Ho rinvenuto questa antica cartolina tra le carte della sorella di mia nonna Angelina, Giuseppina Capobianco, donna devotissima, socievole, la sua casa era un via vai di amici, un punto di riferimento del quartiere, anzi, della via Pomo.
Una casa povera, all'antica:
due ambienti attigui con uno stanzino ricavato al pianterreno e una grande stanza al piano superiore riservata alla conservazione dei cereali raccolti durante l'estate nei terreni di Gargilàta nonché ripostiglio o "casa di ritiro" di frutta invernale, ortaggi e varie conserve alimentari;
l'ingresso al pianterreno fungeva da soggiorno e stanza da pranzo; nello stanzino, il focolare e il forno a legna;
attraverso l'ingresso-soggiorno-stanza da pranzo si accedeva alla contigua e retrostante stalla fornita di mangiatoia per il mulo e strapiena di paglia e di arnesi da lavoro;
nel sottoscala erano appoggiate le quartare piene d'acqua; in un cantuccio riparato, il cantaro per i bisogni;
sotto il letto altissimo con materassi di crine o di lana c'era spazio per la corriola piena di biancheria, incluso il corredo da sposa che non venne mai utilizzato perché Pippineddra rimase signorina;
alle pareti, quadri e quadretti di santi, crocifissi e madonne;
le stoviglie a vista;
le galline scorrazzavano liberamente dove potevano e dove volevano, le uova freschissime, però, non mancavano mai e spesso ne beneficiavano i bambini del vicinato.
I galli invece, sotto mani abili, diventavano, con un castrante intervento chirurgico, capponi.
Ogni pomeriggio, prima che ritornassero gli uomini dai campi, la casa si animava di donne e giovinette per la recita del santo rosario, come con altre fogge e altro clima avveniva nelle case più ampie e ricche di borghesi, principi e baroni, come nella scena iniziale del Gattopardo per intenderci. Solo che in casa della za Pippinè il rosario si recitava in rigoroso dialetto siciliano. Teologicamente, il rosario dei poveri era identico al rosario dei ricchi e dei nobili anche se con meno fruscii e più vocii.
Analogie e differenze culturali, economiche, sociali e si direbbe di umanità. Un'umanità, quella di via Pomo, diversamente ricca, e forse, sotto certi aspetti, incredibilmente più ricca delle ricche dimore dei signori. La casa povera e dignitosa della za Pippinè, dove viveva anche il fratello, lu zi Ruardu, anch'esso scapolo, era indubbiamente la più ricca del vicinato proprio perché era sempre piena e animata al punto che era definita "la casa di tutti". Anche perché sapeva leggere, sapeva scrivere, e leggeva libri per tutti e scriveva le lettere per conto di chi era analfabeta.
Ogni particolare sembra rimandare a una pagina di Verga o a un ragguaglio del Pitrè e invece era semplicemente la vita, e seppure nei suoi estremi bagliori, la nostra vita.
Conservare una di questa case, come Antonino Uccello ha fatto a Palazzolo Acreide, sarebbe un riconoscimento delle nostre radici a cui pur dobbiamo qualcosa. Sarebbe una sorta di tempio laico della nostra memoria.
Ma da altri templi, di ben altra natura, eravamo partiti.
La cartolina, che pur ci ha portati lontano, la cartolina, dunque, rappresenta l'altare del Santuario della Madonna del Monte e sul retro è riportato un appello scritto a mano, in favore del suddetto altare che versava in non buone condizioni e aabbisognava di interventi di restauro e di offerte da convogliare e far convergere all'indirizzo indicato.
La richiesta di offerte e contributi da parte dei devoti della Madonna del Monte veniva fatta attraverso la cartolina perché probabilmente veniva inviata agli emigrati racalmutesi sparsi per il mondo, che erano tanti.
http://archivioepensamenti.blogspot.it/2014/03/la-miniera-dei-modi-di-dire-racalmuto-3.html
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