Che
il giovane Nicolò Tinebra Martorana fosse più incline ad “accensioni fantastiche,
visionarie” che non alla prosa storica “del Fazello, del
Gregorio, dell’Amari”, era stato affermato da Sciascia in Prefazione alla
ristampa di Racalmuto. Memorie e tradizione
avvenuta nel 1982.
Prova
provata ne è quella pagina ariosa e immaginifica sul Castelluccio preceduta
dall’epigrafe del romantico Lord Byron, un brumoso poeta inglese che cantava: “i monti per me sono un
sentimento”; e sentiva nostalgia dello “incorporeo pensiero”, dello “Spirito di
ogni luogo”.
In
tutta la descrizione del Castelluccio e della campagna circostante vi alitano
silenzi leopardiani e languori paesaggistici. Malinconie. Una struggente natura
che si impasta di echi caduchi.
E tuttavia, il Nicolò Tinebra che conoscevamo
era soprattutto, o esclusivamente, quello legato al suo libro scritto in quanto storico o
meglio sulla storia di Racalmuto.
Uno “storico”, il Tinebra Martorana, diciamo così, episodico, di un libro solo, che
poi ha studiato medicina ed esercitato per tutta la vita professione medica.
Con
il recente ritrovamento delle poesie inedite e pubblicate nel 2012 a cura di
Angelo Campanella, si ha la documentale conferma di quella propensione poetica.
Anzi, le poesie ritrovate che vanno dal 1891 al 1895 precedono di poco la pubblicazione
del lavoro storico risultando propedeutiche ad esso che sarà pubblicato
nel 1897: propedeutiche non nel metodo ovviamente bensì nello stile,
nell’esprimersi per immagini, con sentimento, con fantasia, arrivando ad
animare con creativa immaginazione
quello che avrebbero dovuto suffragare codici, pandette e documenti d’archivio
a cui ricorre meticolosamente lo storico
di mestiere.
E
viene il sospetto che il nucleo centrale delle sue ricostruzioni storiche e
delle ricerche alla Biblioteca Lucchesiana di Agrigento, spesso citata, possano
risalire al periodo liceale, coevo al periodo in cui scriveva poesie, visto che nei registri del liceo
classico “Scinà”, in seguito “Empedocle”, nell’a.s.1893/94, quando frequentava
la seconda liceale, risulta un riferimento alla sua abitazione in casa (alcune parole sono di difficile
interpretazione, una è approssimabile a "Gueli") “del Barone”.
Probabilmente
il domicilio ad Agrigento nel periodo liceale, in prosecuzione di quello ginnasiale - stando ai registri agrigentini (nessun Tinebra Nicolò di Salvatore e di Martorana Marianna in quelli racalmutesi, parzialmente consultati a causa di un recente atto di vandalismo) -, avrà facilitato la frequentazione della Biblioteca
Lucchesiana.
L’ipotesi
della coincidenza temporale, comunque, porta ad accostare compitazioni poetiche e
ricerche storiche. Come dire assommare in sé la doppia propensione del poeta e
dello storico, a tutto vantaggio della prima.
Il giovane Tinebra, il secondo cognome della
madre lo aggiungerà successivamente, ne è ben consapevole, qualificando il suo
lavoro non come “storia” bensì come una “breve reccolta di notizie”, e si
augura che sia da stimolo presso “qualche concittadino” affinché “la patria
mia… abbia alla fine una Storia degna di Lei e di gran lunga migliore a
questa”.
A rimarcare queste premesse,
Sciascia affermerà che l’opera “manca di metodo, e tante cose vi mancano”,
eppure, nel 1982, preferì si ripubblicasse l’edizione originale senza le
“aggiunte” apportate dai figli del Tinebra, stese in calce al testo da padre
Giuseppe Cipolla. Il contenuto delle "aggiunte" postume e gli autori ivi citati colmavano sicuramente lacune. Quella su Marco Antonio Alaimo, ad esempio, ribalta alcune precedenti affermazioni.
Ma il metodo “storico”
non poteva né voleva averlo il giovane Tinebra poiché dedito a tutt’altri studi
e ad abbandoni poetici.
Alla fin fine, dopo il rammarico della
ragione, di cui si fa schermo, lo stesso Sciascia sembra assecondare con il
sentimento “il filiale desiderio di far rivivere i secoli trascorsi” . E questo
“desiderio” del Tinebra ha voluto si riproponesse così come era scaturito. Così
come era ormai presente, secondo le sue parole pronunciate a braccio in teatro
nel 1982, “nell’immaginario di tutti i racalmutesi”. P. C.
Il giovane Tinebra, il secondo cognome della
madre lo aggiungerà successivamente, ne è ben consapevole, qualificando il suo
lavoro non come “storia” bensì come una “breve reccolta di notizie”, e si
augura che sia da stimolo presso “qualche concittadino” affinché “la patria
mia… abbia alla fine una Storia degna di Lei e di gran lunga migliore a
questa”.
A rimarcare queste premesse,
Sciascia affermerà che l’opera “manca di metodo, e tante cose vi mancano”,
eppure, nel 1982, preferì si ripubblicasse l’edizione originale senza le
“aggiunte” apportate dai figli del Tinebra, stese in calce al testo da padre
Giuseppe Cipolla. Il contenuto delle "aggiunte" postume e gli autori ivi citati colmavano sicuramente lacune. Quella su Marco Antonio Alaimo, ad esempio, ribalta alcune precedenti affermazioni.
Ma il metodo “storico” non poteva né voleva averlo il giovane Tinebra poiché dedito a tutt’altri studi e ad abbandoni poetici.
Ma il metodo “storico” non poteva né voleva averlo il giovane Tinebra poiché dedito a tutt’altri studi e ad abbandoni poetici.
Alla fin fine, dopo il rammarico della
ragione, di cui si fa schermo, lo stesso Sciascia sembra assecondare con il
sentimento “il filiale desiderio di far rivivere i secoli trascorsi” . E questo
“desiderio” del Tinebra ha voluto si riproponesse così come era scaturito. Così
come era ormai presente, secondo le sue parole pronunciate a braccio in teatro
nel 1982, “nell’immaginario di tutti i racalmutesi”. P. C.
"La fortezza sorge maestosa a cavaliere di un monte ed a cinque
miglia da Racalmuto. Sul suo sommo si addensano le nubi, il suo sommo indora il
primo raggio del Sole. A guardarla bruna, massiccia, sembra lo spettro del
passato, che parla alla tua mente di
tempi lontani lontani, di generazioni che sono nella polvere, di signorie e schiavitù,
dileguate per sempre.
Qual contrasto poi tra la mole maestosa che lotta con i
tempi ed impera, e le tisicuzze casupole campagnuole che sorgono in quelle
vicinanze!
Quando le colora 1'ultimo raggio di sole, sembrano
vermiglie di vergogna.
II monte Castelluccio risale dolcemente, perdendosi in
graziosi ondeggiamenti, in piccoli seni e piccole alture. In primavera
rosseggia gaiamente di lupinella fiorita, in estate il verde si alterna al
gialliccio dei gambi delle messi segate. Da una parte vigne flessuose ed alberi
rigogliosi, fra il verde di tanto in tanto fa capolino una casetta. L'altra
parte si stende quasi piana e vi ondeggia nel giugno la bionda spiga.
Bella è la luna allorché la bacia serenamente col suo albore e ne
rallegra la tinta cupa: sembra bellissima giovinetta, che posi le sue labbra
dilicate sulla fronte ancora raggrinzata di guerriero, spiccato da poco dal
conflitto ed ancora, fuor che il capo, chiuso nelle sue armi; sì che da quei
due diversi aspetti fusi insieme, ne venga alcun che di virile e forte all'una
e di gajo e grazioso al1'altro.
Belli e solenni sono i suoi silenzii, allorché ogni cosa dorme
all'intorno, e solo remotamente alla campagna, s'ode cantare il grillo, re in
quell'ora. Trovati sulle sue mura quando il vento fischia ed imperversa il
temporale: udrai il genio
del luogo, che ti parla con voce
cupa e misteriosa.
La parola Giblina è tutta arabica, e il genitivo
plurale di Gibel, monte, e significa dei Monti. Deve ritenersi
dunque che i Saraceni chiamarono il monte Castelluccio Gibillini e che
la fortezza sia stata poi battezzata con questo nome. Da questa origine trae
pure il nome di Gibillini dato alia vasta contrada circonvicina.
Questa fortezza,
così come esiste, sorse nel 1229 (2) durante l'impero di Federico... ".
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