Nel presentare la mostra degli artisti racalmutesi al Castelluccio (uno scultore e cinque pittori) nella bella manifestazione di domenica 23 giugno 2013, voluta ed organizzata da me ed Angelo Cutaia, facendo un pronostico sul futuro è stata lanciata una sfida e azzardata un'ipotesi: la scelta degli artisti non era casuale, anzi, percorsi, metodi e stilemi comuni gettavano le basi per una possibile e riconoscibile scuola. La scuola di Racalmuto.
Una scuola
riconoscibile dall'aura e purtuttavia in fase di caratterizzazione. Identificabile
con un luogo semplicemente per l'appartenenza geografica. E ciò valeva anche
come un riconoscimento per la generazione degli adulti, i "maestri" (Giuseppe Agnello, Sergio Amato, Nicolò Rizzo) e un auspicio per i più giovani, gli "allievi" (Dimitri Agnello, Alfonso Rizzo, Simone Stuto).
Non vengono esibiti colori squillanti, dai pittori, ma filtrati da pensamenti, ripensamenti, citazioni, fino a sedimentare sul colore steso una patina di ombrose tonalità, i colori diventano colori pensati in funzione di se stessi prima di prestarsi a dare consistenza alle forme accennate o volutamente sbalzate. Il richiamo all'antico e alla ieratica ritrattistica, al primo impatto, potrebbero distogliere dal lavorio sul colore, del colore. Ma della figura c'è chi ne fa a meno e anche dei modelli guttusiani per condurci in inabissamenti kirkegaardiani. E la famosa luce siciliana con il suo riverbero esplicito sui colori carretteschi non viene negata ma indirizzata diversamente, incubata in meditazioni esitenziali, quasi raccolta nel palmo cavo della mano come una lucciola nelle sere senza luna immersi nella campagna buia.
Lo scultore affida alle forme tridimensionali il suo mondo, persegue con i suoi mezzi
(gesso, bronzo legno vetroresina) quello che i pittori realizzano con i colori, un personale discorso: la figura umana, gli animali, gli oggetti, si fanno portatori di un messaggio "ecologico" nel voler ripristinare antichi equilibri alterati, arcaiche sintonie con la natura: inizialmente la figura umana, dura, bitorzoluta, rude come un tronco o un sasso lavorato dal tempo, introietta l'aspirazione a riappropriarsi delle perdute sintonie e diventa essa stessa natura, tronco tra tronchi, sasso tra sassi. Successivamente, in scontroso dialogo con la modernità, la figura umana si ricompone in classicheggianti sinuosità ma ha bisogno di accostarsi agli elementi della natura per far sì che non sia una mera astrazione, per tal motivo al posto dei fluenti capelli c'è una cascata di rami e sterpi intricati, dalla testa di un uomo si innalza come un naturale prolungamento un tronco snello e ramificato.
In tal modo l'artista fa dialogare il classico con ciò che lo precede, con la naturalità dei più svariati elementi, ed è questo che persegue e gli importa al di là di ogni apparente forma bella: rendere fenomeniche le moderne contorsioni noumeniche.
I pittori e lo scultore sono accomunati dallo sguardo bifronte nel far dialogare con libertà e padronanza di accostamenti la tradizione con la modernità cui è sottesa come una scommessa quello che sembra uno speculare gioco linguistico: rendere la tradizione moderna e la modernità tradizione.
Non vengono esibiti colori squillanti, dai pittori, ma filtrati da pensamenti, ripensamenti, citazioni, fino a sedimentare sul colore steso una patina di ombrose tonalità, i colori diventano colori pensati in funzione di se stessi prima di prestarsi a dare consistenza alle forme accennate o volutamente sbalzate. Il richiamo all'antico e alla ieratica ritrattistica, al primo impatto, potrebbero distogliere dal lavorio sul colore, del colore. Ma della figura c'è chi ne fa a meno e anche dei modelli guttusiani per condurci in inabissamenti kirkegaardiani. E la famosa luce siciliana con il suo riverbero esplicito sui colori carretteschi non viene negata ma indirizzata diversamente, incubata in meditazioni esitenziali, quasi raccolta nel palmo cavo della mano come una lucciola nelle sere senza luna immersi nella campagna buia.
Lo scultore affida alle forme tridimensionali il suo mondo, persegue con i suoi mezzi
(gesso, bronzo legno vetroresina) quello che i pittori realizzano con i colori, un personale discorso: la figura umana, gli animali, gli oggetti, si fanno portatori di un messaggio "ecologico" nel voler ripristinare antichi equilibri alterati, arcaiche sintonie con la natura: inizialmente la figura umana, dura, bitorzoluta, rude come un tronco o un sasso lavorato dal tempo, introietta l'aspirazione a riappropriarsi delle perdute sintonie e diventa essa stessa natura, tronco tra tronchi, sasso tra sassi. Successivamente, in scontroso dialogo con la modernità, la figura umana si ricompone in classicheggianti sinuosità ma ha bisogno di accostarsi agli elementi della natura per far sì che non sia una mera astrazione, per tal motivo al posto dei fluenti capelli c'è una cascata di rami e sterpi intricati, dalla testa di un uomo si innalza come un naturale prolungamento un tronco snello e ramificato.
In tal modo l'artista fa dialogare il classico con ciò che lo precede, con la naturalità dei più svariati elementi, ed è questo che persegue e gli importa al di là di ogni apparente forma bella: rendere fenomeniche le moderne contorsioni noumeniche.
I pittori e lo scultore sono accomunati dallo sguardo bifronte nel far dialogare con libertà e padronanza di accostamenti la tradizione con la modernità cui è sottesa come una scommessa quello che sembra uno speculare gioco linguistico: rendere la tradizione moderna e la modernità tradizione.
La vitalità di una
scuola, in ogni caso, si manifesta attraverso la trasmissibilità con la famosa regola
dell'allievo che supera il maestro, e in una vera scuola non può non essere che
così: tutta l'esperienza passata diventa abilità per andare oltre: Giotto non
ha superato Cimabue? Michelangelo Carisi detto Caravaggio non ha superato
Simone Peterzano? E non sono andati a bottega tanti maestri, tanti geni
dell'arte italiana? E non è andato a bottega il nostro Pietro D'Asaro, maestro
a sua volta?
La bottega che
accomuna maestri e allievi è l'Accademia, intesa non tanto e non solo come
curriculum, visto che il giovane Dimitri non ha ancora l'età per frequentarla,
ma come metodo.
Qui si apre
l'annosa questione dell'originalità, dello stile personale riconoscibile.
Ebbene l'Accademia è nemica giurata e spesso mortale sia dell'uno che
dell'altra. I più deboli restano a navigare per tutta la loro carriera
artistica nelle acque basse dell'accademismo, della bravura formale, del già
visto e sperimentato, i più robusti e iconoclasti sanno uccidere
l'accademismo assorbito percorrendo talvolta strade opposte a quelle canoniche
additate dall'Accademia e in tal modo diventano originali, veri maestri. Pippo Rizzo, accademicissimo, ha incarnato l'ossimoro: è stato un pittore futurista che è quanto dire.
La vera scommessa è
questa: vincere l'accademia attraversandola, non ignorandola.
Per accademia
intendo in senso lato la conoscenza e la pratica del linguaggio artistico
codificato, regolamentato e canonico, come per un musicista conoscere altri musicisti, saper
leggere la musica e saperla scrivere. Ci risulta difficile il solo immaginare che un
Beethoven, un Gershwin o un Verdi non conoscessero la musica e fossero a digiuno
di cultura musicale. La conoscenza di altre opere, la pratica delle note e
l'abilità del saperle scrivere non impedisce ai geni musicali di concepire
opere d'arte originalissime. Anzi, il bagaglio di conoscenze tecniche diventa
strumentario indispensabile e bagaglio moltiplicatore delle nuove idee, se se
ne hanno.
Tutto ciò, sia per
i nostri maestri, come e in quanto maestri, pur nel processo evolutivo e
dinamico dell'inesausta ricerca, è una certezza, come altrettanto sono una
certezza negli allievi lo studio serio e metodico, il saper guardare
l'esperienza degli altri, degli adulti, dei maestri, il volerli imitare in
segno di riconosciuto omaggio, il proponimento faustiano di superarli e quindi
"tradirli", perpetuando e rinnovando così la scuola.
Un tradire non disgiunto etimologicamente dal latino tradere e dalla traditio, e quindi dal tramandare.
Non a caso i "nostri" hanno voluto denominare la mostra antologica al Castelluccio "Arkaïkós. Ritratti interiori".
Un tradire non disgiunto etimologicamente dal latino tradere e dalla traditio, e quindi dal tramandare.
Non a caso i "nostri" hanno voluto denominare la mostra antologica al Castelluccio "Arkaïkós. Ritratti interiori".
Per limitarci al
campo artistico, in tempi di equivocata ignoranza traghettata per naïveté, di ribellismo
senza radici fine a se stesso scambiato e spacciato per rivoluzione, di
anarchia, insomma, bella e buona, di faciloneria, di pigrizia, di
occasionalità, l'essere accademici da parte dei "maestri" e degli
"allievi" costituisce una garanzia a monte di serietà e di studio.
Serietà di studio,
meticolosità di esecuzione, regressioni arcaiche, smascheramento di ogni
sedimentazione e sovrastruttura: tutte condizioni o semplici tensioni che, a
prescindere da ogni altro discorso, lasciano sperare rispettabilissimi esiti
nei neoarcaici introspettivi di Racalmuto.
Commento al post su fb di Franco Fasulo:
RispondiEliminaSottoscrivo pure le virgole, Piero!! Grazie e un abbraccio a te e agli amici artisti.
interessante
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