sabato 3 agosto 2013

SICULITÀ DI RUSSO, SICULITÀ PER RUSSO





Nel volume Delia per Luigi Russo, a cura di Antonio Vitellaro, che raccoglie "tutte le iniziative organizzate dal Comune di Delia dal 1961 al 2011 per ricordare l'illustre concittadino", voluto e pubblicato dall'amministrazione di Delia presieduta dal sindaco Calogero Messana, si fa ricorso, nei discorsi introduttivi, alla categoria della "sicilitudine", riferendola al modo di essere intellettuale e siciliano di Luigi Russo: alla sua rielaborazione sentimentale e culturale attraverso la scrittura.



Non che la citazione non fosse opportuna, ma perlomeno accanto alla suddetta sicilitudine, elaborata dallo scrittore d'avanguardia palermitano Crescenzio Cane, assimilata da Sciascia e da lui pubblicata nel 1970 ne La corda pazza per Einaudi, resa popolare e quasi luogo comune dagli articoli dei giornalisti più che dalle interpretazioni dei critici, termine di cui Salvatore Di Marco non vuol sentir parlare per il troppo parlarne, banalmente e a sproposito, quasi trito luogo comune. Ha scritto Di Marco, quasi per inciso: "E non parlatemi di sicilitudine che è una brodaglia dove tutti hanno inzuppato il loro boccone di pane".  


Accanto al suddetto termine, dunque, si ponga anche l'altro, la "siculità": una categoria russiana da applicare allo stesso  Russo per provare a comprenderlo forse più fedelmente.


                                                                                                                           

LA “SICULITÀ” DI LUIGI RUSSO

Quando Luigi Russo identificò ed indicò una caratteristica culturale, una tendenza ideologica o un atteggiamento mentale con una città o una regione, adottò quella città e quella regione in senso metaforico; potrà quindi dire di ritrovare Firenze “dispersa in tutta l’Italia, e (che lo) insegue come un’ombra: miscuglio di scetticismo e di eleganza, di ateismo e di sottigliezza critica, di conformismo e di trivellante raffinatezza” (1).

Intese Napoli e Firenze come “metafore storiche”, la loro opposizione adombrerà il “conflitto necessario” tra la “grande ragione” e la “piccola ragione”, tra una cultura “di tipo vichiano, viva, piena di fede, animosa, antropocentrica” e una cultura “di tipo galileiano, col senso dei particolari sottilissimo, ma ormai un po’ stanca, senile, acentrica, con una sfiducia un po’ atea negli studi e nella letteratura” (2), la prima di indirizzo storiografico-dialettico, l’altra di indirizzo filologico-grammaticale; Napoli, laica e collegata alla cultura nazionale ed europea; Firenze, “paolotta”, provinciale e chiusa.


E parlando del Gentile, contaminatosi ideologicamente a Roma, “città dell’Apocalissi”, il Russo dirà Pisa, Napoli, Roma essere “semplici metafore biografiche, perché ciascuno ha la sua Roma dell’Apocalissi dentro, prima ancora di viverci e di mescolarvisi” (3).

Parimenti, per il Boccaccio, Pisa, Napoli e Firenze saranno le tre “città-mito” presenti nella sua vita e nella sua opera: la prima per i “rapporti misteriosi del sangue”, la seconda per la “fascinosa esperienza di sollazzi amorosi”, la terza per la lingua e la tradizione letteraria.


Per lo stesso Russo, la lontana Sicilia, in cui nacque e dove aveva legami carnali, fu la sua patria ideale che arrivava fino a Napoli e formava polo di cultura storicista in contrapposizione alla patria “piagnonesca” e “leopoldina” Firenze-Pisa, dov’egli molto dimorò.

Nella misura in cui la “sicilianità” non la si faceva valere in senso metaforico (come a lui avveniva per le città di cui s’è detto) ma come il prodotto di un condizionamento storico-geografico alla Madame de Staël, il Russo non volle intraprendere simili ricerche riguardanti gli autori siciliani.


Il Russo non credette mai al “mito della sicilianità” come non credette all’altro mito della “toscanità”, perché entrambe “forme di mitologia etnica assai arretrate” (4). Quando volle caratterizzare in senso siciliano un autore, un’opera, uno stile, si avvalse del neologismo “siculità”. Egli parla di “provincialismo illustre, o siculità illustre, così come per qualche scrittore latino si parla di patavinità o di ibericità” (5).

La “sicilianità” aveva la pretesa di dare la caratteristica etnica del tipo siciliano, secondo le sorpassate teorie idealistico-romantiche, per cui si poteva concepire una “storia dello spirito siciliano”, e, in sede di storiografia letteraria, si poteva scorrere una letteratura per individuare “lo scrittore che (potesse) dirsi veramente il poeta della Sicilia” (6).


Il critico originario di Delia reagì sempre a siffatte ricerche care ai sociologi che volevano dare con le loro generalizzazioni “scientifiche” le caratteristiche ambientali, storiche, culturali della “sicilianità” a partire dal dato etnico. Tuttavia, trovandosi ad esaminare le opere di alcuni autori siciliani, fece ricorso alla nozione di “siculità” per indicare il carattere sicilianeggiante di un linguaggio, di un paesaggio, di un luogo, di una scena rappresentata, ispirati alla Sicilia, ma che non costituissero la deprecata “Sicilianità”.


La “siculità” nell’arte verghiana, ad esempio, ha rappresentato la risoluzione estetica originale dei rapporti tra la lingua immediata e lingua artistica, tra vicende biografiche e narrazione, mentre la “sicilianità” non permetteva di risolvere questi rapporti esteticamente. Con la nozione di “sicilianità”, infatti, si tendeva ad identificare dei contenuti “siciliani” con l’arte; la “siculità” trascende il contenuto (che in questo caso è il mondo siciliano) per ritrovarlo trasfigurato nella forma che sa creare il poeta.


Nel complesso rapporto che intercorre tra dialetto e lingua letteraria, il Verga perviene al segno più alto della sua arte quando, nell’ottica della siculità, sa liberarsi sia dal dialetto siciliano preso nella sua materialità sia dal “fiorentinesco”, dalle “fiorintinerie” e dal “fiorentineggiare”. 
La “siculità illustre” viene ad essere “l’idea platonica della lingua, a cui (lo scrittore) si sforza sempre di adeguarsi, non riuscendovi, per fortuna... mai pienamente”(7), “lingua degli angeli”, “lingua-mito” , “lingua ricordata” liricamente che nel contrasto e nella contaminazione con la "lingua parlata" genera uno stile, lo stile inconfondibile del singolo poeta.


Questa “idea platonica della lingua” verghiana non è realizzata attraverso un incastro di frammenti linguistici presi nella loro immediatezza dalla parlata quotidiana; essa è ben lontana dall’ “italiano regionale di Sicilia” con cui ci ha inondato e imbastardito in tempi a noi più vicini Andrea Camilleri, un italiano, il suo, realizzato in taluni casi attraverso l’ “adattamento fonetico” di parole dialettali all’italiano o attraverso l’adattamento dell’italiano alle strutture sintattiche dialettali. L’“italiano regionale” è di per sé un fenomeno preartistico. Si veda a tal proposito lo studio di A. Leone, L’italiano regionale di Sicilia, Il Mulino, Bologna 1982.

La “siculità” russiana, invece, indica un fenomeno poetico-linguistico, riscontrabile negli scrittori, nel nostro caso siciliani o sicilianeggianti, che si foggiano, a partire dal dialetto indotto congiunto all’italiano acquisito, una lingua adatta ad esprimere un contenuto poetico che le è inscindibile. 

“... Per noi le parole valgono non per sé ma per la sintassi di immagini in cui vengono alla luce” afferma Russo nel saggio su Giovanni Verga.


L’artista, infatti, a differenza del comune parlante (anche se colto), trascende l’idiotismo perché sa andare oltre la parlata comune e realizza la “classicità dialettale”, che è una classicità non solo linguistica ma anche poetica: “La ricerca della lingua si riduce ad essere ricerca dello stile” (8). La “siculità” diventa lo strumento linguistico che sussume l’atteggiamento morale e si materializza come procedimento stilistico attraverso cui il poeta o scrittore esprime la sua poetica e la sua moralità, sicché “il tribolo morale dell’artista diventa scrupolo di stilista” (9). Anche il sentimento vi s’embrica, un sentimento non gridato, non esibito ma sublimato in fragranza appena percettibile.

In tutta la letteratura siciliana, solo un’altra volta, oltre che nel Verga, si riscontra, per il Russo, la compiuta trasfigurazione della Sicilia storica e geografica nella “siculità”, e precisamente nel Gattopardo del Tomasi di Lampedusa. Se gli fosse stato temporalmente possibile, attraverso codesta nozione di siculità, magari sarebbero venute fuori altre “letture” emblematiche di autori a lui posteriori. Di Vincenzo Consolo molto verosimilmente. E di pochi altri.




© Piero Carbone. Rifacimento di un capitolo della tesi di Laurea "Dai modelli culturali alla poetica della 'colta barbarie'. Luigi Russo critico e polemista", anno accademico 1985/1986, relatrice prof.ssa Michela Sacco Messineo.

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NOTE: 1. Luigi RUSSO, Francesco De Sanctis e la cultura napoletana (1860-1885), Sansoni, Firenze 1959, 3° ediz., pag. 236 nota. 2. Ivi. 3. IDEM, La critica letteraria contemporanea, vol. II, Sansoni, Firenze 1977, 5° ediz., pag. 333. 4. IDEM, Elogio della polemica. Testimonianze di vita e di cultura (1918- 1932), Laterza, Bari 1933, pag. 118 nota. 5. IDEM, Giovanni Verga, Laterza, Bari 1971, 5° ediz., pag.. 312. 6. IDEM, Elogio della polemica, cit., pag. 120. 7. IDEM, Giovanni Verga, cit., pag. 282. 8. Ivi pag. 302. 9. Ivi pag. 66.

precedentemente pubblicato in "Lumie di Sicilia", n. 58, ottobre 2006, a cura dell'A.CU. SI. F. (Associazione Culturale Sicilia Firenze):
http://www.sicilia-firenze.it/upload/files/lumie_n58.pdf

Foto proprie. 

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