martedì 30 settembre 2014

TERRA DI ERETICI E DI SANTI



Ricovero di fortuna. Foto di Giuseppe Pasquale Palumbo




TERRA DI ERETICI E DI SANTI
Racconto



                                                                                “- E perché non me le conti? - disse l'altro, - non vedi che
                                                                                          la strada par fatta apposta per parlare e per ascoltare? -.
                                                                                          E cosí, via facendo, io gli parlai di quei ragionamenti…”  
                                                                                          Platone, Il convito, trad. Francesco Acri.
                   
         E siddru è veru?
   ANONIMO
                                                                                 
                                                                                 E se fosse vero?



- Dove ci vediamo?
- Alla Piazzetta.
Con questo ritornello gli amici a Racalò si congedano dandosi appuntamento per il prossimo incontro. Distante dalla Matrice un centinaio di metri,  la Piazzetta è uno slargo del corso principale circondato da storici palazzi.
Quello più storico ha una facciata con tre ordini di finestre ben allineate da sembrare sfondo teatrale. L’ha voluto un benestante, occultando con impudenza sacrilega la visione della facciata di Sant’Anna, una chiesa frequentatissima.
Nella vecchiaia se ne pentì: divenne cieco.
Ebbene,  in questo naturale teatro si sono sempre tenuti i liberi comizi; è tappa obbligatoria delle processioni religiose e dei cortei di protesta, un tempo vi sostavano i cantastorie. Qui, in un andirivieni eterno, si consumano imprevedibili passeggiate.
Durante una di queste passeggiate, qualcuno accese la miccia.

- Racalò si contraddice  - disse.
Fu l’avvio di un fuoco dialettico.
- Perché?
- Perché è terra di eretici e di santi.
   - Di eretici.
   - No, di santi più che di eretici. Conta le chiese.
   - E tu conta le bestemmie.

   Né il conteggio delle chiese né quello delle bestemmie avrebbe fatto mutare mai convinzione ai sostenitori dell’una o dell’altra tesi, ognuno adduceva le proprie ragioni e intanto passeggiando passeggiando s’ammazza il tempo, a Racalò: volano così le mattinate, i pomeriggi, ogni tanto entrando e uscendo dai bar per socializzare un caffè in due o due caffè in quattro o quattro caffè in non si sa quanti amici e conoscenti.

   – Siamo agli arresti domiciliari, - ebbe a dire una volta  Chiochiò, dal nome tronco come quello del paese in cui risiedeva. – Che facciamo? Pendoliamo avanti e indietro, a dire sempre le stesse minchiàte, dalla Matrice alla Piazzetta e dalla Piazzetta alla benedetta Matrice.
   Ad un giornalista, piombato da quelle parti dopo una raffica di diciassette suicidi in un anno, il nostro pensoso personaggio espresse tutta la sua insofferenza:
– Vorrei essere di Barcellona, - disse all’inviato.
Ci rimase male tutto un paese.  Mai si capì se Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, dove si trova il manicomio criminale o Barcellona catalana dove si passeggia nei famosi viali dal Majestic alla Plaza de Toros.

      Aveva ragione però, e tutti ne erano consapevoli, il passeggio e il caffè erano come una droga, a Racalò, anche i discorsi che si facevano, sempre gli stessi, ma se qualche volta trapelava un argomento diverso, ci giravano intorno apparentemente distratti e poi non lo mollavano più, per giorni o settimane.

     Chiochiò una mattina se ne uscì col dire quello che aveva sentito in treno da un passeggero salito con altri pendolari alla stazione di Aragona Caldare,  era la definizione di Racalò  quale ”terra di eretici e di santi”. Egli la riferì  sicuramente per contestarla, ma non gliene diedero il tempo, i compagni di passeggio: scendendo verso la Matrice, incominciarono a  rimbalzare opinioni diverse in proposito fino a polarizzarsi, quando risalirono verso la Piazzetta, in due  estremi inconciliabili. Dalla Matrice alla Piazzetta, si incarognivano quelli che sostenevano la tesi.
Dalla Piazzetta alla Matrice, quelli che sostenevano l’antitesi.
     Anche Chiochiò, di ritorno verso la Piazzetta,  dovette prendere posizione nel dibattito da lui stesso provocato, per non farsene espropriare;  si trovò costretto a parteggiare per il partito dei santi poiché Raffieli, che gli stava antipatico, aveva abbracciato inaspettatamente l’altra mezza definizione di Racalò.

    Raffieli, di una certa cultura o forse non tanto certa, alto, magro, pelato, tanto che lo soprannominavano “Sbirgitella” a somiglianza della varietà di pesca piccola, liscia e gialla, probo uomo di chiesa,  con sette figli a carico, ora in pensione precoce, era così religioso e intollerante da sembrargli, tutti gli altri,  dei dannati miscredenti ed eretici. E portò un esempio.

    - L’anno scorso, - incominciò a raccontare, - è successo che una mula si è inginocchiata alla processione del corpusdomini ma il padrone voleva andare a casa e perciò la punzecchiava, tanto che il prete sotto il baldacchino, agitando l’ostensorio, ha rimproverato lo scoscenziato padrone invitandolo a prendere esempio dalla sua mula,  "nginòcchiati!" gli disse con tono di comando. Questo che significa? – concluse Raffieli, - che a Racalò pregano le bestie! che sono più devote degli uomini!


   All’opposto ovviamente doveva pensarla il miscredente Chiochiò.
Piccolo, infarinato di legge e di politica avendo lavorato in un ufficio del capoluogo, segaligno, comunista, insofferente del sacramento della confessione, ce l’aveva con i “cattolici di nome” e non “di fatto”.
   - Vanno in chiesa – s’infuriava - per andare a dire al parrìno i peccati degli altri e non i propri! Ma perché ognuno non si svacanta le quartare proprie?
   Tuttavia, per merito di alcuni cattolici genuini, semplici come la ricotta, Racalò, secondo lui, poteva dirsi “terra di santi”,  mai di eretici! Intanto, l’esempio della mula non lo convinceva, semmai significava un’altra cosa, che non basta inginocchiarsi come lo può fare una mula per sentirsi a posto con la coscienza.

   - Io sono per la dignità dell’uomo, - diceva, - e per averla uno non deve neanche  essere per forza cattolico di sacrestia, ma se ce l’ha, la dignità, ed è anche cattolico, vuol dire che è cattolico veramente,  è un santo, che è la stessa cosa, come dice il Papa. Io non posso credere che a Racalò non ci sia per niente dignità.

   - Non c’entra, - ribatteva Raffieli, cioè Sbirgitella, fermandosi davanti all’antica chiesa del Santissimo, - una cosa è essere santi, un’altra essere cattolici -. Forse Sbirgitella pensava alla facoltà di fare miracoli. Pensando, camminavano; fecero una ventina di passi.

   - E allora, - volle chiarire Chiochiò, in prossimità dell’Antica Pasticceria, avanzando di un altro passettino, - ti porto io un esempio e poi mi dirai se suor Celeste Villanova è una santa o una cattolica.

   Raccontò che in periodo di guerra,  alcuni soldati tedeschi trovarono rifugio nell’Ospedale dove suor Celeste  era rimasta pressoché sola a soccorrere i militari feriti, fra i pericoli delle incursioni aeree. Scoperti, i  feriti tedeschi divennero mira dei fucili mitragliatori americani. Suor Celeste che era un donnone, col suo corpo  fece scudo ai tedeschi, gridando in faccia agli americani: “Non è possibile! Non è giusto!”. Nessuno comprese le sue parole, fatto sta che quelli chissà cosa pensarono e abbassarono le canne dei  fucili.
   - Santa o cattolica? – concluse Chiochiò.
   Raffieli non si diede per vinto. – Suor Celeste con i racalesi non c’entra, - disse.
   Infatti, fin da giovanissima era andata via dalla natia Racalò e l’Ospedale dove avvenne il fatto era a cento chilometri di distanza.

   -  Piuttosto, - disse quasi a concludere Sbirgitella, - come mai ti metti a dire che il nostro è un paese di santi per merito di alcuni, tu che sei un comunista mangiapreti e non ti confessi mai, e per giunta vai dicendo di non credere  ai preti né all’inferno e manco al paradiso?  Non sei tu quello che va ripetendo a monaci e parrini vìdici la missa e stoccaci li rini?

   - Hai ragione – rispose Chiochiò. – Non ci credo.  A me la scomunica non fa né caldo né freddo.
   Ripristinati i ruoli per come dovevano andare, Chiochiò tornò ad essere l’avvampapreti e Sbirgitella il baciapile. Le altre discussioni mattutine in prossimità del pranzo volsero al termine senza eccessivi appassionamenti.

   Al momento di salutarsi, Chiochiò, rivolto a Raffieli, ribadì la fallacia del Papa, il nepotismo dell’arciprete, le tresche delle monache, l’infondatezza dei miracoli, la non esistenza del paradiso, rievocò certe sue teorie libertine su Gesù e il prediletto Giovanni, la Madonna e la pentita Maddalena, da farlo bruciare vivo come eretico nella pubblica piazza; poi, arretrando di un passo come per prendere la giusta distanza, col collo reclinato, alzò lateralmente lo sguardo verso Sbirgitella, e proruppe: 
- Pure io faccio dire una volta all’anno la messa alla buonanima dei miei morti. E pago la “pagellina” del Terzordine carmelitano.
- A che serve se non ci credi! – gli fu obiettato.
- Di crederci non ci credo, - rispose Chiochiò. – Però non si sa mai. E siddru è veru?

Già pensava alle discussioni dell’indomani, ed era piuttosto contento.

© Piero Carbone

2 commenti:

  1. Bellissimo racconto ! E per chi conosce Racaló e i Racalesi .... Plausibilissimo!!

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  2. Che sia il centro del paese è indiscusso e lo dimostra questo racconto. E' il teatro, quello vero dove per assistere allo spettacolo non si paga il biglietto, basta accostarsi, come insegna il racconto e dire la propria. Non è importante che cosa dire, basta dire, basta fare atto di presenza.Dovremmo fare, a mio avviso una petizione al sindaco del paese e a tutti i santi protettori e vicini, di toglierla quella fontana, triste che impedisce i belli assembramenti di gente che si riunisce per dire niente, per esserci. Perchè, altrimenti,che viene a fare la domenica?

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