domenica 26 agosto 2012

IL "POETA NOTAIO" DI RACALMUTO




                                                                                                                    

“Mio caro Peppino...la tua opera merita d’essere incoraggiata perché desta dal letargo molti poeti.”. Così Salvatore Di Pietro da Catania scriveva a Giuseppe Pedalino Di Rosa il 23 marzo 1950. E il palermitano Turi Ingrassia, quasi vent’anni prima, esattamente il 12 dicembre del 1931 così gli si rivolgeva: “Lu Maggiu di Maria a Te, caro Peppi, te lo giuro sulla vita dei miei figli: Ti consacra grande poeta di Sicilia nostra”.

Ora, viene da chiedersi, come mai un tal personaggio che svegliava dal letargo i coetanei non ha avuto lo stesso potere sui posteri che l’hanno quasi del tutto dimenticato? Il cinquantenario della sua morte è stata un’occasione propizia per cercare di tirarlo fuori da quello che Salvatore Di Marco definisce “l’archivio ignorato della dismemoria”. E’ meritorio che La Fondazione “Buttitta” di Palermo abbia ristampato di recente Lu cantastorii ‘n’America pubblicato per la prima volta a Milano nel 1929, per le Edizioni Siculorum Gymnasium.

L’iniziativa  che lega la Fondazione  Buttitta a Pedalino Di Rosa richiama il legame che c’è stato a suo tempo tra Pedalino Di Rosa e il poeta di Bagheria. “Cumpari beddu, - gli scriveva il giovane Ignazio Buttitta il 3 agosto  del 1931, - Vui putiti,  pinsari; ma pirchì nun m’ha scrittu ddu malacunnutta di me cumpari. La curpa nun è tutta mia; ora vi dicu: Vui sapiti ca c’è un cuncursu di puisia a Catania, un cuncursu mpurtanti fattu di lu giurnali lu  “Populu di Sicilia”. Iu pi l’amuri d’accumpariri, trattannusi ca c’è mpegnu forti di tutti li pueti, mi misi d’intenzioni e pi na dicina di jorna nun haiu manciatu. [...] Scrissi la - Cavalleria Rusticana – in versi libiri, ma nni lu me lavuru, di la “Cavalleria” di Verga, c’è sulu lu mutivu, lu restu è una creazioni diversa e tutta mia. Pi lu primu nummaru di – Aritusa – ti la fazzu pubblicari. [...] Tardai a mandarti la frutta -  ma ora sarò più attivo e non ti farò mancare niente. Tuttu chiddu chi voi tu dimmillu ed iu ti lu mannu cu tuttu lu cori! [...] To figliocciu, quantu è fattu beddu e grasso, nun ti lu pozzu diri. Ora comincia a ridirmi e a mittirimi l’occhi di supra, ca sunnu comu du occhi d’ancilu”. Il figlioccio, di battesimo, cui si fa riferimento è Pietro, secondogenito di Ignazio. “...mi ritrovai tra le braccia di un uomo a me tanto caro, Giuseppe Pedalino”, scriverà Pietro Buttitta nel 1951 rievocando la propria fanciullezza.

La corrispondenza con Ignazio Buttitta non è l’unica sorpresa che salta fuori dall’interessante epistolario: esso annovera i nomi di Armand Godoy, Pierre Vermeylen, Luigi Natoli, Alessio Di Giovanni, Vanni Pucci, Raimondo Lentini, Giuseppe Nicolosi Scandurra, Mario Grasso, Totò Camilleri, Ugo Ammannato, Peppino Denaro, Pietro Tamburello, Leonardo Sciascia, don Luigi Sturzo, il cardinale Montini, Giuseppe Saragat, etc.

         Ma chi era questo Pedalino Di Rosa che si firmava semplicemente Peppi Pedalino quando non usava gli pseudonimi Pizzo di Blasco o Emanuele Mendoza?
         Nato nel 1879 a Racalmuto, si è laureato in giurisprudenza all’università di Palermo nel 1903. Subito dopo si trasferì a Milano, dove esercitò prima la professione di avvocato e dopo quella di notaio. Fin dalla giovinezza appartenne al partito socialista, in Sicilia con Peppino Lauricella, a Milano con il gruppo di cui facevano parte, tra gli altri, Pietro Nenni ed Emilio Caldara.
         Partecipò alla prima guerra mondiale e fu, nel 1919, un sansepolcrista ovvero tra i fondatori dei fasci di combattimento, dai quali tuttavia si allontanò progressivamente fino ad essere “eliminato per diserzione” dal gruppo e dal partito. Durante il periodo dal 1943 al 1945, pur essendo sorvegliato speciale dall’OVRA, mantenne contatti con le formazioni partigiane, collaborando con noti esponenti della resistenza, tra cui i professori Bono e Ventimiglia Guarneri, l’avvocato Maria Caldara, con Paolo Gallo che era cugino di Salvatore Lauricella, il futuro presidente dell’assemblea regionale siciliana.
         Il vero interesse per Pedalino però non fu tanto la politica quanto la poesia, egli fu ponderato poeta e dinamico organizzatore culturale.

         Ha coadiuvato il De Simone nelle edizioni del “Siculorum gimnasyum”; fondato e diretto la rivista “Aretusa”; collaborato con la rivista di Filippo Fichera “Il Convivio”; è stato un rappresentante di primo piano dell’Associazione Nazionale Amici della Poesia Dialettale, che aveva sede a Milano nel Corso Monforte al numero civico 14; ha organizzato memorabili raduni di poeti; ha intrapreso rapporti culturali con poeti dialettali delle varie regioni italiane Con Vincenzo De Simone e Filippo Fichera ha  rappresentato indubbiamente un punto di riferimento per i poeti dialettali siciliani della diaspora ma anche per quelli che vivevano ed operavano in Sicilia .
Il Pedalino si è trovato al centro di un intreccio umano e letterario sviluppatosi  nel periodo fra le due guerre su cui la critica solo da poco ha incominciato ad indagare.

         Per quanto riguarda la propria attività letteraria, nella Strenna della poesia dialettale siciliana del 1937, da lui curata, ebbe a dichiarare: “Scrissi rime d’occasione e pubblicai 5 o 6 volumetti. Superfluo stampare il resto perché l’edito rappresenta una fetta qualsiasi della torta inedita”. Venendo meno al proposito, dopo quella data stampò altri libri, non solo poetici e non solo in dialetto,  molti lavori però restano ancora inediti. Tradusse anche dal francese. Tra i tanti titoli si vogliono ricordare Li lochi santi di lu me paisiFrà Decu La Matina,  Squarcialupo, Re Còcalo  dramma in lingua italiana, indicativi delle principali direttrici della sua poetica: quella nostalgico-religiosa e quella storico-filosofica. Recensendo Lu cantastorii ‘n’America sul periodico di poesia dialettale  “Convivio letterario” del settembre-dicembre 1951, Filippo Maria Pugliese scrive: “Egli è storico della sua terra; filosofo dell’Infinito leopardiano. Cantastorie, sì; ma assai lontano dal suo popolo siciliano; cantastorie passionato della più grande nostalgia della sua terra”.

Da un giudizio che taluno può ritenere eccessivo si trapassa  a un pluridecennale oblio che costituisce in fondo un  eccessivo giudizio negativo o tutt’al più un “non giudizio”, da non giustificare in ogni caso nei posteri la smemoratezza e nei concittadini una polverosa ingratitudine.

Al di là dell’essere concittadini, il valore di un’esperienza poetica o letteraria, non dovrebbe essere apprezzato commisurandolo al successo o al tornaconto, ma in sé, perché arricchisce lo spirito e rende meno vacua l’esperienza umana, con una indubbia ricaduta positiva nelle relazioni interpersonali.

                                                                                          Piero Carbone




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