Oggi al Museo del disegno
Palermo, via Mogia 8
Presentazione del romanzo di Giuseppe Romano, Come una carezza
Edizioni Arianna
Con interventi di Piero Carbone, Salvo Ferlito, Nicola Romano
Di un romanzo se ne può parlare da diversi punti di vista, quello recentemente letto di Giuseppe Romano,
che si presenta oggi al Museo del Disegno, Come
una carezza (Edizioni Arianna), ne offre parecchi sul versante esistenziale
e sociologico, e altri relatori sicuramente li scandaglieranno, io invece sono
tentato di soffermarmi su un aspetto meno analitico, apparentemente meno introspettivo: il
paesaggio.
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La ragione è dovuta al ricordo di alcuni appunti sulla
campagna toscana confrontata con quella siciliana risalenti ad un
appunto domestico di giovedì 15 ottobre 1998.
L’input per rileggere quegli antichi appunti me lo ha dato
il riferimento al paesaggio con le sue descrizioni nel romanzo di Giuseppe Romano.
Nel Capitolo I, il paesaggio
amico, familiare, spensierato, vien fuori da cromatissime quanto veloci
pennellate:
“…con gregge da pascolare si dirigeva per colline e campi
verdi, inebriandosi di quei paesaggi. Le belle giornate di quel fine marzo gli
garantivano parecchie scorribande per i prati ancora verdi delle montagne; da
lì scorgeva gli aguzzi tetti delle case ed il campanile della chiesa…
Passo
dopo passo Antonio sentiva soltanto il crepitio delle suole consumate contro il
brecciolino. Quando prese le pecore da pascolare, non aveva altri pensieri per
la testa che godere di quella libertà, tra i campi sparsi di ginestre e gli
odori intensi della natura.”, pag. 21.
Nel Capitolo II, il
trasferimento della famiglia del protagonista, Antonio, da Bisacquino a
Castelnuovo in Val di Cecina, viene sancito dal paesaggio, non inerte contenitore
o spettatore ma compartecipe del destino dei migranti che lasciavano alle
spalle una situazione problematica e andavano incontro al sogno di una vita
migliore.
Il viaggio viene scandito in
due tempi che assumono il valore di una rappresentazione scenica: il paesaggio
che si lascia e il paesaggio che si trova.
Il paesaggio che si
lascia.
“Sedeva accanto al finestrino, quasi accucciato nel suo
sedile di antico vagone di terza classe,
dove attraverso i vetri sporchi ammirava per la prima volta l’azzurro del mare
e le onde increspate rincorrersi una dopo l’altra.
Il suo volto imberbe, dove
spuntavano occhi azzurri e profondi, nascondeva un forziere nel quale erano
nascosti segreti inconfessabili. Li avrebbe portati con sé, lontani da
Bisacquino, seppellendoli nel piano silenzioso amaro del dolore”. Pag. 29
Come un intermezzo.
“Quel treno procedeva veloce verso luoghi lontani e sconosciuti.
La notte
trascorsa su quel vagone, cigolante e rumoroso, acuiva nel silenzio respiri
profondi di viaggiatori stanchi…”.
Pag 29
“La Sicilia era alle spalle.
La strada ferrata serpeggiava
tra boschi e anonimi paesi, tra ponti e stazioni sonnecchianti.
La Toscana fino
a quel momento era soltanto una macchia marrone nelle cartine geografiche della
classe elementare.” Pag. 30
“Nei giorni a seguire, Antonio e la sua famiglia
cominciarono a prendere dimestichezza con il nuovo mondo: la nuova casa
condivisa con i parenti, facce nuove e scolpite nella loro secolare memoria,
case strette le une alle altre a formare un reticolo urbano ordinato, immutato
ed immutabile.
Quello non era Bisacquino, non assomigliava per nulla a
qualsiasi paese della Sicilia. La gente era sempre intenta a lavorare, andava
via di fretta ed amava riunirsi in associazioni politiche;
lì trascorrevano le
serate attorno ad un buon bicchiere di Chianti e a volte si scatenavano in
chiassose feste paesane. ” pag 31
“La vita a Castelnuovo Val di Cecina si trascinava monotona
fra la bottega del panettiere, i campi da coltivare e la fattoria. […]
La
nostalgia si era impossessata delle sue giornate e dei suoi pensieri,
permeandolo di malinconia. Così l’anno 1959 volgeva al termine e l’autunno
aveva ingiallito i rami di alti castagni, faggi, sugheri ed ebani.
Le piogge
abbondanti avevano riempito i letti dei fiumiciattoli vicni al borgo e la
temperatura gradualmente si era irrigita”. Pag. 31
Giovanni Papini:
La campagna che sento io, la campagna mia, è quella di Toscana, quella dove ho imparato a respirare e a
pensare; campagna nuda, povera, grigia, triste, chiusa, senza lussi, senza
sfoggi di tinte, senza odori e festoni pagani, ma così intima, così familiare,
così adatta alla sensibilità delicata, al pensiero dei solitari.
Campagna un po’
monacale e francescana, un po’ aspra, un po’ nera, ove senti lo
scheletro di sasso sotto la buccia erbosa, e i grandi monti bruni spopolati si
rizzano a un tratto, quasi a minaccia delle valli placide e fruttifere.
Campagna sentimentale della mia fanciullezza; campagna
eccitante e morale della mia gioventù, campagna toscana magra ed asciutta,
fatta di pietra serena e di pietra forte, di fiori onesti e popolani, di
cipressi risoluti, di quercioli e di pruni senza moine, quanto mi è più bella
delle campagne famose del sud, colle palme e gli aranci e i fichi d’India e la
bianca polvere e il furente sole d’estate” (Un
uomo finito).
Vitaliano Brancati
“Toscana: il paese, che scorre ai due lati del treno, sembra
conservato in un armadio: appassito dal tempo più che dalla stagione. […]
Campagne magre, al confronto di quelle siciliane. I miei amici e conterranei,
che sospirano amaramente al pensiero di vivere in paesi e cittadine, si
confortino pensando che quanto manca alle nostre città, al paragone di queste,
manca a queste campagne al paragone delle nostre.
I campi siciliani sono metropoli vegetali: e questi,
paesini. […] In quelle campagne, si vive una vita intensa.
Qui invece, in
questi campi, la vita vegetale esiste senza dubbio, ma al confronto di quella
che si svolge in Sicilia, è rada, impacciata, leggermente provinciale come,
nella sfera dei rapporti umani, la società dei paesini”.
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