venerdì 27 ottobre 2017

LA FIONDA. Racconti a Racalò


La fionda

Da una raccolta inedita




“Gli infedeli ci obiettano, facendosi gioco
della nostra semplicità, che noi offendiamo
 e oltraggiamo Dio quando affermiamo
che è disceso nel seno di una donna, che da
una donna è nato, che si è sviluppato nu-
trendosi di latte e di alimenti umani…”.
ANSELMO D’AOSTA, Perché un Dio uomo?



Gigliolo Perdichizzi di Filò sarebbe diventato don Gigliolo, un giorno, Padre Gigliolo; intanto, intercalava gli studi di Morale con la sacra mania di pingere Madonne, specialmente di sabato perché gli riuscivano meglio.
Sognava di diventare un prete tranquillo, di preti agitati e comunisteggianti ce n’erano in giro! Per lui, la santità non doveva fare scrùsciu; la pubblicità provocata per atti d'eroismo era tutta superbia. Mettersi contro qualcuno gli dava noia. La calma era nella sua indole.  Era tra i pochi che nel cuore della notte, anche d’inverno, andava a pregare nella buia cappella rischiarata da una vacillante fiammella.  Lo facevano i mistici. Ci si preparava anche così al sacerdozio.


Nell’attesa di quel lontano traguardo, il seminarista Perdichizzi  scendeva quando era possibile in giardino a passeggiare, solo o in compagnia; guardava il panorama, allungava lo sguardo sull’orizzonte  e meditava;  pensava che rinunciava ad avere una famiglia propria ma ne acquistava una più grande, l’umanità intera.  Ogni volta, la fluente chioma di un larice piangente, smossa  con lento ritmo da un venticello leggero, favoriva quelle meditazioni, finché non sopraggiungevano grappoli d’uccelli: facevano tale gazzarra che Gigliolo, frastornato, fissava stizzito i rami ricurvi, smetteva di passeggiare e saliva in cappella a recitare i vespri.    
            Quando il maltempo impediva la passeggiata, rimaneva nella stanzetta, piccola ma con un’ampia finestra che lasciava intravedere laggiù i palazzi in fuga verso la valle, i templi, la marina.

Nella sua camera, lo andavano a trovare altri seminaristi, studenti di teologia, liceali e, nelle pause di studio, i più piccoli che frequentavano le medie. Durante quelle visite pomeridiane, chiudeva a chiave, “per non essere disturbati”,  diceva al plurale, ma era proibito dal regolamento. Aveva il dono di sapere ascoltare; si immedesimava nei casi altrui mentre armeggiava con i pennelli, provava colori, esplorava schizzi. Ogni tanto emetteva un nasale – uhm – d’assenso. I suoi consigli molto spesso erano apprezzati. Per risolvere i problemi, aveva una teoria: rinviare le decisioni a “dopo” perché col tempo le situazioni “maturano”. Molti ne uscivano rincuorati.

Una volta un piccolo seminarista andò a confidargli che ogni sera il terribile prefetto di camerata dopo le preghiere e la “buona notte” si avvicinava al suo letto e faceva scivolare la mano sotto le coperte; un giorno,  con tremore,  gli chiese perché lo facesse. Gli fu risposto che lo scopo dell’ispezione era di constatare l’assopimento dei sensi.  Lo spirito non poteva innalzarsi se il corpo concupiva. Il piccolo seminarista non capì, o forse capì, fatto sta che  non s’acquietò e corse dall’affabile Gigliolo da cui sperava ottenere una più tranquillizzante ragione. 
- Bisogna dare tempo alla Provvidenza, - disse un po’ turbato Gigliolo.  – Vedrai che crescendo non ci sarà più bisogno di ispezioni.
Che poteva dire del prefetto?
Non si sa se  il piccolo, turbato seminarista ne parlò con altri.

A Marco Inserra, però, diplomando liceale, prossimo agli studi di teologia, non poté dare il suo placido consiglio perché non era questione di tempo e la stessa Provvidenza avrebbe trovato un terreno impervio: il vescovo, infatti, non voleva che il giovane Inserra, dopo il diploma di maturità, andasse a Roma, a studiare, c’era il rischio, parole di vescovo, di “perdere la fede” o sarebbe diventato “comunista”.
            - E come l’hai saputo? – chiese Gigliolo, mentre stemperava un po’ di blu su un pezzo di cartone.
- Me l’ha detto il vescovo.
- Gli hai parlato?
            - Sì, su consiglio del rettore.
- Perché non gliel’ha chiesto lui stesso?
- Per non insospettirlo. 
- E tu cosa hai risposto al vescovo?
            - Che anche l’attuale padre spirituale aveva studiato a Roma: non aveva perso la fede e non era diventato comunista.
- E il vescovo?
- Ha abbassato la testa.

            Era vero che il padre spirituale aveva studiato a Roma, ma non era falso il timore del vescovo, gli ultimi seminaristi che avevano studiato alla Gregoriana  erano diventati comunisti, una volta diventati sacerdoti, avevano persino fondato un giornale dove scrivevano le loro “eresie filomarxiste” e il vescovo li ha sospesi a divinis.  Alcuni non hanno perso tempo a sposarsi. Una rovina per la diocesi: bel guadagno ci aveva fatto, dopo quello che erano costati per farli studiare a Roma. E per giunta, il malesempio.

La pericolosità di andare a studiare alla Gregoriana esorbitava dalle competenze di Gigliolo, dal raggio dei suoi consigli. Sapeva quello che sapevano tutti: chi andava a studiare in quell’Istituto prestigioso era votato alla carriera, si studiava tanto Diritto canonico e poi si diventava dottori in sacra teologia o nunzi apostolici, insomma, vescovi, cardinali. Giungervi era motivo di prestigio non solo personale. Se qualche studente perdeva la fede o diventava comunista, la colpa era della città che distraeva, della vita mondana dei prelati, del marxismo divenuto moda. Da Roma si ritornava alle diocesi di appartenenza o comunisti o con i polsini della camicia inamidati.
            - Anch’io ho studiato a Roma, - ammise il vescovo, - ma erano altri tempi; mi hanno preservato la devozione alla Madonna e la recita del rosario.

            Inutili fino a quel momento erano state le insistenze di Marco, i suoi ragionamenti, le sue promesse, e cioè che nella capitale avrebbe recitato molti rosari, che avrebbe inteso la sua esperienza romana come un servizio da rendere alla diocesi.
            Niente! Un mulo. Il vescovo non cedeva. Temeva tra l’altro che le radici racalesi venate d’eresia s’innervassero nel giovane seminarista, originario di Racalò da parte di madre.

            Quale consiglio poteva dare a Marco il povero Gigliolo,  in una partita così grossa! Stese due pennellate nervose e mutò discorso. – Ti piace? – chiese additando col pennello il quadro che stava dipingendo. Marco annuì, ma la testa l’aveva a Roma. – Sai su chi ha fatto la tesi il nostro padre spirituale?
-       Su chi? – fece eco Gigliolo tutto preso dai suoi colori. Il discorso per lui era chiuso.
-              Su Feuerbach e la genesi del marxismo. Diceva che il nemico bisogna conoscerlo per combatterlo. Eppure non è diventato comunista.
            Gigliolo non rispose; lontano dall’irritarsi, voleva cambiare suonata. Anche lui aveva a che fare col vescovo e non voleva mettere a rischio  l’incarico di sostenere, nelle messe solenni in cattedrale, la mitria  o il pastorale.  Marco pensava ad altro e  si rammaricava. Gigliolo era come assente, trasvolato nei suoi vagheggiamenti: si mise a sfogliare un libro con ricche illustrazioni di giullari e corti medievali. Accennò una melodia. Poi alzò gli occhi e li diresse verso il cavalletto dove c’era, pressoché ultimato,  un piccolo quadro raffigurante la Madonna col Bambin Gesù.

L’espressione era serena: con il braccio destro la madre reggeva il figlioletto  mentre con la mano sinistra premeva una morbida mammella per fare schizzare meglio  il capezzolo tra l’indice e il medio. Le labbruzze del bambino erano impazienti di ricevere il divino alimento.
- E’ mio, - disse Gigliolo, alludendo al quadro. – L’ho fatto io.
            Dopo un lungo silenzio di contemplazione, - sai, - disse, congiungendo le mani come se volesse strozzare qualcuno, - certe volte mi viene di afferrare quel seno bianco e di tirarlo giù, lo stirerei fino a terra come pasta di fornai.
            Marco, ormai distratto dal suo cruccio, seguiva con gli occhi le evoluzioni manuali dell’amico artista.

            Gigliolo fece atto di spiccare quel seno seminudo dal quadretto ad olio, sottraendolo definitivamente  alle labbruzze protuse del Bambin Gesù.

            Benché l’accostamento risultasse un poco irriverente, a Marco gli sovvennero le cipolle appese ai balconi del suo paese, staccate dal grappolo, quando occorrono, con uno stratto. Guardò il quadretto e gli sembrò sbilanciato da un lato. 

            Gigliolo continuava a gesticolare, infine si mise a roteare con ambedue le mani un’invisibile fionda come se volesse lanciare lontano quella morbida “cipolla”  seguita con sguardi avidi di sapere dove si sarebbe adagiata.

            Sembravano tutti e due incantati dalla loro stessa fantasia. Il rumore dietro la porta di passi  che nel corridoio si allontanavano e scendevano per le scale fece ricordare di colpo a Marco e Gigliolo che era l’ora della preghiera.


S’inginocchiarono davanti al quadro della Madonna mutilata e recitarono una posta riparatoria di rosario.


Testo e foto ©piero carbone

L'icona è stata fotografata a Mezzoiuso 

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