martedì 30 aprile 2013

AMMAZZA, CHE VIOLENZA (ESPRESSIVA)!




Una voce a distesa, quella del diretto interessato 
o di altri per lui, si staccava dal discorde sottofondo musicale all'indirizzo di un ostinato balcone chiuso:


         Quantu t'accattavu, ti vinnivu, 
                  né ci persi e mancu ci guadagnavu. 

   E ora ca finieru tutti cosi,
                 la porta è aperta e cu' ci trasi trasi.

Poi c'erano i ripensamenti:

Affaccia, bedda, di lu purtidduzzu 
ca ti dugnu la littra cu lu lazzu

lei che, facendo finta, s'infastidiva:

Chi havi stu sciccazzu ca mi raglia, 
havi la corda longa e si 'mpiduglia

e lui che irriducibilmente tornava all'attacco a protestare purezza di se timenti:

Vicenza mi prumisi quattru trunza 
nni l'urticieddu so quannu accumencia.
Nun vuogliu né cavuli né trunza, 
vuogliu na vasatedda di Vicenza.

Dai toni elegiaci, però, non si esitava a passare, con netta scansion a toni e a intenzioni più bellicose. Alcune piccole strofe, esplosive, sbalordiscono ancora oggi per la solforosa, lavica escandescenza: da rimanere, per dire l'effetto emotivo che esse possono provocare, 'ncitratidi ghiaccio. In tal caso le canzoni diventavano micidiali nel senso che facevano sempre succedere qualcosa.

Quando venne eseguito il canto che sotto si riporta, ad esempio, ne seguì una scaramuccia, pistole alle mani: il padre e i fratelli di lei accerchiarono i suonatori e li minacciarono se non la smettevano di 'ncuitaridi importunare la figlia e sorella. L'energia e la prontezza di spirito dell'innamorato «ferito» fecero sfumare onorevolmente il contrasto. 
Le passioni oltre a conferire amabilità e irruenza sembra sollecitino l'ingegno. Il fatto avvenne una fosca sera d'inverno di tanti anni fa, al Piano di San pasquale:

Quannu t'amava ti tiniva 'n-vrazza 
e ora mi sierbi pi pupa di pezza. 
Di lu to sangu nni vippi na tazza, 
cu' arriva ora si vivi la fezza.

Si comu li cannola di la chiazza, 
cu' arriva prima la quartara appuzza. 
E ti schifìu a tia e a tutta la razza, 
e di li piedi 'nsinu a la to trizza.

Ci avèratu a pinsari dda iurnata 
quann'era chiara la funtana mia. 
Ora è tutta lorda e 'ntribbulàta, 
ci vippi una cchiù meglia di tia.

Gli è che per la loro violenza espressiva, alcuni canti — non risparmiavano nessuno — non avevano da invidiare nulla ad Archiloco, l'inventc del canto popolare secondo Nietzsche. La tematica è sempre quella:

Ddu crastu di to pà ca era sbagliatu 
diciva m'avera a mìntiri ammunitu. 
Quant'ha ca un passu di cca m'ha' disiàtu, 
nun passa assa' e ti priparu lu tabutu.

Intrecciati a melodie lineari e orientaleggianti, non solo le classiche e lave, ma anche una singola quartina o un lapidario distico compendiava: una fortunosa o felice esperienza e costituivano un canto autonomo concluso. 
Nelle serenate: quando si usciva d'attùrnu«in notturna»; o sul posto di lavoro: all'àntu (in campagna); nei budelli semirischiarati delle miniere; sul carretto nelle notti senza luna; o nelle taverne durante gli schiticchi con gli amici (Schitìcchiu«sollazzevole cibarsi in più persone di buon umore, con bibita — leggi: vino — sia di giorno, sia di sera, o in citta. in villa, o per rata, o a spesa di un solo»); nelle feste e ricorrenze gioio; parole e melodie venivano replicate, macerate, fino all'assillo, fino alla decantazione e alla catarsi:

E mi nn'a iri di stu paisazzu,
cu li 'nfami e li sbirri 'un ci la puozzu.

Cumuli 'un ci nni vannu 'n-paradisu, 
san Pietru l'assicuta cu lu nasu.

Ch'è ladiu l'amuri a lassa e piglia, 
comu lu fierru 'mpintu a la tinaglia.

Ti salutu e mi nni vaiu, Cruci, 
dumani nni vidiemmu a la Matrici.


I POST DEL MESE. Aprile 2013



    sabato 27 aprile 2013

    SE LE CANTAVANO IN RIMA


    NON SOLO RAGGIA


    Col pugno chiuso della mano destra colpivamo a martello, e ripetutamente, il palmo aperto della mano sinistra e in coro, con complice sintonia, cantilenavamo dispettosamente: Raggia! Raggia! Raggia!


    Il malcapitato destinatario, che aveva perso al gioco, che non era riuscito in qualche impresa o semplicemente non aveva sortito un qualche scopo da altri invece conseguito, si cuoceva dalla rabbia e a seconda del carattere sbottava in pianto o reagiva in qualche modo, ma la crudele condanna raggiungeva egualmente il suo scopo: fare cuocere nella rabbia la vittima di turno. 

    Per il gruppo era una palestra di socialità. Per i singoli una prova per temprare il carattere. Ma le intenzioni non erano sempre "cattive",  si ricorreva a questa parola anche per innocente scherzo, semplicemente per ridere, ma il significato evocato dalla raggia, comunque, era sempre lo stesso: rabbia per un desiderio inappagato o per un dispetto subito.


    Alla parola raggia e al suo significato non ricorrevano solo i ragazzi ma anche gli adulti e allora le esternazioni erano micidiali, sebbene supportate dalle rime e dal canto. 
     




    Il canto (popolare) ad esempio era per gli antichi occasione felice per esprimere eloquentemente la raggia che subivano o quella che auguravano agli altri, tutto ciò insomma che urgeva dentro: idillio o rabbia, tenerezza o disprezzo nelle forme e nelle modulazioni più svariate.

    I canti rifrangevano, come il prisma la luce, l'unica realtà nelle sue parti costitutive: lavoro, sudore, gelosia, amore....

    C'erano i canti dei contadini, degli zolfatai, dei carcerati, degli innamorati, dei delusi, degli irritati, etc.

    Una vera filosofia o fenomenologia del canto è espressa dal seguente proverbio:

    Cu' havi dinari assai sempri cunta 
    e cu' la muglieri bedda sempri canta.

    Chi ha molti denari sempre li conta
    e chi la mogliera bella sempre canta.




    Ai sospirosi e/o velenosi canti dei primi, che camuffavano l'invidia e istraevano col canto il pungente desiderio di una donna, che non potevano avere o che avevano brutta, facevano da controcanto le allegre melodie e le giocose rime dei più fortunati che inneggiavano alla bellezza muliebre e alle gioie dell'amore.


    Se questi ultimi cantavano:


    Affaccia, bedda, di cantu di cantu, 
    darrieri la to porta sugnu iuntu

    Affaccia, bella,  con fare convinto,
    dietro la tua porta sono giunto.
    "


    gli altri, malaugurando ai più fortunati un esito negativo del loro corteggiamento, così si sfogavano:

    Ammàtula t'allisci e fa' cannola, 
    lu santu è di marmaru e nun suda.

    Invano ti intoletti e imboccoli i capelli
    il santo, di marmo, non s'incanta di nulla. 



    Oppure inveivano contro l'uva ancora acerba:

    Tu chi mi dasti e iu chi ti detti, 
    tu mi tincisti e iu t'annuvricàvu.

    Tu che mi desti e io che ti diedi
    mi impolverasti, tu,  e io ti annerii.


    TUTTO ATTRAVERSO IL CANTO

    Col canto, insomma, i più sfortunati smaltivano l'agrume di ogni residuo desiderio insoddisfatto. O così pareva. Di fatto, restavano semplicemente, insaziabilmente inappagati. Motivo per desiderare di più, con più icuto senso del piacere. E solo questo restava loro, un forte desiderio inappagato, e furioso: restava l'allammìcu, voce araba anche questa, ma nel senso tutto racamultese di struggersi nel desiderio (lo fanno i bambini dietro le vetrine di inarrivabili negozi). Chi vi si struggeva, nel desiderio di una donna ambita, dava adito a questa strofa di raggia:
    Li luonghi si cuoglinu li ficu 
    e a li curti ci tocca l'allammicu

    Gli alti raccolgono  i fichi
    ai bassi non tocca se non il desiderio. 



    e ad altre strofe ancora e ad altre cattiverie, allusive o esplicite, in proverbio o veicolate da piacevoli canzoni.

    Si duellava con strofe e controstrofe, nel gioco amoroso e nelle fasi de corteggiamento, con accesa fantasia:

    Si ti vuo' arricampàri, t'arricampi,
    si nun ti vuo' arricampàri a cu' la cunti.

    Si muori e ti nni va' a lu campusantu 
    ti viegnu appriessu pi divirtimientu.

    Se vuoi rientrare, rientri
    se non vuoi rientrare a chi la conti.

    Se muori e vai al camposanto,
    ti vengo dietro per divertimento.



    Ovvia, nel risentimento, la risposta.

    Immaginiamola lanciata in una serenata (in vernacolo: attùrnu), magari con accompagnamento di due o tre musici alle prese con strumenti musicali casalinghi tra cui una buzzìca (era formata dalla vescica ripulita ed essiccata di tacchino o di maiale in cui si introduceva una cannuccia o uno stelo di grano con imboccatura ad ancia: il suono si produceva, una volta gonfiata la vescica, con la compressione dell'aria e il passaggio di questa attraverso l'ancia; era un suono lamentose e monocorde: da oboe sfiatato) e la caccamella (strumento molto usato a Napoli, formato da un cilindro che fungeva da cassa di risonanza e da una canna che si armeggiava a mo' di stantuffo: serviva per dare il ritmo agli altri suonatori; il cilindro, ricavato anche da una latta di sarde salate svuo­tata, veniva chiuso ai lati da pelle di animale e doveva essere immerso co­stantemente nell'acqua); altri strumenti erano l'immancabile mariarrùni e uno sdentato organetto. 


    Se i genitori della ragazza ritenevano un buon partito il pretendente canterino o lasciavano correre girandosi nel letto dall'altra parte e facendo finta di non sentire oppure, per ostentare nei confronti dei vicini virtuose ritrosie, lasciavano volare vacili (bacinelle) d'acqua limpidissima o lu rinali (il vaso da notte) appena appena utilizzato.


    Mi raccontano i più anziani che nella strada attigua dove abitavo con la mia famiglia da piccolo partì da una finestra un inequivocabile colpo di fucile. Che a niente valse, però, e non fermò il focoso amante che organizzò sotto il naso del balistico genitore una classica fuitìna (una fuga amorosa con intenti matrimoniali.)


    Precisazione.

    La traduzione, per chi non intende il siciliano, ha un valore semplicemente indicativo, tanto per farsi un'idea, come se leggessimo una traduzione dal cinese: non bisogna rincorrere la peculiarità dei suoni traducendo da una lingua in un'altra.






    giovedì 25 aprile 2013

    "AMAMI, ALFREDO" O TI SPARO









    Nelle feste religiose non possono mancare i fuochi d'artificio e la banda musicale; in quelle importanti di bande musicali, dette semplicemente "musiche", se ne "chiamano" due, facendole venire anche da paesi lontani, anzi, più è lontano il paese di provenienza tanto più prestigiosa è ritenuta la "musica".

     

    Della festa alcuni aspettano soltanto la musica "a palco", si portano le sedia da casa o all'impiedi e si piazzano per tutto il tempo a inebriarsi di note, di arie, canticchiando, assecondando gli assolo, gli andanti, muovendo la testa, tamburellando con le mani, girandosi a destra e a manca per chiedere riscontro  con le ciglia inarcate e la testa obliqua a chi gli sta vicino. Ma la troppa passione può sfociare in altro.


    Immaginiamo un dialogo tra due amanti della musica, sostenitori di due bande diverse, di due repertori diversi. Ma c'è poco da immaginare perché quello che è successo a Montedoro nei primi del Novecento sembra surreale, e chissà come sarà stato interpretato dalle signore londinesi a cui il racconto era destinato.

     

    Materia del contendere: il diverso programma musicale delle due bande che suonavano a palco, e possiamo immaginare, questo sì, che nel sostenere la superiorità della verdiana aria "Amami, Alfredo"  all'altra belliniana "Casta diva", qualcuno abbia veramente perso la testa e non ci abbia visto più dagli occhi. 

    Che per la musica si arrivi a tanto, durante una festa religiosa per giunta, sembra la negazione sia della musica che dovrebbe ricreare l'animo sia della festa religiosa che dovrebbe innalzare gli spiriti. 

    E purtroppo non soltanto con la musica e la religione avviene di negare una cosa per il troppo presunto amore nel sostenerla.





    Dal libro Vicende e costumi siciliani, pubblicato da Louse Hamilton Caico a Londra, in inglese, nel 1910 e tradotto e pubblicato in Italia soltnto nel 1982. Capitolo "La festa di San Giuseppe".

    Dopo il primo pezzo, chiesta ed ottenuta l'autorizzazione del sindaco, si diede il via al grandioso gioco pirotecnico preparato su di una intelaiatura di legno appositamente costruita all'inizio della discesa, proprio dinanzi alla chiesa.

    Durò a lungo, silenziosamente ammirato e apprezzato dalla folla che ora sciamava nella piazza, mentre le due bande si alterna­vano nell'esecuzione di allegre musichette, le improvvisate banca­relle continuavano a fare affari, le lanterne oscillavano rivelando le forme graziosissime delle rudimentali bilance e, nell'ombra, scintillavano gli occhi vivaci e i denti abbaglianti nei visi da arabi dei miei compaesani.



    Spentosi in ciclo l'ultimo razzo colorato, il concerto ebbe inizio. Non c'era neanche un valzer nel programma e manifestai la mia delusione; si andò subito a cercare il "procuratore" che venne spedito dal capobanda per richiederne uno da parte mia. Il mio desiderio venne subito esaudito e mentre la banda lo ese­guiva - devo dire alla perfezione - echeggiarono degli spari e vidi la folla fuggire in tutte le direzioni.

    Il Sindaco, che nei piccoli paesi è anche capo delle guardie, si precipitò fuori dal casino seguito da suoi cugini, gli altri uomini di casa ci spinsero dentro chiudendo le grandi porte-finestre, per paura - dissero - che una pallottola potesse raggiungerci, in piaz­za le donne e i bambini si dispersero urlando, e la banda sospese il suo pezzo. Ero eccitata e curiosa anche se capivo che qualcosa di brutto era accaduta. 

    A poco a poco cessarono le grida e la con­fusione, e un uomo, qualcuno che abitava in un paese vicino, arrivò trafelato a portarci il resoconto dell'accaduto. Due "fo­restieri", di Serradifalco, un paese vicino, nella foga della loro lite a proposito delle due bande e dei due programmi di musica, avevano estratte le rivoltelle e fatto fuoco, per fortuna senza fe­rirsi. Il sindaco li aveva già consegnati tutti e due ai carabinieri perché li arrestassero e ora si dirigeva verso di noi, perfettamente calmo e controllato.
    Riportammo fuori le sedie, la folla dispersa riappariva, dapprima timidamente, dagli angoli delle strade checonfluivano in piazza e poi, sempre più disinvolta, ricominciò ad affluire in piazza, i musicanti che nel frattempo erano rimasti pazientemente a sedere aspettando che il piccolo contrattempo fosse risolto, attaccarono un pezzo brillante e un'armoniosa atmsfera di festa riebbe il sopravvento.




    Finito il concerto, il capobanda di Canicattì, a cui tanto piaceva chiacchierare, tornò a farci visita, e, fra i complimenti tutti, restò con noi fin dopo mezzanotte.

    Ora la grande piazza bianca, fino a poco prima cosi affollata e rumorosa, si apriva ai miei occhi deserta e silenziosa nella luce dolce di una notte piena di stelle; di nuovo tutto era pace e quiete, e, a dirvi la verità, non mi dispiaceva affatto che la festa di San Giuseppe fosse finita.



    Foto di Loise Hamilton Caico.

    http://archivioepensamenti.blogspot.it/2013/01/non-scappo-dalla-sicilia.html

    martedì 23 aprile 2013

    CIAO SICILIA! CIAO BERNA! Ambasciatori di sicilianità



    C'è un'enclave ideale di siciliani, di emigranti o figli di emigranti,  che misura  ricchezza e affermazione non dai tesori accumulati ma dalla lingua che ha acquisito.


    Attraverso la lingua, questi siciliani disseminati nel mondo, si integrano così bene nel paese che li ospita che non avrebbero di che rimpiangere quello che hanno lasciato.
    Invece avviene l'impensabile: non voltano le spalle alla terra che in qualche modo li ha costretti ad andare via ma della cultura originaria si fanno ambasciatori, attivi propugnatori, traduttori. Ce ne sono in America e in Europa: Gaetano Cipolla e Saro Marretta sono due esempi eloquenti. In questo post parlo del secondo.



    Saro Marretta è nato a Ribera, in provincia di Agrigento. Laurea in lingue e abilitazione all'insegnamento nelle scuole superiori all'Università di Berna, dove vive. Scrive in tedesco, ma non per allontanarsi  dalla lingua dei padri, anzi, ai tedescofoni si prefigge di far conoscere l'estro e la cultura dei conterranei traducendoli in tedesco. E in uno scambio ideale paritario delle culture traduce gli autori svizzeri in italiano. 


    Riconoscimenti e attività:

    Premio nazionale Carlo Goldoni (Venezia 1973) e Valente Faustini a Piacenza (due volte medaglia d'oro, 1977 e 1978), Primo premio "Agrigentini in thè world" (2004). 

    Oliven wachsen nicht im Norden, Benteli, Berna (1970), Piccoli italiani in Svizzera, Francke, Bern (3. edizione 1968), Agli (liriche in 4 lingue), Erpf, Bern (4. edizione in CD 1982), Das Spaghettibuch con disegni di Scapa, Benteli, Berna (7. edizione 1998) e nell'edizione tascabile Goldmann, Monaco di Baviera. Le sue gialle brevi dal titolo Pronto, Commissario? volume 1 e 2 - Bonacci, Roma e Klett, Stoccarda (3. edizione 2002), Elementare, commissario (ibd. 2. edizione 2002) vengono lette (vedi anche in Internet) in più di 20 Paesi, tra cui Russia, Giappone, Australia, USA, Brasile etc. Scrive anche con lo pseudonimo di "Saraccio"


    Anni fa ha organizzato un tour  culturale bilingue in Sicilia al quale ho avuto l'onore di essere coinvolto.

    Altri autori coinvolti e tradotti; siciliani della provincia di Agrigento: Lillo Firetto (Ribera), Giuseppe Andrea Randazzo (Santa Margherita Belice), Rosa Vacante (Calamonaci); svizzeri: Kathrin Flury, Daniel Himmelberger, Els Jegen, Jürg Kilcherr, Bruno Adrian Lüscher,  Rolf Mäder, Luisa Marretta - Schär, Saro Marretta, Lotti Ulmann, Erika von Gunten, 






    Ti so della mia terra

    A Leonardo Sciascia
    che ha amato i luoghi che amo.


    Ti so
    della mia terra,
    voce che non si spegne
    e voce di zolfara,
    voce d'antichi mali
    sei stato, voce amica
    del paese, crestato
    di colline, castelli
    diroccati...
    e cuori in pena
    di sconfitti lontani,
    sradicati emigranti
    o a Mons o a Milano.

    Lacerasti secoli d'abusi, 
    strappasti tele d'infamie assodate,
    esaltando tenaci concetti 
    di chi soccombeva.

    Ci serva almeno a monito
    la Ragione additata: 
    che la storia è viscida 
    ed è come anguilla. 
    Va presa all'asciutto.


    Du gehörst zu meinem Land

    Für Leonardo Sciascia, 
    der die Or te liebte die ich liebe

    Du gehörst
    zu meinem Land,
    Stimme die nie verstummt,
    Stimme der Schwefelbergwerke,
    Stimme alter Übel,
    Stimmme des Freundes
    meines Landes, dessen
    Hügel und zerfallender
    Burgen...
    Stimme der Herzen im Leid,
    der fernen Unterlegenen,
    der entwurzelten Emigranten
    zwischen Mons und Mailand.

    Du zerfetztest jahrhundertalte
    Missbräuche, zerrissest
    Knäuel versteinerter Bosheit,
    ehrtest hartnàckige Gedanken
    jener, die sich opferten.

    Möge uns allzeit
    die Vernunft ermahnen
    dass die Geschichte glitschig
    und glatt wie ein Aalfìsch ist.
    Nur trocken tàsst er sich fangen.











    Testi da Ciao Sicilia! Ciao Berna!, Massimo Lombardo editore, Agrigento 2004
    Si riproducono i testi originali scannerizzati per sopperire alle imprecisioni ortografiche.
    La poesia "Ti so della mia terra" è stata pubblicata precedentemente su Sicilia che brucia, editore Grifo, Palermo 1990.






    domenica 21 aprile 2013

    MAREDOLCE: UN SOGNO


    C'era una volta...




    Per fortuna c'è ancora.



    Ma per qualche secolo era sparito: adibito a stalle, ricoperto dentro e fuori da costruzioni cosiddette abusive per la legge, purtroppo archtitettonicamente invasive e sfiguranti.



    Dell'antica reggia non era rimasto nulla: mosaici, laghetto, isolotto, cigni, anatre, e pesci d'acqua dolce che scrosciava dal Monte Grifone...

    Era stato sollazzo, mille anni fa, salubre sito, luogo ameno, gineceo esclusivo, popolato da vergini mulatte, eunuchi fidati, proni servitori, dignitari... arabi, normanni, insomma saracini e cristiani, e fors'ancora da chissà chi.
    Poi il declino, l'occultamento, il dileggio.

    A testimonianza di tanto fasto decaduto sopravviveva soltanto un nome ingiurioso: Castellaccio. C'era nelle guide, lo descrivevano i visitatori nei loro tours, lo evocavano gli studiosi, ma i palermitani fino a vent'anni fa lo ignoravano. Solo fino a vent'anni fa? 




    Non sapendo quello che si sono persi e continuano a perdersi. 
    Eppure il castello o reggia di Maredolce aspira ad essere un altro "Spasimo", una novella Zisa, il biglietto da visita della città per  chi fa ingresso a Palermo dall'autostrada Palermo-Messina.


    Poi un architetto se n'è innamorato e vi ha dedicato amore e studi e a quanto pare dedicato dei versi, con il rammarico nel tempo di non averlo trovato. Anche Ibn Hamdis, mille anni fa, dall'esilio, vi aveva dedicato dei versi, per averlo perso.




    Anche una scuola, intitolata al poeta che ha scritto: "Contro di te alzano un muro in silenzio",   è all'origine della riscoperta, della valorizzazione. 


    "...alzano un muro 
     in silenzio, pietra e calce e odio,  
    ogni giorno". 


    Non sappiamo se odio o indifferenza, ogni giorno, per secoli. 
    Oggi per fortuna è un'altra storia: altre scuole, la sovrintendenza, sensibili associazioni, vi dedicano attenzioni e cure, vi organizzano convegni e incontri, lo valorizzano, per far sì che cada il muro di silenzio e si  schiuda quello che in origine è stato: un sogno.









    Simbolicamente quest'anno il comune l'ha prescelto per inaugurare il progetto "Palermo apre le porte: la scuola adotta un monumento, la scuola adotta la città". 















    Il commento in italiano, in inglese e in arabo, da parte di un gruppo di visitatori del Kuwait, per gli alunni "ciceroni" dell'I.C.S. Quasimodo-Oberdan di Palermo che hanno esposto le notizie sul Castello di Maredolce in inglese, in occasione di "Palermo apre le porte" - 19-21 aprile 2013. Bravi, ragazzi!




    La puntata n. 19 del programma televisivo "La casa di Fenfer" dedica 6 minuti (dal minuto 48:37 al minuto 54:37)  al "Castello di Maredolce" in preparazione allla manifestazione "Palermo pare le porte. Palermo adotta la città", con interviste ai ragazzi dell'Istituto Comprensivo Statale "Quasimodo-Oberdan" e del Liceo Scientifico "Basile" di Palermo. 
    Il link: