martedì 20 dicembre 2016

LECTIO MAGISTRALIS DEL PROF. SALVATORE TROVATO. Linguistica siciliana, lessicografia dialettale, galloitalici, lingua letteraria


Ringrazio il prof. Salvatore Trovato per la disponibilità a divulgare il testo della 
lectio magistralis da molti apprezzato e da tanti richiesto


ph Giuseppe Trovato

LECTIO MAGISTRALIS
del prof. SALVATORE TROVATO
a conclusione della sua attività didattica
nella Facoltà di Lettere/Dipartimento di Scienze umanistiche
dell’Università di Catania
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CINQUANT’ANNI
DI STORIA LINGUISTICA DELLA SICILIA
Lingue e culture europee ed extraeuropee nel siciliano





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Catania, ex Monastero dei Benedettini, 15 dicembre 2016
Auditorium “Giancarlo De Carlo”


Magnifico Rettore, caro Direttore del Dipartimento di Scienze umanistiche, caro Presidente del “Centro di studi filologici e linguistici siciliani”, care Colleghe e cari Colleghi, cari giovani che mi avete dato fiducia nel chiedermi ed elaborare con me la tesi di laurea, care studentesse, cari studenti,

in questa lezione, che conclude le mie altre che numerose in tanti anni ho tenuto in questa Università, voglio solo mostrarvi il mio percorso scientifico limitatamente al settore di studi che più di tutti ha coinvolto il mio interesse: la storia linguistica regionale. Un campo nel quale ho particolarmente prediletto la lessicografia dialettale, la linguistica siciliana (storica soprattutto e descrittiva), i dialetti italiani settentrionali o galloitalici presenti in Sicilia, la lingua letteraria. In questa particolare occasione desidero soffermarmi sulla storia linguistica regionale, tema a me caro fin dagli anni giovanili.

Venni in questa Università, studente di lettere classiche, esattamente cinquant’anni fa, nel novembre del 1966. Per la mia innata sete di sapere seguii tutte le lezioni con uguale interesse, ma la disciplina che più mi affascinò fu la Glottologia, a quell’epoca professata dal prof. Giorgio Piccitto. Suo assistente era il prof. Giovanni Tropea, che teneva le lezioni relative a una parte del programma: la fonetica e la storia della linguistica. 

Da dialettologi – e più Tropea che Piccitto – attingevano al dialetto sia per descrivere suoni non presenti in italiano, sia per dei flash di natura storico-etimologica, sia, comunque, per illustrare con esempi a portata di mano e ampiamente perspicui fatti teorici di portata generale. Peraltro, era già noto fin dal sorgere della linguistica storica che l’osservazione delle lingue vive è non poco utile a comprendere fenomeni delle lingue concluse, documentate solo dalla scrittura o addirittura ricostruite o da ricostruire. Ognuno di noi diventava protagonista di quelle lezioni, coinvolti come eravamo ad offrire la conoscenza del nostro dialetto nativo. Tanto più se questo era galloitalico, come nel mio caso.
Di lì a qualche anno tornai dal prof. Tropea per seguire i suoi corsi di Dialettologia. A lui chiesi la tesi all’inizio del mio terzo anno di studi.

Per i miei interessi, non nuovi, relativi alla storia antica della Sicilia, chiesi di poter studiare la toponomastica di Nicosia, città dalla quale provenivo e a me ben nota nel suo vasto territorio. Mi disse, con il garbo che gli era consueto e l’affetto che nutriva per i suoi scolari che, sì, andava bene quell’argomento, ma che la toponomastica è una disciplina che è bene studiare quando si hanno i capelli bianchi. Lui aveva preparato ben altro per me. E, in barba alla non facile toponomastica, non mi propose un argomento da giovincelli.
Si trattava di una tesi di linguistica storica e di storia della linguistica, che aveva come argomento gli studi siciliani di Carlo Salvioni: le Spigolature siciliane (1907-1910) e le Note varie sulla parlate lombardo-sicule (1907).

Solleticato nell’amor proprio – il prof. Tropea ribadì che non a chiunque avrebbe assegnato un siffatto argomento –, di lì a qualche giorno accettai e, insieme alla biblioteca di Facoltà – la cui sala di lettura chiamavamo allora seminario – cominciai a frequentare quasi giornalmente i locali dell’ “Opera del Vocabolario Siciliano” sezione catanese del “Centro di Studi filologici e linguistici siciliani” di Palermo, dove ho potuto consultare gli immensi schedari del VS, dal momento che l’opera, oggi conclusa, era ancora di là da venire: il primo volume del VS sarebbe uscito solo otto anni dopo, nel 1977.

Il contatto con quell’ingente materiale aprì orizzonti a me prima ignoti, sia pure nell’ambito della sicilianistica, mentre lo svolgimento della tesi mi mise in contatto con i problemi – soprattutto di ordine teorico – dibattuti tra Otto e Novecento in ambito italiano ed europeo. Mi riferisco da un lato alla teoresi neogrammatica col dibattito sulla ineccepibilità delle leggi fonetiche e le poche eccezioni possibili, e dall’altro alle ragioni, più legate alla storia (si pensi al problema del sostrato), rappresentate in Italia da Graziadio Isaia Ascoli e dalla sua scuola. 

Ma insieme potei entrare, per osservarla in retrospettiva, nella gloriosa palestra dell’«Archivio Glottologico Italiano» e delle numerose riviste, italiane e straniere, nelle quali gli studiosi pubblicavano i loro lavori (la francese «Romania», ad esempio, la «Zeitschrift fü Romanische Philologie», gli «Studi Glottologici Italiani» e i tanti «Archivi» di Storia patria, utilissimi al linguista per la mole di documenti pubblicati). E potei altresì entrare nel vivo di una lunga polemica che, tra fine Ottocento e inizio Novecento, appassionò gli studiosi e che più da vicino ci riguarda, quella relativa all’origine dei dialetti galloitalici della Sicilia.

Poi, subito dopo la laurea, nel luglio del 1971 – anche in questo caso permettetemi di fare ricorso ad episodi personali, a me utili per illustrare fatti importanti della mia formazione scientifica –, mi capitò di accompagnare per un rilievo topografico nelle campagne di Nicosia un amico archeologo, Giacomo Scibona, oggi non più tra noi. Visitammo una zona a me cara e ricca di future ricerche, per la quale lo studioso di toponomastica (il mio primo lavoro, che ritengo ancora valido, fu di toponomastica!) cercava la collaborazione e il riscontro dell’archeologo: la contrada Vaccarra, dove per me sorgeva l’antica Imachara, giunta come Maqārah fino a medioevo inoltrato e finanche meta, tra il XII e il XIII secolo, di gruppi di immigrati italiani settentrionali. 

Fu in quell’occasione che Scibona, dopo aver ascoltato la storia di alcune parole siciliane e soprattutto – lui di Piazza Armerina – il problema dei Galloitalici di Sicilia, mi chiese quasi a bruciapelo, da che parte stessi nella questione dibattuta tra Gerhard Rohlfs e parecchi linguisti italiani in ordine alla grecità della Sicilia e alla latinizzazione, e comunque da che parte era più prudente stare. 

Insomma, il problema era di stabilire se la grecità siciliana, collassatasi definitivamente nel XIII secolo, fosse stata senza soluzione di continuità dall’VIII sec. a.C. in poi e, per converso, se il (neo)latino fosse stato di importazione decisamente tarda (posizione di Rohlfs), o non piuttosto se avesse soppiantato già per tempo il greco e se quel che di greco restava nell’Italia meridionale e nel triangolo nordorientale della Sicilia non fosse altro che importazione bizantina.

La domanda dell’amico mi mise in imbarazzo non perché non mi fossero noti i termini della questione, ma perché, conoscendo le opposte posizioni, non ero riuscito fino ad allora a schierarmi per l’una o l’altra di esse. Insomma, la realtà era che se avevo trovato più che convincenti Gli scavi linguistici nella Magna Grecia (1933) di Rohlfs, altrettanto convincente, sul piano storico e teorico mi era parsa la Storia linguistica e storia politica nell’Italia meridionale (1960) di Oronzo Parlangeli, tanto più se supportato – il lavoro di Parlangeli – dal quello di Giovanni Alessio Sulla latinità della Sicilia (1946-48). 

Le mie ragioni erano allora puramente intuitive e latamente di ordine storico, mancando a me, come a chiunque altro, strumenti teorici tali da permettere una sintesi delle opposte posizioni. Senza dire poi che la ricerca sulla storia linguistica della Sicilia (e del Meridione) non era stata immune fino ad allora da condizionamenti ideologici. Tant’è che, a voler fare un solo esempio, ancora nel 1954 Biagio Pace – in un’epoca in cui non si era ancora spenta l’eco del separatismo siciliano postbellico e studiosi non specialisti tornavano ad affermare con fierezza la “mediterraneità” del siciliano contrapponendola a una latinità negata con forza – in quell’epoca, dicevo, Biagio Pace – la cui attività politica è nota a tutti – pubblicava sul secondo numero del “Bollettino del Centro di Studi filologici e linguistici siciliani” un articolo dal titolo La Sicilia romana

Qui cercava di ribaltare il giudizio negativo sulla storia della Sicilia in epoca romana che persisteva «dai primi tentativi umanistici […] fino al criticismo filologico degli ultimi cento anni». E lo faceva allo scopo di sottoporre le sue considerazioni – volte a mostrare una Sicilia interamente e felicemente romanizzata – agli «studiosi del fenomeno linguistico […] come degne di preliminare meditazione ai fini delle loro ricerche». È chiaro che in tal modo intendeva dare manforte ai sostenitori dell’antica romanizzazione.

Comunque, al di là dei condizionamenti ideologici, in quell’inizio di anni Settanta del Novecento la storia linguistica della Sicilia si muoveva ancora lungo la dimensione del tempo (retaggio sempre valido della linguistica positivista) e lungo quella dello spazio (acquisizione più recente dovuta alla geografia linguistica), ma, per quanto feconda di contributi, sembrava avvitarsi su sé stessa. 
Non era emersa, infatti, nessuna chiave interpretativa nuova sul piano teorico, e mancavano, sul piano pratico, dati che solo un’opera lessicografica particolarmente attenta alla variazione diatopica potesse offrire. La ricchezza del parlato era nota a Piccitto, abituato a lavorare sul campo, ma si trattava di una ricchezza che non era ancora approdata alla lessicografia, per vari motivi, anche di ordine ideologico. 

Così, se da un canto non si avevano elementi forti, sempre dal punto di vista teorico, per sostenere in maniera definitiva l’una o l’altra tesi o per arrivare ad una soluzione di sintesi nuova, dall’altro canto non si conosceva il lessico siciliano se non attraverso i vocabolari sette-ottocenteschi e la letteratura in dialetto. 
Inadeguati – scriveva Piccitto nel 1950 – «alle esigenze della dialettologia e della linguistica perché rispecchia[va]no quasi esclusivamente il dialetto delle grandi città e soprattutto il tipo ideale ma così poco concreto della lingua letteraria siciliana».

Peraltro, la linguistica romanza e italiana tradizionale si era misurata fin dalle origini con la grammatica storica – privilegiando particolarmente la fonetica – ma non aveva approntato una ricerca di largo respiro sul lessico, con la promozione di lessici regionali e/o locali ancora di là da venire. 
Recuperi in questo senso e ampliamenti teorici erano venuti dalla geografia linguistica – si pensi all’Atlas Linguistique de la France e all’Atlante Italo-Svizzero – cui siamo debitori dell’acquisizione della categoria “spazio” nell’analisi linguistica. Ma il lessico sistematico delle varie parlate romanze restava ancora da fare e alla linguistica storica mancavano ancora gli apporti teorici dell’interlinguistica e della sociolinguistica che verranno dopo e che saranno risolutivi.

Personalmente, all’inizio della mia attività di ricerca, mi trovai in una posizione privilegiata per la possibilità di accedere alle varianti fonetiche e lessicali delle parlate siciliane, già in sede di tesi di laurea. Chi fa linguistica storica sa bene che le varianti nella ricerca etimologica sono come gli anelli di una catena. Se ne manca uno, non è possibile giungere al punto di partenza. 

Lo schedario del VS, a differenza della precedente documentazione lessicografica, conteneva materiali linguistici raccolti sul campo e il suo fondatore sapeva bene che «un vocabolario siciliano [nuovo] condotto con criteri e intendimenti scientifici è […] la premessa indispensabile perché si possa finalmente pensare di scrivere una storia linguistica della Sicilia che possa inserirsi al posto che le compete nella storia delle lingue e dei dialetti romanzi» (Piccitto, cit.).

Alla palestra del VS, dopo la laurea, continuai a formarmi prima come schedatore e successivamente, a partire dal II volume, come redattore. Del quinto ed ultimo volume, venuta meno la possibilità di direzione e coordinamento del prof. Tropea, toccò a me la cura.

I numerosi questionari del VS osservati in sinossi costituivano per noi giovani ricercatori come la pagina di un grande e puntuale atlante linguistico. 

Ci esercitammo in analisi onomasiologiche studiando le denominazioni dei “gemelli”, del “geco”, dell’“omento del maiale” e poi ancora degli “incotti”, della “capra senza corna”, della “cicatricola” (o germe dell’uovo della gallina), del “marranzano” e da ultimo della “mantide”. 
Concetti peregrini, certamente, marginali nel sistema lessicale in quanto tecnico-specialistici, ma altamente redditizi dal punto di vista onomasiologico per la ricchezza delle numerose varianti lessicali, che in quel torno di tempo si conservavano ancora intatte nel substandard dei contadini, dei pastori, degli artigiani e delle massaie.

Intanto, sul piano teorico, la linguistica storica si arricchiva di una terza dimensione di analisi, quella sociolinguistica, trasversale a quelle storica e areale già note, e degli apporti della interlinguistica. Entrambe, coniugate a una conoscenza sempre più puntuale del lessico siciliano, gettavano luce nuova sulla storia linguistica regionale.

A questo proposito, non posso dimenticare lo sconcerto provato, quando – nel 1981 –, nello studiare le denominazioni della “capra senza corna” (una razza caprina proveniente dall’Africa del Nord), sulla base delle mie previsioni non trovai nell’area agrigentina e siciliana centrale l’attesa denominazione berbera fartasa, ma quella latina, tignusa. Che mi sembrò assai banale. 

Ma non posso dimenticare quanto esultai quando, dopo aver costruito una carta linguistica da cui era evidente che l’area d’estensione di fartasa era la prosecuzione di quella di tignusa e dopo aver rilevato nel Supplément aux Dictionnaires arabes del Dozy (l’unico vocabolario arabo contenente forme dialettali) che farṭas è parola berbera col significato fondamentale di ‘tegneux’ oltre che di ‘bête à cornes qui en manque’, mi vidi balzare davanti quanto frattanto l’interlinguistica veniva sempre più mettendo a fuoco. L’apparente banalissima tignusa non era altro che la traduzione (che noi linguisti chiamiamo “calco”) della parola berbera. 
E il calco non è spiegabile se non in un’area bilingue – latina e araba (e, nel nostro caso, con forte presenza berbera) –, mentre fartasa, non era altro che un banale prestito penetrato e rimasto in un’area in cui l’arabo (e tanto meno il berbero) non era parlato a livello popolare. Una parola, dunque, che già in antico si era sì diffusa tra i caprai dell’area nordorientale insieme alla razza di capra, ma priva di motivazione, caratterizzata della sola denotazione, tale, insomma, da poter dar luogo a un prestito, ma mai a un calco.

Insomma, a seguire Roberto Gusmani teorico dell’interlinguistica, è chiaro che «perché si possa verificare qualsiasi fatto di calco […] bisogna che il relativo modello alloglotto soddisfi ad una condizione indispensabile: quella di avere, almeno agli occhi del parlante che compie il calco, una “signification” ben individuabile, di essere cioè una parola ‘trasparente’, dunque motivata e articolata nella sua struttura». 

Insomma, a ribadire ulteriormente quanto ho appena detto, una “signification” farṭas poteva averla solo nell’ Agrigentino e nella Sicilia centrale dove l’arabo era pure parlato anche dalle popolazioni latine, mentre il prestito risulta relegato in area messinese, dove l’arabo a livello popolare attecchì assai poco e, comunque, in maniera superficiale e poco duratura.

Ad analoghe conclusioni giunsi ancora quando, qualche anno più tardi (1984), studiai il concetto di ‘cicatricola’ (o germe dell’uovo della gallina). Anche in questo caso l’area di ˹carrubella˺, pur essa di origine araba, si presenta in prossimità di un’altra area, quella di ˹tre denari˺. 
In alcuni casi i due tipi sono addirittura presenti nello stesso centro. E triddinari, come il ricordato tignusa, è calco da traduzione dell’arabo ḫarrūb il cui significato, stando sempre al ricordato prezioso Dozy, è anche quello di ‘très petite monnaie de cuivre, pièce de 3 centimes’. 

Un calco da traduzione ancora una volta, un prestito raffinato, possibile solo in condizioni di bilinguismo.

Potrei continuare ancora a lungo con questa tipologia di esempi, ma mi voglio soffermare ora anche su di un libro che per me ha avuto grande importanza: mi riferisco a Lingua e storia in Sicilia di Alberto Varvaro, ormai introvabile, ma che m’auguro si possa vedere presto ristampato. 
Si tratta di un libro in cui la storia dell’isola viene scritta da un linguista, per i linguisti e all’interno di un modello di analisi tridimensionale, in cui la sociolinguistica si affianca opportunamente alla dimensione temporale e a quella spaziale, col supporto, dove necessario, di una documentazione filologica rigorosa. 

Ed ecco, appunto, la sociolinguistica. Concetti relativi all’interlinguistica, come quelli di “prestito” e di “calco” – ancor più di quelli di “sostrato” e “adstrato” in parte desueti ma pur sempre utili se correttamente impiegati – trovano compimento in quelli sociolinguistici di “bilinguismo” e di “diglossia”. Così, ancora una volta, se farṭas può essere tradotto con tignusa e ḫarrūb con triddinari è chiaro che la traduzione di concetti così marginali e peregrini non può essere stata fatta che da parlanti sicuramente bilingui, per quanto umili.

Per converso, se in area messinese la quarta muta del baco da seta, nota come casarru e cafarru ma anche catarru (< gr. καθάριον), può essere anche denominata gghjaru e cioè ‘chiaro’, che è la traduzione del modello greco, è perché anche quell’area fu bilingue, non più araba e latina, ma greca e latina.

Insomma, le acquisizioni teoriche degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso furono importantissime per la storia linguistica della Sicilia, ma fondamentale fu anche l’aver dotato la ricerca di uno strumento come il VS di Piccitto, cui ora si aggiunge il prezioso materiale lessicale medievale, messo insieme dal collega Mario Pagano con la sua “Artesia”.

Si capisce quanto siano importanti le conquiste qui descritte solo se si pensa che ancora nel non lontano 1983 Alberto Varvaro poteva rilevare che «molta parte della storia linguistica della Sicilia [era] basata su affermazioni non dimostrate, che [godevano] prestigio perché [erano] state fatte da studiosi autorevoli».

Le acquisizioni teoriche nuove, dunque, e una più profonda conoscenza del lessico ci permettono di ridimensionare le rigide e quasi meccaniche applicazioni sostratistiche (per le quali a uno strato linguistico si sovrappone uno strato nuovo), così che non ha più senso parlare di scomparsa del greco a fronte del vincente latino o, al contrario, di persistenza del greco a fronte della debolezza del latino, ma, con più aderenza alla realtà storica, di contemporanea presenza di greco e latino, di latino ed arabo all’interno di una società plurilingue, quale era quella siciliana medievale.

Lo stesso latino, ora difeso a oltranza, ora ridotto a ben poca cosa, mostra la sua vitalità e persistenza non solo per le poche parole ritenute da Varvaro esclusive della Sicilia come bbafalucumafalucu e vavalucu ‘asfodelo’, dal lat. albūcum a fronte delle corrispondenti parole che fuori dalla Sicilia continuano il tipo albūcium, o come pricocu nel sic. ‘albicocca’, di contro all’it. merid. ‘pesca’, ma anche per le tante altre, ora documentate dal VS. Penso, ad esempio a tata (ormai desueto) per ‘papà’ o agli allotropi ura sost. accanto al più recente ora avv., aineḍḍu accanto ad agneḍḍu o a doppioni come sartàina e padeḍḍacainata e cugnatarricìpiri e rricìvirivizza e vèccia

Per non parlare di arcaismi linguistici e culturali come (bellidonni ‘spiriti della casa’ chiamati patruni dû locu in area ragusana e agrigentina, con un patruni che chiarisce il latino domina col significato etimologico di ‘padrona (di casa)’. O le kalendae latine, finanche nella forma rara kalandae, che sopravvivono nel sic. calenni e calanni con cui si indicavano ‘i dodici giorni che vanno da Santa Lucia a Natale’, dal cui andamento climatico i contadini traevano i pronostici per i mesi dell’anno veniente. 

E credo che sia stato proprio il latino di Sicilia a traghettare da quote indoeuropee fino a noi la locuzione ragusana bbinirittu, figghju miu, fin’ê setti rinòccia, dove quel ‘ginocchia’ per ‘generazione’, pone il siciliano accanto ad analoghe espressioni che si riscontrano nell’irlandese, nel sogdiano (un dialetto mediopersiano) oltre che in area semitica, ma la cui motivazione è possibile trovare nella cultura greca (Esiodo, Omero) e nel latino genuinus, in quanto derivato di genu ‘ginocchio’.

Sarebbe troppo lungo soffermarmi ad analizzare le dinamiche linguistiche, sociolinguistiche e interlinguistiche che dall’epoca normanna in poi hanno riguardato e riguardano ancora il siciliano. Mi limito perciò, a conclusione di questa lectio, ad accennare a uno solo dei tanti temi e problemi, che costituiscono accattivanti future ipotesi di lavoro. Mi riferisco al vocalismo siciliano, un argomento su cui sembrava che non ci fosse più nulla da dire e che invece può ancora riservare sorprese.

Premetto che anch’io con Franco Fanciullo sono convinto dell’ ascendenza greca del vocalismo siciliano (anche se di profondità maggiore di quella bizantina sostenuta da Fanciullo), ma ritengo che tale grecità riguardi più il vocalismo della Sicilia orientale che non quello delle parlate occidentali. Dico ciò, perché gli indizi di cui disponiamo sembrano sempre più corroborare l’ipotesi di una più marcata latinità occidentale a fronte della già nota grecità orientale.

In questo campo stiamo lavorando con Iride Valenti e, se la nostra ipotesi coglie nel segno, penso che dal bagliore di quel big bang di epoca normanna dal quale ebbe origine il siciliano moderno potrebbero emergere panorami nuovi, che renderebbero ragione di anomalie del vocalismo siciliano finora inspiegate, ma rilevabili in alcuni epifenomeni di area occidentale e in parte anche centrale.

La ricerca, dunque, continua. E continua nel caro ricordo di maestri come Giovanni Tropea e Giorgio Piccitto e con compagni di lavoro come Iride Valenti, valida docente di questo Dipartimento di Scienze umanistiche, con Salvatore Menza, Rita Abbamonte, Alfio Lanaia e Giuseppe Foti, tutti dottori di ricerca specializzati in diversi rami della linguistica, coi quali stiamo lavorando alla realizzazione dei vocabolari galloitalici della Sicilia, e, ultima solo in ordine di tempo, Angela Castiglione che, a conclusione del suo dottorato, mi affiancherà nei lavori del Nuovo Vocabolario Siciliano, ideato dal gruppo catanese di ricerca nel 2010 e sostenuto dal benemerito “Centro di Studi filologici e linguistici siciliani” di Palermo, che da più di mezzo secolo promuove e coordina la ricerca filologica e linguistica in Sicilia.

Qui giunti e nella speranza di non avere abusato troppo della vostra pazienza, desidero solo ringraziare quanti si sono fatti promotori di questo evento e tutti voi, colleghi, amici, studenti, che avete avuto la pazienza di ascoltarmi.



http://www.disum.unict.it/sites/default/files/files/Lettera%20d'invito%20per%20Lectio%20magistralis_colleghi%20DISUM.pdf





ph ©piero carbone
ph ©alfio lanaia
ph ©giuseppe trovato

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Da dove viene la cassata

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Una focaccia chiamata mpignulata
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