venerdì 14 giugno 2013

IL VESCOVO E L'OMU-CANI. Una foto non è soltanto una foto





CAPIRE LA STORIA ATTRAVERSO LE FOTOGRAFIE

"Sono convinto che se si potessero recuperare tutte le foto dei laboratori e studi fotografici dei nostri paesi, la storia del 900 siciliano sarebbe davvero molto più comprensibile e più facilmente trasmissibile."      Rosario Lentini   



Premessa

Dico solo questo: se essere professori universitari significa essere esperti e originali in una materia, in un mondo dove socialmente è riconosciuto il merito come un indiscutibile valore, Rosario Lentini, professore universitario avrebbe dovuto esserlo. Punto.


Invece ha fatto il bancario, per una vita. Mattina, pomeriggio, e pausa pranzo.
Epperò, dopo una breve esperienza come interno di storia all'università di Palermo, nonostante gli allotri impegni, ha continuato privatamente, sistematicamente, continuativamente, i suoi studi e le sue ricerche di prima mano negli archivi storici siciliani e non solo.


Possiamo immaginare lo stato d'animo uscendo di casa la mattina, diretto con la mente in qualche archivio, e invece, dribblando il traffico cittadino, la destinazione lo portava in banca.  


Ma non si è arreso alla schizofrenia, sicuramente produttiva, alla fine forse felice appunto perché produttiva.
Esperto di storia dell'economia siciliana, possiamo dire che in questo campo è un'autorità. Studi, pubblicazioni, ricerche, conferenze, tavole rotonde in tutta Europa. 


Non gli è mancato nulla, grazie al suo valore, alla sua volontà, a sue spese, ritagliandosi dagli impegni di lavoro e familiari quelle attività per cui i docenti universitari giustamente sono pagati per il servizio che rendono alla società.



A Rosario, l'università, la società,  non soltanto quella degli studiosi, possono dire soltanto grazie.
Questo grato pensiero va esteso ai tanti Rosario Lentini che la società e l'università cinicamente producono.



Non sto qui ad elencare tutti i suoi libri e interventi pubblicati, ma non si possono sottacere gli autorevoli studi sui Withaker e sullo stabilimento Florio di Favignana; riporto integralmente invece un articolo che rivela un interesse laterale ma non distante dalle finalità dello storico perché ci dà illuminanti consigli su come "leggere" una fotografia quale fonte di conoscenza fisiognomica, sociologica, architettonica,  urbanistica o semplicemente di costume. 

 


Dopo una vita trascorsa a consultare atti bolle statuti e privilegi di  polverosi "faldoni", negli archivi più  negletti e nascosti, con grande apertura mentale e versatilità Rosario ci mostra come si possano attingere importanti informazioni "storiche" anche dalla "lettura" di semplici fotografie d'occasione o apparentemente neutre e casuali.
                                                                                        Piero Carbone


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UNA STORIA PER IMMAGINI

di Rosario Lentini


«… al di là di tutti i divieti o le prescrizioni, in fotografia le fotografie restano, e sono fotografie a tutti gli effetti, a prescindere da chi le ha fatte restare, perché le fotografie sono già il resto di ciò che resta, anche quando fotografie qualsiasi».(1)

Queste considerazioni di Silvio Governali, tratte da una sua breve e pregevole monografia sull’argomento, sono molto più “storicizzanti” di quanto sembri a prima lettura e, forse, per questa ragione hanno  sollecitato il mio subconscio a selezionare e analizzare un’istantanea reperibile nel vasto repertorio che Pino Catalano arricchisce da anni inMazara forever, (edizione on-line del 3 maggio 2012), a beneficio della memoria collettiva della nostra città. Mi riferisco, in particolare, a una di esse, facente parte di un servizio realizzato nel 1960 da Francesco Boscarino, in occasione dell’insediamento del vescovo “ausiliare” Umberto Altomare, conseguente all’aggravarsi delle condizioni di salute del titolare della Diocesi, monsignor Gioacchino Di Leo.

I più giovani e giovanissimi mazaresi non possono ricordare e, probabilmente, neppure sapere chi e quanto bravo fosse Boscarino. Nel suo studio, al n. 32 di Corso Umberto I, sono passate centinaia di famiglie per le pose da tessera o per eventi da celebrare, dalle nascite ai matrimoni, e innumerevoli sono stati i servizi esterni da lui effettuati nel corso della sua pluridecennale attività novecentesca, passando dalla stagione dei lastrini su vetro a quella dei rullini e delle reflex.


In questo caso, quindi, non mi soffermo su una fotografia qualsiasi, né su un dilettante; ho scelto di ragionare sul prodotto finito di uno “scatto” di un maestro del mestiere, sul risultato visivo – dagli effetti fortemente evocativi – di una decisione presa in un millesimo di secondo.
Esamino ripetutamente l’immagine a pagina piena nel mio desktop; più ne osservo i dettagli e più mi convinco che potrebbe confondersi, per qualità, con gli esemplari dell’archivio Magnum Photos o di altre rinomate agenzie internazionali e, soprattutto, ne scopro la straordinaria efficacia nel rappresentare una fase – nella storia novecentesca della città – che si potrebbe definire di transito.
Gli anni difficili del dopoguerra erano ormai alle spalle e Mazara, con i suoi 36 mila abitanti, si avviava verso quella crescita tumultuosa che la ricchezza esponenziale prodotta dalla marineria da pesca stava consentendo.


Il palazzo del municipio era quello sobrio e dignitoso che si ritrova nelle cartoline d’epoca, demolito dopo il terremoto del 1968 e sostituito dall’edificio-mostro che oggi sovrasta nella piazza. L’autostrada non c’era ancora – sarebbe arrivata tra il 1971 e il 1972 – e solo nel 1976 la Commissione parlamentare antimafia, nella sua relazione, avrebbe evidenziato come gli interessi mafiosi si fossero ben strutturati nel territorio.
In quel 1960, quindi, la città era ancora a un passo dal bivio: da una parte, una possibile evoluzione sociale ed economica in equilibrio tra marineria e agro-industria, come Mazara era riuscita a rimanere fino agli anni Cinquanta, con le sue mostre-mercato naif; una marineria affermata nel Mediterraneo e rinomata in campo nazionale, ma anche una campagna ubertosa, e un’agricoltura con un saldo attivo. E, intanto, il sindaco Francesco Safina, padre Gaspare Morello e lo storico Alberto Rizzo Marino, insieme al direttore della Biblioteca di Tunisi, Otman Kaak, costruivano ponti di cultura, di dialogo e di pace, dando vita al Centro Studi Siculo-Arabi: esperienza progettuale davvero originale e lungimirante nella politica culturale di quegli anni.

L’altro ramo del bivio, invece, prospettava una fase espansiva irrefrenabile, alimentata dalla grande liquidità finanziaria che i profitti del pescato avrebbero assicurato e che in larga parte sarebbero stati destinati alla costruzione di prime e seconde case e di centinaia di villini, prevalentemente contrassegnati da un’indicibile bruttezza, tipica del fai da te o del fai fare al capomastro o del fai fare al geometra che si sente architetto. Un altro rivolo di quei flussi finanziari avrebbe alimentato la proliferazione della rete di sportelli bancari e di finanziarie di grandi e piccoli istituti, non pochi dei quali avrebbero riciclato proventi di droga e di redditi in nero.
Torno al bivio e alla foto e osservo i particolari che sembrano proprio marcare la differenza tra il prima e il dopo del profondo cambiamento che stava maturando nella società e nell’economia mazarese: gli intonaci irregolari alle pareti del porticato del Seminario; le colonne sbrecciate e dal profilo imperfetto; la grande edicola votiva, nel fondo, sormontata da un vistoso fregio tardo-barocco, incrostato di polvere (ancora irrilevante l’inquinamento da carburanti); e, in primo piano, cinque figure in movimento che incedono a passo lesto, in direzione della Cattedrale: il notaio, il segretario del vescovo, il vescovo, il vice sindaco, il segretario comunale e, alle loro spalle, un piccolo corteo.


L’insieme potrebbe sembrare parodia clerical-borghese del celebre dipinto Il Quarto Stato di Pelizza da Volpedo ma, ovviamente, l’accostamento è puro gioco e le due immagini – l’una pittorica di fine ‘800 e l’altra fotografica – non hanno nulla in comune se non il fatto che questa foto si avvicina molto di più a un dipinto, per leggerezza e trasfigurazione della realtà, nonostante in quel corridoio del portico, si addensi un folto gruppo di soggetti. Sembra quasi di vederlo, Francesco Boscarino, leggermente piegato sulle ginocchia mentre sceglie l’inquadratura, la luce e l’attimo ideali per la sua pennellata.
La sincronia di passo delle due autorità, religiosa e civile, è magnificamente fissata nelle suole delle calzature dei rispettivi piedi sinistri, a medesimo angolo acuto con la pavimentazione appena sfiorata. Ma a questo corpo centrale dell’immagine si affiancano altre due parti che si integrano armoniosamente nella scena. Sulla sinistra, un componente del ceto artigiano, all’ingresso del suo “Salone” di barbiere, affiancato da un ragazzo, aiutante o cliente.

Insieme guardano sfilare l’inatteso corteo che, tuttavia, suscita emozioni diverse: all’impassibilità-indifferenza del giovane si contrappone lo sguardo sorridente dell’esercente che sembra sconfinare nell’ironia; ostilità di classe? agnosticismo e miscredenza? sfiducia nelle gerarchie ecclesiastiche?
Non lo sapremo mai.
Di contro, si deduce con certezza che, qualche attimo prima del passaggio, sia stato svuotato un pentolino d’acqua con doppio movimento semicircolare del braccio, tale da conseguire l’effetto a quarto di luna visibile per terra; secondo le nostre “buone” usanze è ipotizzabile che l’artista involontario di questo disegno provenga dal Salone, proprio perché lo spazio prescelto per il getto non è direttamente antistante al locale.
Sul lato opposto, invece, sul margine destro dell’immagine, l’Omu-cani, colto in  una postura caravaggesca; apparentemente un dannato della terra, in realtà, era lo scontroso, quanto mite, clochard Tommaso Lipari che, negli anni Quaranta, venne a condurre la sua esistenza da barbone a Mazara. Come molti ancora ricorderanno, non chiedeva elemosina e neppure da mangiare; fumava avidamente i mozziconi raccolti da terra e non c’è abitante che possa dichiarare di essere stato da lui importunato. Mangiava ciò che trovava nei rifiuti e il suo alloggio variava dai ruderi del Castello normanno al portico del Seminario, dalla villa alla statua di San Vito, ai cui gradini lo si trovava spesso disteso, assorto nei suoi pensieri.
Non so quanto sia fondata l’ipotesi del falso Lipari dietro cui si sarebbe nascosto il fisico Ettore Maiorana, misteriosamente scomparso nel 1938; sta di fatto che i tentativi letterari e giudiziari di disvelamento della presunta altra identità non hanno trovato alcun fondamento. Tommaso era e rimane l’Omu-cani, e anche se non fisico nucleare, onore alla sua mitezza e dignità.

Nessuno del corteo lo degna di attenzione, ma sarebbe errato pensare che si tratti di disprezzo perché, per i mazaresi, Lipari era parte integrante della comunità; così, a modo suo, con i suoi stracci e la sua scodella da svuotare. E, infatti, nella foto si coglie bene la sua imperturbabilità e la non ostile indifferenza nei confronti di uno dei tanti cortei che vide sfilare nei decenni.
Scomparsi quasi tutti i personaggi di quello scatto e sparita definitivamente la società della quale sono stati attori di primo piano o comprimari, questa fotografia, oggi, è il tutto di ciò che resta; una buona ragione, quindi, per continuare a ricercare altri scatti del bravissimo Boscarino e altre stampe di “fotografie qualsiasi”.
(1)   Silvio GOVERNALI, La fotografia, L’Epos, Palermo, 2008, p. 60.


Articolo pubblicato su "Dialoghi Mediterranei" aprile 2013

http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/?p=164



La foto originaria, da me ritagliata nei particolari, è di Francesco Boscarino.

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