiudizi ciò che intorno ad esse si muoveva,
specialmente sotto l’aspetto linguistico.
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