sabato 15 dicembre 2012

DUE LINGUE, UN’ANIMA. ELVEZIO PETIX



 Marco Scalabrino prosegue nella  sistematica rievocazione e valorizzazione di personaggi e aspetti della cultura siciliana poco noti o dimenticati, con sensibilità di poeta e puntualità di studioso.  


             

Chi era Elvezio Petix?
Di madre palermitana e padre genovese, primo di undici fratelli, venne chiamato Elvezio giusto perché nacque nel 1912 a Lugano, in Svizzera, dove i genitori si trovavano per lavoro. Impiegato quindi presso l’Ufficio Imposte Dirette di Bagheria, pubblicò quattro raccolte di versi in italiano e tradusse in siciliano, dal dialetto abruzzese, trenta poesie scelte di Cesare Fargiani, oltre a scrivere commedie (di cui allestiva anche la messa in scena) e il menzionato racconto San Michele ha la bocca piena di nuvole. Modesto, timido, niente affatto ambizioso, Elvezio Petix, la cui vita è stata (come egli stesso ebbe a definirla) “silenziosa” e che nella poesia aveva trovato “l’unica vera compagna”, morì, all’età di sessantaquattro anni, nel 1976.
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Il volume II di Antigruppo 73 (ispirato e realizzato da Nat Scammacca e Santo Calì, coadiuvati da Vincenzo Di Maria), nel riportarne due testi in lingua: Stringendo nelle mani una criniera e Madre del Sud, precisa nelle scarne note a corredo che “ha esordito con poesie in dialetto siciliano”.
A proposito degli esordi, nel breve studio del 2002 Elvezio Petix: un poeta che non muore, Salvatore Di Marco afferma: “La sua produzione letteraria risale addirittura agli anni Trenta. Ci sono giornali e riviste dell’epoca dove si leggono i primi componimenti in dialetto del poeta di Casteldaccia. Io lo conobbi nel lontano 1957 quando, sul paginone del periodico La Voce della Sicilia dedicato alla nuova poesia siciliana in dialetto, ci ritrovammo con le nostre liriche un gruppo di poeti come Gianni Varvaro, Paolo Messina, Miano Conti, Pietro Tamburello, Ignazio Buttitta e altri, tra cui figuravo anch’io giovanissimo e poeta alle prime uscite.”

E Romualdo Romano, nella memoria appena ricordata, testualmente rileva: “Caro Elvezio, da più di trent’anni attendevo un tuo Pianoforte. La musica dei tuoi versi è quella stessa che ascoltai trent’anni fa”.

Eravamo nel 1961 ed è facile quindi tirare le somme. Troviamo conferma a quanto riportato sulle pagine del … po tu cuntu …, il volume del 1994 che raccoglie le opere del Nostro: “Già a 12 anni cominciai a scrivere. Fu per caso che un giorno mia madre, rovistando nei miei cassetti, trovò la mia prima poesia, Po tu cuntu, e la fece pubblicare su un giornale letterario”.

Questi ragguagli, unitamente ai passi riferiti alla sua partecipazione al “Rinnovamento”, fanno emergere il profilo di Elvezio Petix poeta in dialetto, danno la misura della sua adesione alla vita letteraria e culturale dell’Isola, delineano il contesto (i compagni di percorso e il percorso stesso) all’interno del quale sono maturate le sue cose dialettali migliori.
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Quanti sono e dove sono, allora, i testi in dialetto di Elvezio Petix?
Ebbene, quelli di cui abbiamo contezza e dei quali ci siamo avvalsi al fine di elaborare questo studio sono, per così dire, allocati nel corpo del volume, pubblicato nel 1994 a cura del Comune di Casteldaccia quale “omaggio al poeta concittadino”. Volume che di Elvezio Petix raccoglie le opere e il cui titolo è … po tu cuntu … Li contiamo: quindici. Tutto qui? – non ci esimiamo dal chiederci – Non ve ne sono altri? Ma, invero, non abbiamo mai inteso porre, né intendiamo sciogliere in questa sede, tali interrogativi. D’altronde quindici testi, benché possano apparire una quantità risicata allo scopo di esprimere un compiuto giudizio, risultano comunque sufficienti a discernere – questo è il nostro caso – l’impronta del poeta. Ce ne viene peraltro una riflessione (che offriamo alla vostra valutazione): poco più di 370 versi nel complesso configurano non tanto l’intera produzione quanto la summa della produzione dialettale di Elvezio Petix. Una selezione dunque: rigorosa, matura, qualitativa.
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Leggeremo, più avanti, lo stralcio di una lettera di Cesare Zavattini. Questi coglie nella poesia di Elvezio Petix una “speranza dura a morire”, una speranza che “ha le ali”. Speranza che il Nostro, nella accezione simbolista, “umanizza”:

gigantissa putenti …
mettiti na cartedda supra li spaddi
jinchila di ciuri e nni li siri queti
passa e lassa lu to signu d’amuri.

Immagine felice sotto molteplici aspetti: del sentimento, di suo positivo e perciò condivisibile nel contenuto, dell’attualità quanto ai risvolti complessivi curri nmenzu la genti d’ogni culuri e sdirruba a mari li cannuna, della propensione lirica e, non ultima, della forma, della realizzazione ovverosia che del sistema linguistico opera Elvezio Petix, della sua individuale, personale parole – per dirla con Ferdinand De Saussure.
Presente in modo esplicito in ben sei dei quindici componimenti, la speranza è il leit-motiv della poesia di Elvezio Petix. In un ordito che ne percorre tutto il corpus, essa fa da balsamico contraltare ad una sorta di spleen, designato dal termine siddìu e aggettivazioni che ne derivano, esso pure alquanto diffuso.
Pi la longa trazzeraLa longa trazzera, in una superba figurazione analogica, si snoda lungo la millenaria, tormentata storia della nostra Sicilia li puvireddi, li jurnatara, li sulfatara, li zappatura, li picurara, in una ossimorica alternanza – peculiare nei Siciliani – di fiduciosa attesa del domani e dura pratica dell’oggi. E sono loro, la povira genti, nella loro faticosa diuturna dignità, l’effetto e la causa, i convenuti e gli attori, i destinatari e i mittenti della sua parola, del suo impegno; del suo engagement, avremmo detto un tempo.
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La Sicilia, Sicilia mia chi ti pittaru e ti misiru na faredda cusuta di brillanti … ma … dintra un friddu specchiu amara ti movi camini ti fermi, è centumila seculi, canzuna chi parra d’amuri, anima e carni. E alla sua casa, Torna … [e] abbrazza tutti li to’ figghi, il poeta invoca il ritorno. Quale casa? Di sicuro non quella di sti fantasimi … ca iu nun chiamavi, non quella dei catoj (e del) carbuni, né quella di l’amarumi ca tanta genti si porta nni lu pettu. E allora? Allora la casa è quella al cui indirizzo hanno eletto dimora i valori etici, culturali, umani di una Sicilia che non è più.
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Lu bonu e lu tintu, il bene e il male, perenni spatulianu, ma nessuno più dà credito a li cunti di li vecchi, osserva il loro monito, ne onora la saggezza antica. I vecchi, i loro cunti ormai si sgretolano, infastidiscono, vanno eliminati.
C’è voglia di lu scrusciu di l’oru, di machina di favula, di frontiere mass-mediatiche. Si spengano dunque i fuochi fuligginosi attorno ai quali la famiglia si radunava, si spengano li cunti di li vecchi e si accendano, sfavillanti, i riflettori sull’arrembante format di società! Non v’è astio però nei confronti del nuovo, né rimpianto riguardo al passato. Tutto è ammesso nel segno del tempo che sempiterno passa, dell’ineluttabilità del mondo che cambia. Se ne è pienamente consapevoli: ddu roggiu – d’oru – senza sònnira si porta a mia pi d’appressu.
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La vita, in una fulgida metafora, è filinia vilinusa, impalpabile filamento che, pur se tra qualche trepido bagliore, cucciddu di lustru a viu e sbiu, è inesorabilmente destinata cu lacrimi di cira a essere spazzata via; ma che una risata: Na risata menzu la strata mentri camini pi li fatti to’ … cunorta puru si dura picca
E, in essa e per essa, il poeta: 
si culla nel sogno, dintra li vavareddi nascianu munni d’azzolu biddizzi scanusciuti e lu cori, a la sira, si java a curcari purtannusilli cu iddu; 
si affida all’amore, tuttu chiddu chi toccanu li to’ manu … lu to passu, la seggia unni stanca t’assetti … è amuri … ciatu longu ca nun finisci mai 
e alla preghiera: O tu, Picciriddu, ca nasci dintra na grutta … ammansali pi sempri l’omini e l’armali
celebra la Natura, Vulissi curriri … pi chianuri ciuruti, parrari … cu l’armali, abbrazzari tuttu chiddu ca fici Matri Natura
costeggia con lucidità gli anfratti della follia, parru sulu e abbanniu pinzera, caminu … l’occhi spatiddati cu du’ lacrimi di nivi mpinti nni li masciddi … abbrazzatu cu na troffa di spini, perché sulu li foddi talianu luntanu in questo mondo che chiantu e sangu abbuturianu.
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Muovendo dal cuntu longu della tradizione, dal suo vissuto la me jurnata d’omu e (per scomodare Franco Fortini) dalla sua esperienza E iu, chi fazzu ccà, chi fazzu?, Elvezio concepisce, nello spirito del rinnovamento, la sua emancipazione lirico-formale: nesciu puru iu a sciugghirimi stu ‘nguttùmu nni lu pettu.
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La sua poesia contempla i principi innovativi man mano enunciati, realizza una sua originalità, suona di efficaci espressioni siciliane e di stringatezza. Vi domina il verso libero (se si eccettua il sonetto Nvernu ntra la vanedda), per quanto a tratti corrotto da talune rime baciate e alcuni vezzeggiativi (evidentemente, duri a morire) e l’ortografia mostra presa di coscienza, rifugge dagli arbitri fonografici (il raddoppiamento della consonante iniziale delle parole, ad esempio), è affrancata dalle incoerenze delle scritture vernacolari. Il lessico, infine, combina dovizia, bellezza e musicalità; vi albergano termini quali: ciarmulìu, catoj, trazzera, raggia, vavareddi, troffa, spatiddati, abbutulianu, tappini, addimura, scupetti, muddami, filinia, nzirragghiu, assuccuma, cartedda, ramagghi, armiggi, scrusciu e vi fa capolino, nello “sforzo dell’artista tendente ad evitare le unità generiche, sostituendole con unità più particolareggiate”, l’espansione denotativa, per cui ecco: pàssaru sbirru, in luogo del sostantivo generico di uccello.   
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“La poesia in dialetto – ribadì Mariano Lamartina – ancora vive. Vive, e non importa se sarà il canto del cigno. Il dialetto rimane come ultimo approdo alla serenità del mondo classico, anche se è destino che di esso si parlerà come lingua morta, al pari del greco e del latino. Ma quante voci di vita in queste lingue morte!”


Alcuni giudizi critici

In tanti hanno scritto (bene) della poesia di Elvezio Petix:

            Romualdo Romano, nel 1961, nella prefazione a Un pianoforte suona all’alba: “Vi trovo il solitario cantore che ama la poesia, ma per sé, per la sofferenza ineffabile che gli dà, per le strade ‘private’ che gli schiude e per la pace che gli concede”.

Angelo Fazzino, per Onde di braccia e respiri: “In Elvezio Petix vediamo emergere una visione che parte dalla spinta radicale e costante della condizione umana. L’arte raggiunge la sua più alta umanizzazione attraverso quel nodo che lega indissolubilmente il poeta al suo popolo e alla sua terra”.

Miky Scuderi, nella prefazione a Dialoghi bianchi: “Qui c’è un processo di moltiplicazione del realismo, inteso come rapporto uomo-infinito; le scelte tessute in cento impulsi vitali scendono a raccogliere brevi soggiorni nel tempo fisico senza troppe astrazioni. E c’è soprattutto l’attesa, la grande attesa di tutto ciò che è nascente, dentro e fuori di lui, un fermento profondo che vorrebbe approdare alla elisione delle antitesi”.
Cesare Zavattini, nella sua lettera del 1975: “Lei scrive stimolato dalla speranza. I suoi componimenti meritano di essere considerati un esemplare di questa speranza che a parere suo ‘ha le ali’”.

Lucio Zinna, nella sua nota Elvezio Petix poeta degli esclusi: “Elvezio è il cantore di coloro che restano dietro la porta. La [sua] poesia si avvale di una limpidezza espressiva che non è affatto riflesso di scarsa profondità di pensiero o di acutezza di osservazione o di mancanza di mordente. L’assunzione del tono colloquiale è in lui rifiuto della complicazione intellettualistica, degli artifici verbali, è gusto della ‘trasparenza’, che egli perseguiva nell’arte come nella vita”.

E Rolando Certa, nella introduzione al racconto San Michele ha la bocca piena di nuvole (uno stralcio del quale apparirà sul volume Antigruppo 75), pure della sua prosa: “Il libro di Elvezio Petix mentre denuncia una dolorosa storia di sopraffazione (il rapimento di una povera ragazza da parte di un mafioso) suscita anche la nostra civile protesta, la nostra rabbia, la nostra indignazione, la nostra rivolta contro una struttura arcaica che priva i poveri della libertà e della loro breve esistenza ne fa un lungo calvario di pene e di sofferenza”.

                                                                         Marco Scalabrino





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