L’inutile scienza delle sicilianerie e i suoi sacerdoti
di
Salvatore Di Marco
Diciamocela tutta: se c’è una categoria di siciliani di cui fortemente diffidare (mafiosi
a parte) è quella - forse in “ex aequo” con le
consorterie isolane dei politici di carriera -
dei siciliani che scrivono sui siciliani:
dovunque ne scrivano e comunque lo
facciano, dicendone in bene o dicendone in male.
Chi sono? Vogliamo fare un po’ di nomi?
Impossibile, perché sono tantissimi: nomi
illustri, celebrati, e nomi grigi delle retrovia.
Che si chiamino Luigi Capuana o Luigi Pirandello, Giovanni Gentile o Sebastiano Aglianò, Leonardo Sciascia o Vincenzo
Consolo o Sebastiano Addamo, Fulvio Abbate o Giosuè Calaciura, che siano di questo
secolo o dell’Ottocento, del Settecento o ancora prima: prendetene uno a caso, guardate
bene tra le sue carte, e se non ha ancora scritto la sua minchiata sui siciliani, i casi sono
due. O prima o poi lo farà, oppure è un figlio delle gallina bianca.
Al genere letterario “siciliani-che-scrivono-sui-siciliani” nessuno ha dato un nome;
si potrebbe provare con la parola sicanologia visto che il termine di “sicilianerie”
coniato da Gesualdo Bufalino riguarda i contenuti della materia e non la materia stessa.
E non parlatemi di sicilitudine che è una brodaglia dove tutti hanno inzuppato il loro
boccone di pane.
Abbiamo però capito che quelli della “categoria” sono scrittori e giornalisti, sociologi
e intellettuali, cattedratici e letterati, i quali hanno un debole per questa inutile scienza
della sicilianeria.
Se, per esempio, Tomasi di Lampedusa ha il merito di avere scritto Il
Gattopardo, che è un grande romanzo, ha la colpa di averlo inzaccherato con idee
strambe sui siciliani, che ormai tutti conosciamo a memoria poiché sono entrate nel
corredo culturale delle sciocchezze che ogni intellettuale, non esclusi i professori di
liceo e i ragionieri, ama citare come ciliegine sulla torta.
Roba che ormai la Sicilia
esporta e che viene riciclata da una categoria di intellettuali non siciliani per
confezionare libri e carriere: in questo momento, per esempio, un illustre esemplare di
studioso sicilianista è Massimo Onori per il quale una buona metà degli scrittori siciliani
è collusa con la mafia mentre l’altra metà magari lui non la conosce e perciò resta in attesa di
giudizio.
Il fatto è che i siciliani dei letterati non c’entrano nulla con i siciliani veri, quelli
partoriti da donna dopo nove mesi di gravidanza e poi iscritti all’albo dell’ anagrafe.
Sicché, mentre la Sicilia della realtà quotidiana vive e lavora come si fa generalmente in
Val d’Aosta o in Basilicata, nel Friuli o lungo il Tavoliere delle Puglie, in Ciociaria o in
Val Brembana, o magari nelle città della Catalogna o del Texas, e la sua gente è alle
prese con l’impegno faticoso di sbarcare il lunario per la famiglia e per la storia, loro -
quelli della categoria - scrivono, scrivono di come sono fatti i siciliani e di come
bisognerebbe magari rifarli di sana pianta, scrivono su come ammaestrare il popolo
isolano e i suoi governi in base a loro personalissime ricette affinché ogni malanno
sociale sia portato finalmente a guarigione.
Insomma loro, quelli della categoria, scrivono e basta, come fece nel Cinquecento il
poeta messinese Scipione De Castro per dare avvertenze sul modo più efficace di
governare questi irriducibili siciliani, ponendosi in tal modo come il capostipite di
questa secolare categoria.
E meno male, tutto sommato: poiché, se come parlano e scrivono, volessero pure
agire quelli della categoria, sarebbero una calamità non meno perniciosa dei siculi
politici di carriera i quali, quando sfasciano le cose, lasciano ben poco ad altri che possa
essere sfasciato.
Perciò da questi ci salvi Iddio, ma, per favore, che il Padreterno non si dimentichi dei
siciliani che scrivono sui siciliani. Amen.
Ph pierocarbone: Luce e barche ad Aspra.
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