- ▼ settembre (24)
- IL DIALETTO PER DILETTO
- LE PUTÌE DI VINO (E LE PAROLE SPENTE)
- LA POESIA SALVERÀ IL MONDO. FORSE.
- CHE FONDAZIONE SIA!
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- E PARI CA BABBÌA
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- IL SOGNO DI PADRE PUMA
- RECENSIONE IN FORMA DI LETTERA INDIRIZZATA A GIORG...
- GIALLO A RACALMUTO
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Blog di Piero Carbone (da Racalmuto, vive a Palermo). Parole e immagini in "fricassea". Con qualche link. Sicilincónie. Sicilinconìe. Passeggiate tra le stelle. Letture tematiche, tramite i tags. Materiali propri, ©piero carbone, o di amici ospiti indicati di volta in volta. Non è una testata giornalistica. Regola: se si riportano materiali del blog, citare sempre la fonte con relativo link. Contatti: a.pensamenti@virgilio.it Commenti (non anonimi). Grazie
domenica 30 settembre 2012
sabato 29 settembre 2012
IL DIALETTO PER DILETTO
Il Dialetto per Legge
Il dialetto siciliano, in quanto dialetto, dopo l’Unità
d’Italia non ha avuto vita facile. Allo scopo di valorizzarlo la regione
Sicilia con Legge Regionale del 31
maggio 2011, n.9 ha varato alcune “Norme sulla promozione, valorizzazione ed
insegnamento della storia, della letteratura e del patrimonio linguistico
siciliano nelle scuole”.
Speriamo che anche questa volta non finisca come nel 2000
quando fu previsto l’insegnamento del dialetto nelle scuole, ma il finanziamento non andò oltre il secondo
anno e tutto finì lì.
Anche la scuola dove insegnavo ha aderito al progetto
regionale. Il preside Pierfranco Rizzo mi chiese di scrivere un intervento per
“Scuola e Cultura Antimafia” che ripropongo come testimonianza di un antico
entusiasmo:
Passione a colpi di
sedia!
Sostenere le proprie ragioni a colpi di sedia, sulle
teste altrui, a seguito di questioni filologiche, anzi, fonetico-ortografiche,
può sembrare esagerazione, ma gli appassionati studiosi siciliani
dell’Ottocento, per amore del dialetto, affrontavano connonchalance simili
eventualità.
Nel 1870, si doveva scrivere Xiuri o Sciuri?
Xiacca o Ssciacca? O Ciuri e Ciacca? Questo era il problema.
Fior di studiosi sostennero appassionatamente or l’una
or l’altra risoluzione senza addivenire per la verità ad un risultato
pacificamente condiviso. Non che il dilemma sia stato risolto, a distanza di un
secolo, anzi, si è aggravato, quando dai fatti concernenti l’ortografia si è
passati alle stesse parole da scrivere e da pronunciare. Basti pensare
all’infinita varietà del pronome più egoisticamente pronunciato: ìu,
iù, eu, ia, iè, iò, i...
Varianti
Altri esempi: a Casteltermini il coltello si
dice cutìddu, a Canicattì l’uovo si dice uèvu, a
Nicosia le dita si dicono didi. In uno stesso paese i buoi si
possono chiamare vo oppure vua. Il grembiule
cambia nome di pari passo ai piatti tipici preparati in varie parti della
Sicilia da chi l’indossa: fallaru, fasdali, fadali...
Dal lessico alla sintassi: ad Alì si dice ai ragiuni mi ti lagniper "hai ragione di lagnarti", a Frassanò dicci mi trasi per "digli di entrare", a Roccella Valdemone dàtimi mi bbìu per "datemi da bere" e a Milazzo mi a vitti spugghiàri si curca per "la vidi spogliare per coricarsi". Un poeta di San Fratello può scrivere: Cam na zzita chi ghj passea / u schient di la prima vauta / s’abbanauna e si dèscia aner, /Accuscì, suparari li ndecisiuoi, / misg a nu i miei pinsier... (Come una sposa cui è passato / il timore della prima volta / s’abbandona e si lascia andare, / così, superate le titubanze, / ho messo a nudo le mie preoccupazioni...
Dal lessico alla sintassi: ad Alì si dice ai ragiuni mi ti lagniper "hai ragione di lagnarti", a Frassanò dicci mi trasi per "digli di entrare", a Roccella Valdemone dàtimi mi bbìu per "datemi da bere" e a Milazzo mi a vitti spugghiàri si curca per "la vidi spogliare per coricarsi". Un poeta di San Fratello può scrivere: Cam na zzita chi ghj passea / u schient di la prima vauta / s’abbanauna e si dèscia aner, /Accuscì, suparari li ndecisiuoi, / misg a nu i miei pinsier... (Come una sposa cui è passato / il timore della prima volta / s’abbandona e si lascia andare, / così, superate le titubanze, / ho messo a nudo le mie preoccupazioni...
E la trottola? Furrìa con un nome nel
palermitano e firría sotto altro nome nell’agrigentino.
L’Università di Palermo vi ha dedicato uno studio.
Dal caos alla
grammatica
Non si pensi che a questo caos i grammatici e gli
studiosi non abbiano tentato di mettere ordine, l’hanno fatto scrivendo
grammatiche, caldeggiando ortografie anche bizzarre, ipotizzando koiné,
soprattutto ad uso dei poeti, i veri e pressoché unici artefici a quanto pare
del dialetto siciliano scritto; ma proprio loro non ne hanno mai voluto sapere
di seguire regole e regolette ritenendole un attentato alla libera creatività:
ognuno ha scritto e scrive come gli pare e piace.
La difformità tra l’italianizzante Giovanni Meli e Alessio Di Giovanni fonografista, Santo Calì di Schisò e Ignazio Buttitta di Bagheria, per non parlare dei galloitalici, suona come chiara smentita contro coloro che vorrebbero conferire al siciliano status e spessore di lingua, aeterna quaestio che volentieri tralasciamo: teniamo alla nostra incolumità.
La difformità tra l’italianizzante Giovanni Meli e Alessio Di Giovanni fonografista, Santo Calì di Schisò e Ignazio Buttitta di Bagheria, per non parlare dei galloitalici, suona come chiara smentita contro coloro che vorrebbero conferire al siciliano status e spessore di lingua, aeterna quaestio che volentieri tralasciamo: teniamo alla nostra incolumità.
Unica tassa e unica lingua
Per fortuna, o per sfortuna: da un punto strettamente
linguistico, si capisce, è intervenuta l’unità d’Italia, che ha unificato oltre
che le tasse e il servizio di leva anche i vari dialetti nel senso che li ha
saltati a piè pari, relegando in secondo piano le accalorate questioni
dialettali. Si è avuto così un popolo di italofoni che scriveva in italiano e
parlava, abusivamente, in dialetto. Nei Seminari, i clerici venivano puniti
con l’accipe se incocciati a pronunciare frasi o semplici
interiezioni paesane, cioè dialettali; nelle scuole il dialetto era unicamente
elemento "inquinante", spia di degradata origine sociale, di rozzezza
e maleducazione, non solo linguistica: da segnare con la matita blu nei
distillatissimi temi.
La lingua del potere
L’italiano era la lingua del potere. Per la borghesia
era segno di distinzione o schermo per non far trapelare "meccaniche"
origini. Uno Sciascia arrabbiatissimo ha bollato "l’amorfa borghesia
siciliana" per avere addolcito e italianizzato il cacuminale
"ddu" del lacerante grido "Hanno ammazzato compare
Turiddu", nella Cavalleria rusticana.
Poi Pasolini lanciò l’allarme: con la scomparsa delle
lucciole si rischiava la scomparsa di tante altre cose, compreso il dialetto e
il mondo di cui esso era corpo e voce. Cambiò l’atteggiamento, nella società,
nella cultura, in parte nell’editoria, si riscoprì come un valore quello che
prima era stato bistrattato e bandito.
Ai giorni nostri
E siamo ai giorni nostri. Dopo tanti appelli
provenienti da linguisti, antropologi, poeti, uomini di cultura e semplici
cittadini, in favore del dialetto siciliano, e qui si citano solo Giovanni
Ruffino e Salvatore Di Marco in rappresentanza del mondo accademico e dei
liberi cultori del dialetto, la Regione siciliana ha emanato la circolare n.
11, prot. 535 del 7 luglio 2000 con cui si rendono efficaci ed operative le
precedenti leggi intese "a favorire lo studio del dialetto siciliano e
delle lingue delle minoranze etniche delle scuole dell’Isola". Per
accedere ai finanziamenti, le scuole hanno presentato appositi progetti.
Nel declinare il proprio, la scuola media
"Quasimodo" di Palermo, ad esempio, con la benevola approvazione del
Centro di studi filologici e linguistici siciliani, si è prefissa l’obiettivo
di fare scoprire le regole ortografiche e i nessi logico-sintattici attraverso
l’analisi della produzione dialettale sia colta che popolare; avviare un
confronto tra la struttura grammaticale della lingua ufficiale e la produzione
dialettale; porre la problematicità delle trascrizioni dialettali e delle
possibili soluzioni secondo le diverse scuole; studiare il lessico dal punto di
vista etimologico; studiare l’evoluzione storica della lingua dal punto di
vista del lessico e grammaticale.
Per non parlare dei contenuti ovvero dello studio della società nei suoi diversi aspetti: lavoro, amore, mondo dell’infanzia, feste dell’anno secondo il calendario religioso e il ciclo delle stagioni, etc.
Per non parlare dei contenuti ovvero dello studio della società nei suoi diversi aspetti: lavoro, amore, mondo dell’infanzia, feste dell’anno secondo il calendario religioso e il ciclo delle stagioni, etc.
Sono cadute insomma le cateratte che impedivano alle
istituzioni scolastiche statali siciliane di guardare con maggiore
consapevolezza e senza pregiudizi ciò che intorno ad esse si muoveva,
specialmente sotto l’aspetto linguistico.
venerdì 28 settembre 2012
LE PUTÌE DI VINO (E LE PAROLE SPENTE)
Nelle
città si chiamano “enoteche”, frequentarle, come si dice, fa tendenza, e i
giovani che sono “tendenziosi” - guai a non seguire le mode! pena
l’emarginazione e l’isolamento - le frequentano assiduamente. “Teca”, dal
sanscrito thèke che vuol dire “contenitore”, per tanto tempo ha indicato
la piccola custodia in cui il sacerdote poneva l’ostia consacrata per recarla a
un infermo, prima di morire, con tanto di processione. Era sostantivo. Nel
mondo laico, “teca” è un suffisso, più vitale, che ha avuto fortuna, come
gustosamente e con vero divertimento si apprende dalle insegne di panino-teche,
crèpes-teche, disco-teche, etc.
A Palermo
Quando a
Palermo, dove vivo, vedo modernissimi giovani punk bivaccare in gruppi davanti
alle enoteche mentre discorrono di musica rock, si scambiano le e-mail e si
mostrano i piercing, a me, che sono di paese, vengono in mente quelle che nella
civiltà contadina erano le putìe di vino, dimenticata genesi delle
cittadine enoteche. Una buona ragione, questa, per evocare la trasformazione di
un mondo assieme alle parole che lo designavano.
Putìa
Putìa deriva, presumibilmente, dal francese boutique,
ed era una vera e propria bottega per la vendita del vino al dettaglio o
taverna sui generis. Le putìe si suddividevano in stagionali ed annuali.
Non c’erano insegne, ma si capiva che la putìa era aperta dal mazzo di alloro,
dalla bottiglia piena di vino e dalla lampadina accesa penzolanti
dall’architrave.
Putìe
Ogni
quartiere aveva la sua putìa stagionale, ogni putìa un vino diverso e qualcuna
anche delle specialità. Piscialièttu volle aggiungere alle tradizionali insegne
una grattuggia arrugginita infìochettata con svolazzanti nastri rossi e puntute
corna di bue: secondo una sua personalissima simbologia, voleva dare ad
intendere che nella sua putìa si beveva solamente e la Michilina che si era
messa in casa era diventata una morigerata signora, ormai.
Le putìe
più importanti, aperte tutto l’anno, si trovavano nelle immediate adiacenze
della Piazza principale, nel tratto di corso dove aprivano i migliori negozi,
avveniva il passeggio e si combinavano gli affari.
Era
costume che le comitive di amici andassero a prendere “un bicchiere”.
Carrettieri, zolfatai e salinari andavano alla putìa della zza (sta per zia)
Narduzza e dello zzi Narduzzu; i rigattieri, cioè i commercianti di muli e
asini, da Ancilinu, da don Nenè o alla “Conca d’oro” che fungeva anche da
osteria; i contadinii, i muratori, i calzolai, i fabbri, i falegnami i mezzani,
i disoccupati, i viziosi del gioco e la categoria degli sfaccendati e
mangiapane a tradimento (chiazzalòra) non ne frequentavano una in
particolare ma ne “visitavano” diverse fra pomeriggio e sera. “Girare le
chiese” o “visitare i sepolcri” si diceva un tale pellegrinaggio, mutuando il
detto dall’usanza di entrare in tre chiese diverse il Giovedì Santo per lucrare
le sacre indulgenze. I peccatori incalliti più bisognosi di indulgenze se le
giravano tutte.
Schitìcchiu
Ci si
procurava del lardo di porco, sarde salate comprate da Ticcbitì, provolone da
Zammìtu, passulùna (olive nere stagionate) da Marrabbina, un po’ di pane
e si andava a fare schitìcchiu. Un dizionario lo spiega così:
“Sollazzevole cibarsi in più persone di buon umore, con bibita sia di giorno,
sia di sera, o in città o in villa, o per rata o a spesa di uno solo”.
I
rigattieri solevano ripartire il conto in quote uguali, i carrettieri invece
pagavano alla romana. La bibita era ovviamente vino, qualcuno vi aggiungeva
acqua di selz o gazzosa per stemperarlo, chi era “offeso di stomaco” lo
“battezzava” con innocente acqua.
La
scaglìddra
Oltre ai
succitati cibi che costituivano la scaglìddra (letteralmente:
scaglietta, qualsiasi cibo rustico senza pretese e in modica quantità, un
pretesto per bere), le cibarie che stuzzicavano il palato e l’esofago delle
sollazzevoli compagnie erano la quintessenza della cucina siciliana antica,
perfino i nomi di quelle pietanze risultano esotici: robba cotta (interiora
e lingua di bue, piedi, coda e altre parti di maiale bolliti); ceci neri con
giri, molto pepati e conditi con olio d’oliva; sangunazzu (sanguinaccio,
vivanda di sangue di porco condito d’aromi, aglio, uva passa e imbudellato con
altri ingredienti ancora in grossi rocchi, quasi “boteriani”); ficatu e purmùni
(fegato e polmone spezzettati e ben fritti); bbabbalùci (chiocciole,
Helis pomatia), iudìsca o scataddrìzzi (lumache, Limax) e muntùna
o crastùna (martinacci, Coclea terrestris maxima) preparati
con il sughetto, cipolle e patate; bbabbalucièddri (chioccioline,
chiocciolette) insaporiti con olio, aglio e prezzemolo; cardùna (cardi, Cynara
cardunculus) bolliti o fritti con pastetta. e via prelibando.
Vino,
brindisi e schermaglie
I
“quartini” o bicchieri di vino, così detti poiché ciascuno misurava un quarto
di litro, si susseguivano con incredibile celerità allo scopo di “ammazzare”
nello stomaco tutta la roba ingollata. Alla putìa della zza Narduzza voi
trovavate patate lesse, uova sode, marsala, vèrmut e petrolio per i lumi
domestici: tutti allineati con femminile cura sullo stesso bancone. La Putiàra
non mancava di una certa eleganza.
Altri
tempi, altra igiene. Altra Allegria.
Si
motteggiava. I viddràna ovvero i contadini ai carrettieri:
Quantu va un viddranu ccu na mula
Cièntu cci nni vuònnu carrittera.
(Quanto
vale un contadino con una mula / ce ne vogliono cento di carrettieri.)
I carrettieri in risposta:
E lu viddranu ccu la so grannizza
Si mancia pani ccu la cipuddrazza.
(E il contadino con la sua grandezza / si mangia
il pane con la cipollaccia)
Si
cantava. Erano strofe di otto, quattro, due versi, inventati lì per lì o
tramandati. Passerini gorgheggiava:
A sta picciultèddra cu’ la mungi?
Pensa a lu primu amuri e sempri chianci.
(A questa
picciottella chi la munge? / Pensa al primo amore e sempre piange.)
Si
brindava. Il vino assurgeva a simbolo di valori sociali condivisi e imponeva
regole; quello dei brindisi lo si doveva tracannare fino in fondo scolando i
bicchieri fino all’ultima goccia, non lo si poteva rifiutare: lo rifiutò
compare Alfio nella Cavalleria rusticana e ne seguì mortale duello.
Il vino
nei brindisi era o rosso o bianco e sempre fino. Dopo la rima si tracannava. Un
altro brindisi, un’altra bevuta, allegramente. Di frequente il bicchiere troppo
colmo, prima di alzarlo con il pollice, l’indice, il medio, l’anulare,
addirizzando l’arzillo mignolo a coda di gatto contento, veniva un poco
svuotato chinandosi verso di esso, accostando le labbra e sorbendo dall’orlo
con risucchio. In tempi di irripetibile e acceso agone politico, fra il
dopoguerra e gli Anni Cinquanta, andarono a brindare pittoreschi trascinatori
di folle. Capipopolo e codazzi di popolo assommavano alle intemperanzc del vino
l’intemperanza della foga politica:
Ammèci d’acqua acìtu haiu vivutu,
sugnu sicuru ch‘è vinu guastatu.
Ammèci di biancu, russu vutàmmu
quantu jàmmu n-culu a lu Cuvernu.
(Invece
d’acqua, vino ho bevuto,/ almeno so ch’è vino guastato. / Invece di bianco,
rosso votiamo / così in culo al Governo andiamo.)
E giù vino
rosso, naturalmente, senza astio o pregiudizio però per il vinello bianco,
anticipando di molto le commistioni partiticopolitiche del tempo a venire.
Nel San
Giuvanni decullatu di Nino Martoglio, atto secondo, scena quarta, Mastru
Austinu spara a raffica “sbrindesi” a rima baciata senza sbagliare un
colpo, rivelando abilità e nostrale sense of humor. I Mastri Austini,
gli improvvisatori, abbondavano negli schitìcchi di una volta; forse
l’alloro posto come insegna davanti alle putìe di vino conferiva, complice
l’alcol, scioltezze poetiche e rimaiole.
Così una volta.
Ora
Ora che le
putìe di vino sono scomparse e le loro discendenti si chiamano in altro modo,
ci si diverte, ci si sfoga, ci si annoia diversamente. Pazienza! se non vengono
fuori, quasi come un dono di natura, spumeggianti “sbrindesi” né in rima
sciolta né in rima baciata.
Ma perché
brindare? Sono subentrati altri linguaggi. Altri convivi. Altri silenzi.
Né per
riaccendere antiche allegrie varrebbe porre gli antichi mazzi d’alloro accanto
le moderne insegne in plexigas: rischierebbero, quest’ultime, di illuminare
parole spente.
Il testo qui riproposto è
stato già pubblicato, senza la
suddivisione in sequenze e con qualche lieve variazione, su:
-
“Scuola e Cultura Antimafia”,
settembre-Dicembre 2001, a.18, n.3:
http://digilander.libero.it/scuolaxantimafia/index.htm
cliccare su EDUCAZIONE ALL'IDENTITÀ;
- “L’Apollo buongustaio. Almanacco gastronomico per l’anno 2002 ideato da Mario dell’Arco. Nuova Serie”, Roma, novembre 2001, pagg. 28-31;
- “L’Apollo buongustaio. Almanacco gastronomico per l’anno 2002 ideato da Mario dell’Arco. Nuova Serie”, Roma, novembre 2001, pagg. 28-31;
-
“Lumìe di Sicilia”, n. 45, giugno 2002, pagg. 4-5:
- Blog “Catrum
Racalmuto Domani” dove in coda al post sono riportati alcuni commenti dei
lettoria:
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