martedì 23 ottobre 2012

NÉ CINICI NÉ SPIRTUNA




Da quando Sellerio ha pubblicato Kermesse, Museo d’ombre e L’incominciamento, rispettivamente di Sciascia, Bufalino e Bonaviri, i modi di dire in dialetto siciliano commentati sono diventati uno sfruttato filone editoriale e direi una moda o la scelta formula per esprimere impegnativamente, secondo Umberto Domina,  “voce e pensiero dei siciliani nel tempo”, per  descrivere e caratterizzare una città attraverso i suoi “proverbi, modi di dire e di fare, tiritere, nonsensi”. 
Da questa gran messe di pubblicazioni se ne riporta uno molto curioso di area catanese; il secondo modo di dire, invece, è racalmutese, tratto dalla nostra tradizione orale. 

I proverbi e i modi di dire sono senza tempo e per certi versi senza luogo, applicabili perciò in tutti i tempi e in tutti i luoghi se se ne estrapola l’insegnamento; tuttavia, speriamo e scongiuriamo che, fuor di metafora, cinici e spirtuna non  siano riferibili all’ambito sociale in cui viviamo e a cui siamo radicatamente legati perché il nostro natìo loco (ma solo quello natìo?), in questo particolarissimo momento storico, ha bisogno di tutt’altri  modelli antropologici.






‘U spertu arriva a’ tavula cunzata

L’approfittatore giunge quando tutto è pronto a tavola.
Spertu significa esperto ma nella maggioranza dei casi viene ironizzato perché si tratta di classificare persona adusa notoriamente a alzate d’ingegno abbastanza scoperte. Per gratificare di pronta intelligenza e intraprendenza, il siciliano sposta d’un grado maggiorativo il termine, dice spirtuni e stavolta, quasi sempre senza ironie come non c’è ironia nel dire sautafossi (saltafossi) per tornare sul concetto di prima, sulla intelligenza, su certa scaltrezza che siamo soliti definire levantina nel settore mercantile dei saltimbanchi. Ecco l’esempio di un sautafossi, che con dialettiche, abilità e inventiva, contratta fino a strappare all’interlocutore un prezzo convenientissimo, ‘u spertu che, piovuto dal cielo, fiuta l’affare e se lo porta via con faccia di piombo.  
                              
Mario Grasso, Lingua delle madri. Voce e pensiero dei siciliani nel tempo, Prova d’Autore, Catania 1994.




La spina n capu di l’antri è moddra comu la sita

Il cicnico detto racalmutese La spina n capu di l’antri è moddra comu la sita  non viene  riportato da Michele Castagnola nel suo Dizionario fraseologico siciliano-italiano né dal Mortillaro né dal Traina: riportano, costoro, altri pungenti esempi ma non quello racalmutese. Due sono i motivi: o lo ignorano perché poco comune o lo ritengono antisociale.
            Spina, infatti, equivale nel detto a: pena, dolore acuto, difficoltà, angustia, cruccio, cosa che reca dolore. Ebbene, il detto racalmutese è di una disperante violenza antievangelica. Altro che piangere con chi piange (e gioire con chi gioisce)!
            Tutto il contrario: soffrire per chi gioisce e gioire per chi soffre. E peggio ancora: si nega alla spina di essere spina. Non c’è indifferenza, ma sarcasmo, trista ironia: le spine, e quindi le sofferenze, addosso agli altri non vengono ritenute acute e dolorose come quelle dei pruni e delle rose o come le scheggine di legno che si conficcano sotto la pelle o sotto le unghia. Macché! Molli, seriche addirittura. E cosa c’è più carezzevole della seta che struscia sulla pelle con la leggerezza di un battito di farfalla?!
            Se così fosse nessuno vorrebbe togliersi le proprie spine, invalidando l’altro detto, racalmutese o no poco importa: Cu avi la spina si la leva.  Troverebbero in tal caso giustificazione tutte le cattive coscienze di questo mondo.

Già da me pubblicato su "La Voce dei Giovani. Racalmuto", luglio 1996, numero unico.

                                                                     






Sulla copertina del libro di Sandro Attanasio: "Contadina con melone" di Giuseppe Migneco; le foto dei due rapaci (Aquila del Bonelli  in volo e Nibbio bruno su un ceppo) sono di Giovanni Salvo; la vignetta è di Giovanni Lauricella. 


Post già pubblicato, con commenti, in versione più estesa su 
castrumracalmuto.blogspot.com/.../ne-cinici-ne-spirtuna.ht...




2 commenti:

  1. Il problema del dialetto siciliano è - come tu ben sai - antico è controverso. Si tratta di dialetto, poi, o di lingua vera e propria. Certo autori sommi vi sono stati el a codifica linguistica è di alto livello. Mi sembra di ricordare che un Li Gotti abbia attinto livelli altissimi. Nel cercare di capire quale spessore scientifico abbia davvero avuto il nostro conclamato M.A. Alajmo, trovo in un suo medico libro questa perla che ti trascrivo:


    Per la quartana, ch'è sua malatia
    si cuverna di signi lu Liuni,
    e per lu mal suttili, ed Ethicia
    cimici vivi s'agghiuttinu alcuni;

    Lu mentri lu bisognu mi primia
    per longu spatiu di tridici Luni
    contra l'humuri miu gustai di tia
    cimicia in modi e Signa alli fazzuni.

    L'autore? VENEZIANO, di cui parla Sciascia, magari perché morto asfissiato nelle carceri del Sant'ufficio di Palermo e perché compagno di disavventure del Cervantes.

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  2. Non in quelle del Sant'Uffizio ma "nelle prigioni di Castellammare, in Palermo, a causa di una esplosione di polvere da sparo dell'artiglieria, posta nel magazzino delle carceri", come precisa, e questo ti farà piacere, un altro racalmutese, il poeta-notaio Giuseppe Pedalino, in un libretto che contiene i proverbi dialettali del Veneziano e, a conferma della considerazione del suo poetare in siciliano, i versi del Cervantes a lui dedicati: "El cielo que el ingegno vuestro mira...". "Il ciel, che tanto ingegno in te rimira...".

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