sabato 16 marzo 2013

UNO STORICO POETA. Nicolò Tinebra Martorana




Bacheca del Teatro Regina Margherita di Racalmuto

Che il giovane Nicolò Tinebra Martorana fosse più incline ad “accensioni fantastiche, visionarie”   che non alla prosa storica “del Fazello, del Gregorio, dell’Amari”, era stato affermato da Sciascia in Prefazione alla ristampa di Racalmuto. Memorie e tradizione avvenuta nel 1982.



Prova provata ne è quella pagina ariosa e immaginifica sul Castelluccio preceduta dall’epigrafe del romantico Lord Byron, un brumoso poeta inglese che cantava: “i monti per me sono un sentimento”; e sentiva nostalgia dello “incorporeo pensiero”, dello “Spirito di ogni luogo”.


  In tutta la descrizione del Castelluccio e della campagna circostante vi alitano silenzi leopardiani e languori paesaggistici. Malinconie. Una struggente natura che si impasta di echi caduchi. 

E tuttavia, il Nicolò Tinebra che conoscevamo era soprattutto, o esclusivamente, quello legato al suo libro scritto in quanto storico o meglio sulla storia di Racalmuto. 



Uno “storico”, il Tinebra Martorana, diciamo così, episodico, di un libro solo,  che poi ha studiato medicina ed esercitato per tutta la vita professione medica.
Con il recente ritrovamento delle poesie inedite e pubblicate nel 2012 a cura di Angelo Campanella, si ha la documentale conferma di quella propensione poetica. 



Anzi, le poesie ritrovate che vanno dal 1891 al 1895 precedono di poco la pubblicazione del lavoro storico risultando propedeutiche ad esso che sarà pubblicato nel 1897: propedeutiche non nel metodo ovviamente bensì nello stile, nell’esprimersi per immagini, con sentimento, con fantasia, arrivando ad animare  con creativa immaginazione quello che avrebbero dovuto suffragare codici, pandette e documenti d’archivio a cui ricorre meticolosamente  lo storico di mestiere.



E viene il sospetto che il nucleo centrale delle sue ricostruzioni storiche e delle ricerche alla Biblioteca Lucchesiana di Agrigento, spesso citata, possano risalire al periodo liceale, coevo al periodo in cui scriveva poesie,  visto che nei registri del liceo classico “Scinà”, in seguito “Empedocle”, nell’a.s.1893/94, quando frequentava la seconda liceale, risulta un riferimento alla sua abitazione  in casa (alcune parole sono di difficile interpretazione, una è approssimabile a "Gueli") “del Barone”.



Probabilmente il domicilio ad Agrigento nel periodo liceale, in prosecuzione di quello ginnasiale - stando ai registri agrigentini (nessun Tinebra Nicolò di Salvatore e di Martorana Marianna in quelli racalmutesi, parzialmente consultati a causa di un recente atto di vandalismo) -, avrà facilitato la frequentazione della Biblioteca Lucchesiana. 



L’ipotesi della coincidenza temporale, comunque,  porta ad accostare compitazioni poetiche e ricerche storiche. Come dire assommare in sé la doppia propensione del poeta e dello storico, a tutto vantaggio della prima.



  Il giovane Tinebra, il secondo cognome della madre lo aggiungerà successivamente, ne è ben consapevole, qualificando il suo lavoro non come “storia” bensì come una “breve reccolta di notizie”, e si augura che sia da stimolo presso “qualche concittadino” affinché “la patria mia… abbia alla fine una Storia degna di Lei e di gran lunga migliore a questa”.  


A rimarcare queste premesse, Sciascia affermerà che l’opera “manca di metodo, e tante cose vi mancano”, eppure, nel 1982, preferì si ripubblicasse l’edizione originale senza le “aggiunte” apportate dai figli del Tinebra, stese in calce al testo da padre Giuseppe Cipolla. Il contenuto delle "aggiunte" postume e gli autori ivi citati colmavano sicuramente lacune. Quella su Marco Antonio Alaimo, ad esempio, ribalta alcune precedenti affermazioni.
Ma il metodo  “storico” non poteva né voleva averlo il giovane Tinebra poiché dedito a tutt’altri studi e ad abbandoni poetici. 



Alla fin fine, dopo il rammarico della ragione, di cui si fa schermo, lo stesso Sciascia sembra assecondare con il sentimento “il filiale desiderio di far rivivere i secoli trascorsi” . E questo “desiderio” del Tinebra ha voluto si riproponesse così come era scaturito. Così come era ormai presente, secondo le sue parole pronunciate a braccio in teatro nel 1982, “nell’immaginario di tutti i racalmutesi”.                                                      P. C.




"La fortezza sorge maestosa a cavaliere di un monte ed a cinque miglia da Racalmuto. Sul suo sommo si addensano le nubi, il suo sommo indora il primo raggio del Sole. A guardarla bruna, massiccia, sembra lo spettro del passato, che parla alla tua   mente di tempi lontani lontani, di generazioni che sono nella polvere, di signorie e schiavitù, dileguate per sempre.
II luogo dove s'innalza e pittoresco: ai fianchi del masso su cui s'erge, sul declivio, si aggruppano qua e la massi di roccia bianca, che da lungi ti si offrono alia vista come branco di capre ardite.



Qual contrasto poi tra la mole maestosa che lotta con i tempi ed impera, e le tisicuzze casupole campagnuole che sorgono in quelle vicinanze!
Quando le colora 1'ultimo raggio di sole, sembrano vermiglie di vergogna.
Chi spinge dal nostro paese lo sguardo a quella fortezza, sente allietarsi 1'animo.



II monte Castelluccio risale dolcemente, perdendosi in graziosi ondeggiamenti, in piccoli seni e piccole alture. In primavera rosseggia gaiamente di lupinella fiorita, in estate il verde si alterna al gialliccio dei gambi delle messi segate. Da una parte vigne flessuose ed alberi rigogliosi, fra il verde di tanto in tanto fa capolino una casetta. L'altra parte si stende quasi piana e vi ondeggia nel giugno la bionda spiga.

Bella è la luna allorché la bacia serenamente col suo albore e ne rallegra la tinta cupa: sembra bellissima giovinetta, che posi le sue labbra dilicate sulla fronte ancora raggrinzata di guerriero, spiccato da poco dal conflitto ed ancora, fuor che il capo, chiuso nelle sue armi; sì che da quei due diversi aspetti fusi insieme, ne venga alcun che di virile e forte all'una e di gajo e grazioso al1'altro.


Belli e solenni sono i suoi silenzii, allorché ogni cosa dorme all'intorno, e solo remotamente alla campagna, s'ode cantare il grillo, re in quell'ora. Trovati sulle sue mura quando il vento fischia ed imperversa il temporale: udrai il genio del luogo, che ti parla con voce cupa e misteriosa.

Nel nostro idioma questa fortezza vien chiamata Castelluccio: il suo vero nome però è Giblina o Gibillina. Infatti cosi la chiama Fazello (1). Questo nome di Castelluccio le fu dato in opposizione al Castello, perché di mole più piccola.



La parola Giblina è tutta arabica, e il genitivo plurale di Gibel, monte, e significa dei Monti. Deve ritenersi dunque che i Saraceni chiamarono il monte Castelluccio Gibillini e che la fortezza sia stata poi battezzata con questo nome. Da questa origine trae pure il nome di Gibillini dato alia vasta contrada circonvicina.
Questa fortezza, così come esiste, sorse nel 1229 (2) durante l'impero di Federico... ".






Tratto da Nicolò Tinebra Martorana, Racalmuto. Memorie e tradizioni, 1982, pagg. 75,76.



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