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giovedì 1 agosto 2013

SAN CALOJERU DI NNI NÙ. Contributo di Giovanni Liotta







San Calojeru di nni nù
di 
Giovanni Liotta

Da piccolo sapevo che di San Calojeru ce n'erano tre:

San Calojeru di Girgenti, San Calojeru di Naru e San Calojeru di nni nù (quello da noi).

Si diceva che forse erano fratelli e che non fossero santi di pari livello: ovviamente si affermava con evidente tono campanilistico che quello di Racalmuto era il migliore, come, del resto si affermava per tante altre cose, con la seguente rima:

San Calojeru di Girgenti fa li grazzii e si nni penti;

San Calojeru di Naru fa li grazzii a manu a manu;

San Calojeru di nni nù fa li grazzii a dù a dù.


In altri termini quello di cui fidarsi era quello "di nni nù", perché addirittura ti concedeva una grazia doppia rispetto a quella da te richiesta.



Link correlato:
http://archivioepensamenti.blogspot.it/2013/07/viva-viva-san-calo.html

mercoledì 31 luglio 2013

VIVA VIVA SAN CALÒ?


MODI DI DIRE E MODERNITA'



Viva Viva San Calò

Evviva, evviva san Calogero. 

E' soprattutto l'espressione di un sentimento di venerazione ma è anche un'invocazione.
Inoltre, si dice quando taluno vuole o pretende consenso o pensa che questo consenso sia facile da riscuotere facendo emergere superficialità nel non valutare le difficoltà connesse a qualsiasi iniziativa.

Chiddru voli sempri viva viva san Calò!

Quello vuole sempre evviva, evviva san Calogero!


A chiddru ci pari sempri viva viva san Calò!

A quello sembra sempre evviva, evviva san Calogero!

Viva Viva San Calò, dunque, è soprattutto un modo di dire che deriva da un festoso modo di fare.

Cosa non è permesso infatti durante la processione del san Calò di Giurgenti?

La danza della vara (il fercolo) con la statua, gli abbracci, i baci, i toccamenti della statua nera, i bambini sollevati e strusciati alla miracolosa effigie, gli arrampicamenti dei più nerboruti, focosi e devoti portatori a costo di calci pugni sputi e bestemmie, il lancio dai balconi delle pagnotte guizzanti come palle di fuoco scagliate da antiche catapulte.

Ma Monsignore ha detto basta.

I tempi sono duri per tutti e cambiano anche i modi di dire e i modi di fare nonostante associati a popolarissimi santi.

Anche per san Calò la musica cambia e non gli si può dire sempre e comunque "viva viva". Ecco il perché del punto interrogativo nel titolo del post.

A Naro già da qualche anno hanno corretto teologicamente l'invocazione con Viva Diu e San Calò, rammemorandolo con una pioggia di bigliettini fatti fioccare dai balconi.

Il pane non si lancia più ad Agrigento e a Porto Empedocle eppertanto non si raccoglie da terra ma si dà in offerta alla chiesa che lo ridistribuisce, benedetto, ai fedeli e ai bisognosi.

Una tendenza a smussare gli eccessi, a correggere il senso teologico. Ma l'ultima sortita dell'arcivescovo di Agrigento mira al cuore della festa,  al nocciolo tipico, agli aspetti più rozzi e sanguigni. Per l'arcivescovo di Agrigento, come scrive amareggiato nella lettera inviata agli agrigentini, questa non è fede, questi sentimenti non sono religiosi, questa non è una festa tutta cristiana.


L'agrigentino Elio Di Bella echeggia altri umori e, nel commentare la canonica presa di posizione, titola il suo post "MONSIGNORE LASCI PERDERE".

Ricordo che un altro Monsignore, venticinque anni prima, riunì nel Seminario di Favara i rappresentanti dei vari comitati per i festeggiamenti in provincia invitandoli a solennizzare le feste soprattutto con preghiere messe e digiuni. Più sobrietà e meno eccessi. Eravamo in molti ad ascoltare. Con quale risultato?

Difficile impresa modificare inveterati usi. E' sempre l'annoso dilemma delle tradizione: preservarle o innovarle? Correggerle in senso liturgico e teologico o lasciarle discutibilmente paganeggianti?
Ne sanno qualcosa i racalmutesi con la devozionale cavalcata fino in chiesa e la rissosa presa del "Cilio". E bene mi è finita quando introdussi la figura della contessa nella storica recita cinquecentesca: senza nulla alterare nella sostanza, si badi bene, altrimenti...

Ma qui non si vogliono discutere magni argomenti, si è voluto semplicemente chiosare un modo di dire legato a modi di fare che, oltre ad essere come sono, ispirano tante cose. Anche poesie.

c’è cu bastimìa

Lu populu prega. Lu Santu camina. 
Lu miraculu s’aspetta quannu veni. 
Cu jetta hiuri, 
cu cci tira pani, 
la banna sona, lu parrinu veni
 ppi diri 
“chista nun è la vera divuzioni”. 
Tuttu si ferma. 
Ognunu si cummovi. 
Nnomentri lu tammuru tammuria. 
Volanu prijeri. 
C’è cu bastimìa.

Il popolo prega. Il Santo procede. / Il miracolo si attende quando viene. / Chi lancia fiori, / chi gli lancia il pane, / la banda suona, lu parrinu veni / per dire / “questa non è la vera devozione”. / Tutto si ferma. / Ognuno si commuove. / Nel mentre il tam-buro rulla. / Volano preghiere. C’è chi bestemmia.

Da Venti di sicilinconia, Medinova editrice, Favara 2009




Il post di Elio Di Bella


 


© Piero Carbone
Foto proprie











sabato 2 marzo 2013

GLI EBREI A RACALMUTO. E DINTORNI




Abreu! Ebrei! Comu li giudei! dalle nostre parti sono modi di dire. 
Indicano comportamenti, atteggiamenti, modi di essere, una categoria astratta. Ci siamo abituati a sentirli e magari a ripeterli fin dall’infanzia. 

Con l’età matura si apprende che gli ebrei, o giudei,  sono un popolo concreto, storicissimo e lontano: la Palestina, la crocefissione, la diaspora… 
Quando poi scopriamo che sono stati anche a casa nostra, nei nostri territori, nei nostri paesi, e sopravvivono tutt’oggi nel nostro linguaggio, ce ne meravigliamo, più o meno compiaciuti, e vogliamo saperne di più. 

Entrano qui in gioco gli storici che con i loro mezzi di indagine e i loro metodi cercano di dare fondamento alle voci, ai modi di dire, agli indizi.  

Per noi l’ha fatto il giovane Nicolò Tinebra Martorana, pur non essendo uno storico di professione, il quale, quasi come un etnostorico ante litteram, non disdegna di considerare degne di valore documentale le cosiddette fonti orali, le tradizioni, la cultura immateriale.




TESTIMONIANZA DEL TINEBRA MARTORANA

"Esiste a pochi passi dal nostro Comune, e dalla parte del Carmine, un luogo detto Giudeo, con un fonte dello stesso nome. Non è dubbio che su questo suolo dovette abitare una colonia ebrea. Però Di Giovanni (1), diligentissimo scrittore su tal soggetto, non ne fa alcun cenno, pure intrattenendosi a parlare intorno agli Ebrei dei paesi circonvicini come Naro, ecc.

Che essi fossero numerosissimi a Girgenti ed a Naro e che i luoghi da essi abitati siano chiamati in questa prima citta Giudecca, è cosa ormai certa. Che essi fossero venuti a stabilirsi intorno al 5° o 6° secolo di Cristo ed altri in epoca più recente in ogni citta del Val di Mazara ed in non pochi dei Comuni, mescolandosi dapprima con i Cristiani e poi divisi e collocati nei loro ghetti, ne parlano tutti gli storici ed in ispecial modo Di Giovanni, La Lumia e Picone, il quale pubblicò documenti importantissimi non accennati da altri (2). 

Ma non sappiamo quando siano venuti a stabilirsi nel nostro Comune e quale sia la loro storia. Essi perciò se ne allontanarono nel dicembre dell'anno 1492 insieme agli altri Ebrei di Sicilia.
Ma la voce della tradizione parla costantemente di essi... 
Questo è segno non dubbio che gli Ebrei furono fra di noi, perché se ciò non fosse, la tradizione sarebbe muta e non sopravviverebbero alcuni loro usi."

Nicolò Tinebra Martorana, Racalmuto. Memorie e tradizioni, Assessorato ai Beni culturali del comune di Racalmuto 1982 (Prima edizione 1897)

(1) Di Giovanni - Ebraismo in Sicilia.
(2) G. Picone, Mem. Stor. Agrig., tra documenti.









TESTIMONIANZA DEL PICONE 

“Antichissima fu dunque la comunità degli Ebrei-girgentini, di cui si vede fatta menzione nei diplomi dei Normanni degli Svevi degli Angioini degli Aragonesi, fino al giorno della loro espulsione dall’Isola. 
[…] Essi vestivano gli abiti della loro antica patria.”

“La colonia ebraica era nostra concittadina, essa trafficava, commerciava, acquistava ed alienava beni, che possedette nel nostro territorio e nella città nostra, ove sorse la sua meschita, riccamente dotata da Salomone Anello, pio e sapiente ebreo-girgentino.
“Questa meschita, appellata anche dai nostri Ebrei (come dagli Arabi) Gemâ’, era sita nella strada, che allora appellavasi Reale, e confinava colle case del nobile Matteo Pugiades."

Giuseppe Picone. Memorie storiche agrigentine, Industria grafica T. Sarcuto snc, Agrigento 1984, riproduz. anastatica dell’edizione del 1866, pp. 510, 511.






TESTIMONIANZA DEL VALENTI


“Alfonso il Magnanimo aveva cercato di eliminare il dissidio tra cristiani ed ebrei, nominando, nel 1428, Gran Maestro degli Ebrei il girgentino Matteo Gimarra, che li avrebbe istruiti nella religione cristiana. 

"Giovanni d'Aragona, a sua volta, aveva concesso agli Ebrei di aprire, nel 1466, scuole a Girgenti, Naro, Siracusa e Polizzi. (1)

Durante gli anni di apertura dei re aragonesi nei confronti degli ebrei, il barone di Grotte Federico di Montaperto fu eccezionalmente confermato dal viceré Moncayo nella carica di governatore della Giudecca di Girgenti, a seguito della ‘supplica’ degli ebrei della città, i quali ne lodavano la correttezza  (2) e l’elevato senso di giustizia. La carica gli conferiva poteri decisionali nelle cause civili e penali di questa minoranza etnica”.

Calogero Valenti, Grotte. Origini e vicende, Amministrazione comunale di Grotte, stampato presso la Tipografia Moderna di C. Vitello, Racalmuto 1996, p. 59.

(1) G. Picone, op. cit., p. 747

(2) B. G. Lagumina, Codice diplomatico dei Giudei di Sicilia, Palermo 1890, ora rist. anast. 1990,
vol. II, pp. 7-10. Provvedimento in data 23 dicembre 1459.





martedì 13 novembre 2012

PER FAVORE, RIDATECI LA DISCARICA!


L’accumulo della munnizza ovvero il problema dei rifiuti fino a poco tempo fa è stato affrontato e risolto dai paesi mediante le loro discariche, ciascun paese aveva la propria.


Poi le singole discariche, comunali, vennero dismesse per dare spazio a megadiscariche intercomunali e accogliere la munnizza  di un certo numero di comuni organizzati in consorzi. Con i risultati e i fallimenti che sono sotto gli occhi, e il naso, di tutti.

Ma qualche anno fa, quando questo sistema sembrava funzionasse alla perfezione, io sollevavo dubbi e interrogativi, tra il serio e il faceto, non tanto sulla loro economicità e sulla loro efficienza  quanto sulla loro involontaria valenza “culturale”.



Nell’estate di qualche anno fa, sotto l’afa di agosto, mi ritrovai in aperta campagna: a perdita d’occhio si vedevano stoppie gialle e bruciate. 

       Mi sembrava di stare in un luogo inventato, tanto era somigliante a quello descritto dal Lampedusa nel suo romanzo, ma inventato non era, perché ancora oggi mi ritrovo quello che ho rinvenuto quella volta tra i campi e le restucce riarse. O per essere più precisi – sempre con rispetto parlando – nel bel mezzo di una pubblica discarica.

        Ho trovato carte: documenti,  delibere,  pitàzzi, tessere fasciste e per il pane; un’istanza del signor Nicolò Alfano che chiedeva “lo svincolo della cauzione prestata quale esattore della Tassa del macinato negli anni 1871, 1872” nei comuni di Grotte e Racalmuto; l’atto fondativo di un “Circolo Unione”; il contratto dell’8 maggio 1899 fra la Ditta in commercio “Stefano Pirandello e C°” con sede in Porto Empedocle e il racalmutese Giovanni Battista Buscarino “coltivatore di zolfare”; aste per il rifornimento di vettovaglie dell’Esercito Regio; carte dei Withaker; notizie sulla fillossera; la delibera di un ossario comunale; testamenti del popolo minuto; lettere, molte lettere.

Qua e là, fogli strappati. Alcuni si leggevano male perché sbiaditi, altri appiccicati fra loro, maleodoranti. Erano atti, memorie, relazioni risalenti financo al Regno delle Due Sicilie.





       Quel luogo mi sembrò il giardino delle meraviglie, anzi, un pozzo senza fondo. Un incubo. O un sogno. Non so. Per un attimo, mi mancarono i riferimenti per capire dove stavo, cosa stesse succedendo, che significasse tutto questo. Era una discarica. In contrada “Mulona”. Non volevo crederci. “Fu quel ch’io dico, e non v’aggiungo un pelo”, affermo con Ariosto; rimasi “pallido e sbigottito”.

        La lettera, riservatissima, una raccomandazione insomma, del Reale Ispettorato Scolastico di Palermo, risalente al XX anno dell’era fascista, mi riconsegnò alla realtà: “Egregia Signora...”. In un’altra, Mons. Cajetano Blandini Episcopus Agrigentinus, confidando “nello Zelo, nell’Abilità, Attività ed Onestà del sigr Vincenzo Giglia”, lo nominava procuratore della rendita della Confraternita del Ssmo Sacramento. In un’altra ancora, del 1871,  si parlava della coltivazione dei  bachi da seta a Racalmuto.
Tante e tante altre carte curiose ho trovato: da farne un libro.




2007



        Il libro si intitolò Il giardino della discordia. Racalmuto nella Sicilia dei Withaker, le cui carte un editore voleva acquistare e voleva acquistare anche il mio dattiloscritto con l'impegnativa però da me sottoscritta di non pubblicarlo. 
Mi sembrò strana la proposta, come strana mi era parsa la non risposta della Fondazione Withaker ad una mia lettera che segnalava il ritrovamento delle carte withakeriane. Rifiutai e andai avanti per la mia strada.

Ebbi la Prefazione di Rosario Lentini, specialista nel settore, e presentai il libro a Racalmuto, a Grotte, all'Università di Palermo, a Naro, a Marsala, a Canicattì, ad Agrigento, con autorevoli testimonianze critiche e benevole segnalazioni sui mezzi d'informazione, tra cui le interviste di Nicola Giangreco a Trs98, di Gianni Manzo al TGR, la rubrica "Album" del TGR3 di Nuccio Vara del 26 gennaio 2007 che spazia da Racalmuto a Palermo a Marsala a Mozia.

Se avessi accettato la danarosa proposta di non pubblicare sarebbe stata una seconda morte per quelle carte, giusto giusto in una casa editrice. Altri pensieri avevo piuttosto per la testa.









Che ci facevano documenti così interessanti in mezzo alla fantastica munnìzza? Si può immaginare cosa sarà avvenuto: dopo la morte di qualche persona benestante e istruita, - un notaio, un avvocato, un uomo di chiesa, - gli eredi avranno venduto la sua casa e i nuovi acquirenti prima di ristrutturarla si saranno sbarazzati delle carte buttandole nella discarica comunale. 

Qui è il punto. E se la discarica non ci fosse stata? Che fine avrebbero fatto?




       Nell’eventualità che altre dimore contenenti carte storiche vengano vendute da eredi beneficiati e svuotate degli archivi di famiglia, ho maturato la seguente perorazione: per favore, ridateci la discarica, almeno sapremo dove andare a cercare le carte di quegli archivi dismessi, anzi, buttati via.





Oltre il muro, a.VI n.2 maggio 2008




                      


La Sicilia - ediz. di Agrigento - 6.2.2006 
"Grandangolo" - Agrigento - 11.2.2006

GdS 1 giugno 2007
    




Coppola Editore

Recensione di Serena Alessi su Critica Letteraria: