La fionda
Da una raccolta inedita
“Gli infedeli ci obiettano, facendosi gioco
della nostra semplicità, che noi offendiamo
e
oltraggiamo Dio quando affermiamo
che è disceso nel seno di una donna, che da
una donna è nato, che si è sviluppato nu-
trendosi di latte e di alimenti umani…”.
ANSELMO D’AOSTA, Perché un Dio uomo?
Gigliolo Perdichizzi di Filò sarebbe diventato don Gigliolo, un giorno, Padre Gigliolo; intanto, intercalava
gli studi di Morale con la sacra mania di pingere Madonne, specialmente di
sabato perché gli riuscivano meglio.
Sognava di diventare un prete
tranquillo, di preti agitati e comunisteggianti ce n’erano in giro! Per lui, la
santità non doveva fare scrùsciu; la
pubblicità provocata per atti d'eroismo era tutta superbia. Mettersi contro qualcuno gli dava noia. La calma era nella sua indole.
Era tra i pochi che nel cuore della notte, anche d’inverno, andava a
pregare nella buia cappella rischiarata da una vacillante fiammella. Lo facevano i mistici. Ci si preparava anche
così al sacerdozio.
Nell’attesa di quel lontano
traguardo, il seminarista Perdichizzi
scendeva quando era possibile in giardino a passeggiare, solo o in
compagnia; guardava il panorama, allungava lo sguardo sull’orizzonte e meditava;
pensava che rinunciava ad avere una famiglia propria ma ne acquistava
una più grande, l’umanità intera. Ogni
volta, la fluente chioma di un larice piangente, smossa con lento ritmo da un venticello leggero,
favoriva quelle meditazioni, finché non sopraggiungevano grappoli d’uccelli:
facevano tale gazzarra che Gigliolo, frastornato, fissava stizzito i rami
ricurvi, smetteva di passeggiare e saliva in cappella a recitare i vespri.
Quando il maltempo impediva la
passeggiata, rimaneva nella stanzetta, piccola ma con un’ampia finestra che lasciava
intravedere laggiù i palazzi in fuga verso la valle, i templi, la marina.
Nella sua camera, lo andavano a
trovare altri seminaristi, studenti di teologia, liceali e, nelle pause di
studio, i più piccoli che frequentavano le medie. Durante quelle visite
pomeridiane, chiudeva a chiave, “per non essere disturbati”, diceva al plurale, ma era proibito dal regolamento.
Aveva il dono di sapere ascoltare; si immedesimava nei casi altrui mentre
armeggiava con i pennelli, provava colori, esplorava schizzi. Ogni tanto
emetteva un nasale – uhm – d’assenso. I suoi consigli molto spesso erano
apprezzati. Per risolvere i problemi, aveva una teoria: rinviare le decisioni a
“dopo” perché col tempo le situazioni “maturano”. Molti ne uscivano rincuorati.
Una volta un piccolo seminarista
andò a confidargli che ogni sera il terribile prefetto di camerata dopo le
preghiere e la “buona notte” si avvicinava al suo letto e faceva scivolare la
mano sotto le coperte; un giorno, con
tremore, gli chiese perché lo facesse.
Gli fu risposto che lo scopo dell’ispezione era di constatare l’assopimento dei
sensi. Lo spirito non poteva innalzarsi
se il corpo concupiva. Il piccolo seminarista non capì, o forse capì, fatto sta
che non s’acquietò e corse dall’affabile
Gigliolo da cui sperava ottenere una più tranquillizzante ragione.
- Bisogna dare tempo alla
Provvidenza, - disse un po’ turbato Gigliolo.
– Vedrai che crescendo non ci sarà più bisogno di ispezioni.
Che poteva dire del prefetto?
Non si sa se il piccolo, turbato seminarista ne parlò con altri.
A Marco Inserra, però, diplomando
liceale, prossimo agli studi di teologia, non poté dare il suo placido
consiglio perché non era questione di tempo e la stessa Provvidenza avrebbe
trovato un terreno impervio: il vescovo, infatti, non voleva che il giovane
Inserra, dopo il diploma di maturità, andasse a Roma, a studiare, c’era il rischio,
parole di vescovo, di “perdere la fede” o sarebbe diventato “comunista”.
- E come l’hai saputo? – chiese
Gigliolo, mentre stemperava un po’ di blu su un pezzo di cartone.
- Me l’ha detto
il vescovo.
- Gli hai
parlato?
- Sì, su consiglio del rettore.
- Perché non gliel’ha chiesto lui
stesso?
- Per non insospettirlo.
- E tu cosa hai risposto al
vescovo?
- Che anche l’attuale padre spirituale
aveva studiato a Roma: non aveva perso la fede e non era diventato comunista.
- E il vescovo?
- Ha abbassato
la testa.
Era vero che il padre spirituale aveva
studiato a Roma, ma non era falso il timore del vescovo, gli ultimi seminaristi
che avevano studiato alla Gregoriana
erano diventati comunisti, una volta diventati sacerdoti, avevano
persino fondato un giornale dove scrivevano le loro “eresie filomarxiste” e il
vescovo li ha sospesi a divinis. Alcuni non hanno perso tempo a sposarsi. Una
rovina per la diocesi: bel guadagno ci aveva fatto, dopo quello che erano
costati per farli studiare a Roma. E per giunta, il malesempio.
La pericolosità di andare a
studiare alla Gregoriana esorbitava dalle competenze di Gigliolo, dal raggio
dei suoi consigli. Sapeva quello che sapevano tutti: chi andava a studiare in
quell’Istituto prestigioso era votato alla carriera, si studiava tanto Diritto
canonico e poi si diventava dottori in sacra teologia o nunzi apostolici,
insomma, vescovi, cardinali. Giungervi era motivo di prestigio non solo
personale. Se qualche studente perdeva la fede o diventava comunista, la colpa
era della città che distraeva, della vita mondana dei prelati, del marxismo
divenuto moda. Da Roma si ritornava alle diocesi di appartenenza o comunisti o
con i polsini della camicia inamidati.
- Anch’io ho studiato a Roma, - ammise
il vescovo, - ma erano altri tempi; mi hanno preservato la devozione alla
Madonna e la recita del rosario.
Inutili fino a quel momento erano state
le insistenze di Marco, i suoi ragionamenti, le sue promesse, e cioè che nella
capitale avrebbe recitato molti rosari, che avrebbe inteso la sua esperienza
romana come un servizio da rendere alla diocesi.
Niente! Un mulo. Il vescovo non cedeva.
Temeva tra l’altro che le radici racalesi venate d’eresia s’innervassero nel
giovane seminarista, originario di Racalò da parte di madre.
Quale consiglio poteva dare a Marco il
povero Gigliolo, in una partita così
grossa! Stese due pennellate nervose e mutò discorso. – Ti piace? – chiese
additando col pennello il quadro che stava dipingendo. Marco annuì, ma la testa
l’aveva a Roma. – Sai su chi ha fatto la tesi il nostro padre spirituale?
-
Su chi? – fece eco Gigliolo tutto preso dai suoi
colori. Il discorso per lui era chiuso.
-
Su
Feuerbach e la genesi del marxismo. Diceva che il nemico bisogna conoscerlo per
combatterlo. Eppure non è diventato comunista.
Gigliolo non rispose; lontano
dall’irritarsi, voleva cambiare suonata. Anche lui aveva a che fare col vescovo
e non voleva mettere a rischio
l’incarico di sostenere, nelle messe solenni in cattedrale, la mitria o il pastorale. Marco pensava ad altro e si rammaricava. Gigliolo era come assente,
trasvolato nei suoi vagheggiamenti: si mise a sfogliare un libro con ricche
illustrazioni di giullari e corti medievali. Accennò una melodia. Poi alzò gli
occhi e li diresse verso il cavalletto dove c’era, pressoché ultimato, un piccolo quadro raffigurante la Madonna col
Bambin Gesù.
L’espressione era serena: con il
braccio destro la madre reggeva il figlioletto
mentre con la mano sinistra premeva una morbida mammella per fare
schizzare meglio il capezzolo tra
l’indice e il medio. Le labbruzze del bambino erano impazienti di ricevere il
divino alimento.
- E’ mio, - disse Gigliolo,
alludendo al quadro. – L’ho fatto io.
Dopo un lungo silenzio di
contemplazione, - sai, - disse, congiungendo le mani come se volesse strozzare
qualcuno, - certe volte mi viene di afferrare quel seno bianco e di tirarlo
giù, lo stirerei fino a terra come pasta di fornai.
Marco, ormai distratto dal suo cruccio,
seguiva con gli occhi le evoluzioni manuali dell’amico artista.
Gigliolo fece atto di spiccare quel
seno seminudo dal quadretto ad olio, sottraendolo definitivamente alle labbruzze protuse del Bambin Gesù.
Benché l’accostamento risultasse un poco
irriverente, a Marco gli sovvennero le cipolle appese ai balconi del suo paese,
staccate dal grappolo, quando occorrono, con uno stratto. Guardò il quadretto e
gli sembrò sbilanciato da un lato.
Gigliolo continuava a gesticolare,
infine si mise a roteare con ambedue le mani un’invisibile fionda come se volesse
lanciare lontano quella morbida “cipolla” seguita con sguardi avidi di sapere dove si sarebbe
adagiata.
Sembravano
tutti e due incantati dalla loro stessa fantasia. Il rumore dietro la porta di
passi che nel corridoio si allontanavano
e scendevano per le scale fece ricordare di colpo a Marco e Gigliolo che era
l’ora della preghiera.
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