sabato 20 agosto 2016

IL DIALETTO COME OSSESSIONE? Saggio di Marco Scalabrino su Alessio Di Giovanni



Alessio Di Giovanni non ha fatto scalpore quando in dialetto  ha scritto poesie, poemi e drammi ma quando ha voluto accostare il dialetto alla prosa in lingua dei romanzi anzi sostituendola addirittura.

Nel criticare I Malavoglia di Verga arriva a suggerire di riscrivere il romanzo in siciliano per raggiungere vette più alte d’arte.

Il catanese Verga non ha seguito il suo consiglio, e allora l’ha fatto lui stesso, ciancianese con echi netini: ha scritto due romanzi in dialetto siciliano, Lu Saracinu e La racina di Sant'Antantoni. Del primo se n'era occupato Pietro Mazzamuto al momento della pubblicazione postuma, ma la pubblicazione originaria e la recente ristampa della Racina erano passate pressoché inosservate.

Marco ha colto questa defaillance della critica e ha voluto scommettere per un'indagine in proprio. Me ne aveva accennato qualche anno fa con l'orgoglio di chi scopre un inedito ma al contempo con un certo timore poiché si avventurava in un sentiero mai spianato. E si prefiggeva un traguardo: completarla nel 2016 in coincidenza del settantesimo anniversario della morte di Alessio Di Giovanni.

Il risultato odierno, con puntualità,  corona la previsione temporale ma anche le aspettative critiche che il romanzo attendeva fin da troppo tempo non andranno disattese. P. C. 




Stralci da:
Marco Scalabrino, La racìna di Sant'Antoni di Alessio Di Giovanni
Edizioni Drepanum, Trapani 2016
  

“In questa Racìna di Sant’Antoni – prosegue il Di Giovanni, introducendoci alla sostanza del libro e focalizzando le ragioni della sua predilezione del dialetto – ho voluto analizzare un carattere e narrare la storia di una passione.
Non la solita passione d’amore per la solita donna ma una passione per qualche cosa di più elevato, di più casto, di più immateriale, di più eterno, di più perfetto: la passione per l’Arte.

Ho scritto questo romanzo in siciliano non perché non ami e non conosca e non apprezzi la nostra gloriosa e duttile e perfetta lingua nazionale, ma per istintivo, irresistibile bisogno di rendere l’intima anima della mia terra, con quella semplicità spontanea e con quella sicura immediatezza che si possono ottenere interamente adoperando il vermiglio linguaggio dell’isola, perché soltanto con il suo corrusco fiammeggiare e con la sua armonia accorata si può dare un’impronta schiettamente paesana alla narrazione e infonderle, come direbbero i miei fratelli felibri, quel particolare profumo du terroir.”


Quanto, poi, al duplice registro linguistico, all’allestimento bifronte del libro precisa: “Dopo avere scritto il romanzo in siciliano, ho voluto tradurlo in lingua, non solo nella speranza che possa diffondersi fuor di Sicilia, ma anche per sperimentare il metodo proposto dal Tommaseo, dal Fanfani e dal Del Lungo: di pervenire, cioè, alla lingua nazionale attraverso la traduzione del dialetto”.



“Il fatto che un testo faccia la sua prima apparizione già corredato di traduzione – adattiamo al nostro caso questa sagace valutazione di Gian Mario Villalta, del 1992 –, che cioè la traduzione risulti inscritta nel gesto iniziale con cui si rivolge a un pubblico, è la spia di una divaricazione del rapporto tra l’ambito della produzione e quello della ricezione; indica che il testo in questione non si rivolge a una comunità di parlanti la sola lingua della composizione di partenza, ma va a cercare i suoi lettori al di fuori di questa comunità.”  
    


“Ho tradotto – insiste il Di Giovanni – il testo siciliano con assoluta fedeltà, allontanandomi da esso rare volte, o per evitare una troppo palese sconcordanza tra le due grammatiche, la siciliana e l’italiana, che non sempre vanno d’accordo come, del resto, quelle di tutte le lingue e di tutti i dialetti, o per non usare una frase o una voce che può essere compresa del tutto solo in Sicilia.

Mi sono avvalso largamente di alcune parole che, pur essendo divenute arcaiche nella lingua letteraria, sono tuttora vivissime in Sicilia. Dei nomi efficacemente espressivi di certe erbe e di certi uccelli ho usato invece il termine siciliano, italianizzandolo.


Così l’erva di ventu l’ho chiamata “erba di vento” e non parietaria comune, perché, in questo caso, la parola siciliana ha un suo profondo significato, giacché è il vento che trasporta il seme di quest’erba tra le crepe terrose dei vecchi muri; e l’erva maisa “erba da maggese” e non pulicaria. Ho lasciato immutata, nella traduzione, la voce quartara (vaso di terra dove, nelle campagne siciliane, si tiene l’acqua) e non l’ho tradotta “brocca”, come vorrebbero i vocabolari, perché la brocca o mezzina in Toscana è di rame e ha tutt’altra forma.
Ho voluto introdurre, nella mia traduzione, delle parole siciliane che meritano come il ciuciuliari di entrare a far parte della lingua nazionale, perché espressive e succose.
Così, in luogo del generico “orciolo”, ho usato il siciliano ogghialoru, perché indica, in maniera più chiara e più efficace, quel piccolo vaso di terra in cui i nostri contadini sogliono tenere l’olio.”   


Romualdo Bizzarri, nel pezzo Il nuovo cittadino del 1939, è in proposito di avviso totalmente difforme: “Sarebbe desiderabile che l’opera venisse tradotta in buon italiano. È vero che ne L’uva di Sant’Antonio di fronte al testo siciliano vi è la traduzione dell’autore stesso; ma, per un criterio che io ritengo sbagliato, l’autore ha voluto piegare la lingua italiana a parole, frasi e costrutti del dialetto siculo. Ora, ciò che è bello, e magari bellissimo, in dialetto urta quasi sempre la nostra sensibilità artistica se tradotto letteralmente: il che ciascuno vede quanto noccia alla comprensione dell’arte squisita del nostro autore. Invece una buona traduzione italiana, anche se impotente a riprodurre tutte le sfumature del dialetto, non ci sarebbe d’ostacolo a capirne l’essenziale”.
La vexata quaestio afferente alla traduzione in Letteratura! A ogni piè sospinto essa trova nuove occorrenze per alimentarsi.




Nella determinazione (sopravvenuta alla entusiasmante lettura) di scrivere di questo romanzo, che, a partire dal titolo, attrae, ci rendiamo conto, per la miriade di questioni liberate da quelle pagine (ciascuna meritevole di decifrazione, di storicizzazione, di approfondimento), che è pressoché impraticabile tentarne una sintesi che possa risultare emblematica dell’arcipelago di personaggi e situazioni, di affetti ed emozioni, di città e paesi, di flora e fauna, di colori e odori, di opere e pittori, di chiese, conventi e monasteri, di frati e monaci; emblematica del linguaggio adoperato e delle sue peculiarità, dei rilevanti profili contenutistici e formali, dell’intreccio accurato e impeccabile; emblematica dell’umanità, della genuinità, della dignità di tutta una corte di personaggi fra maggiori e minori, ognuno nella propria individualità; una sintesi, ovvero, emblematica del mosaico caleidoscopico che è stata la Sicilia vissuta, percepita e narrata da Alessio Di Giovanni. 


Cercheremo, nondimeno, interrogando l’opera, riferendone contingenze e stralci supportati dalla versione in italiano, da confacenti rimandi e da ogni altro vantaggioso corredo, di approntare una esposizione quanto più organica possibile, che nell’evocarne l’atmosfera, nel porre l’accento, nell’illustrare qualcuno dei molteplici livelli dei quali questo libro si compone, nell’esaltarne i pregi letterari e non solo, possa suscitare curiosità in nuovi lettori e possa (perché no?) concorrere alla riscoperta, fra i Siciliani in primis, ma non solo, di questo capolavoro.  
  







2 commenti:

  1. GRAZIE, Piero, per la gradita nota e per la diffusione.
    Marco Scalabrino

    RispondiElimina
  2. Straordinario commento per uno straordinario saggio, straordinario ed "extraordinario".
    Flora Restivo

    RispondiElimina